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Dopo 16 anni al 41 bis gli dicono: «Sei innocente»

Hasci Omar Hassan era accusato di avere ucciso Ilaria Alpi. E ora?

Hasci Omar Hassan non ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A ventidue anni dalla morte della giornalista del Tg3 e del suo operatore, assassinati in un agguato a Mogadiscio nel 1994, la Corte d’Appello di Perugia ha messo la parola fine a un processo che lo stesso procuratore generale Dario Razzi ha definito fondato su un quadro probatorio «bianco», «senza immagini, senza niente».

Hassan è ufficialmente un «capro espiatorio», che ha pagato con una condanna a ventisei anni, sedici dei quali già scontati e passati al 41 bis, per un omicidio in cui non ha avuto nessun ruolo. «I processi che hanno visto condannato Hasci – ha commentato uno dei legali Antonio Moriconisi sono retti esclusivamente su un falso testimone, tra l’altro prezzolato. Ora questo signore dopo tanti anni ha raccontato come sono andati realmente i fatti e la corte di Perugia ha dovuto inevitabilmente assolvere Omar Hassan».

«Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che Omar Hassan possa essere innocente» – così si è chiusa la requisitoria del Pg che per primo ha chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto, sostenuto dal legale della famiglia Alpi, da sempre convita dell’innocenza di Hassan, e della Rai, parte civile nel processo.
Hassan è ufficialmente un «capro espiatorio», come spesso ha detto il suo legale Douglas Douale, che ha pagato con una condanna a ventisei anni, sedici dei quali già scontati, per un omicidio in cui non ha avuto nessun ruolo.

Un «omicidio concordato» lo ha definito nel 2014 la madre di Ilaria, Luciana Alpi, su cui «tutte le nostre forze di sicurezza, dalla polizia ai carabinieri, alla Digos, non sono stati all’altezza di farci conoscere la verità». L’atto di onestà con cui l’accusa ha messo una pietra tombale sulla colpevolezza di Hassan sarà il primo gradino per poter avere verità e giustizia sul caso Alpi, facendo emergere i nomi degli esecutori materiali del delitto e dei loro mandanti?

Il passato non induce all’ottimismo.

Ilaria Alpi, il giorno della sua morte, il 20 marzo, stava battendo una pista in cui credeva molto. Giunta a Mogadiscio come inviata del Tg3 per seguire la guerra civile che infiammava la Somalia, stava sbrogliando un intricato traffico di rifiuti illegali e armi, che sembrava coinvolgere sia le autorità locali che quelle italiane. Solo poche ore prima ne aveva parlato a lungo con il sultano del Bosaso e forse era a caccia di prove o di conferme quando lei e Miran sono stati freddati mentre attraversavano in auto la parte nord della capitale. Hasci Omar Hassan lavorava nell’albergo dove alloggiavano la Alpi e Hrovatin ed è stato tra gli ultimi ad averli visti vivi.

I pilastri su cui per più di tre lustri si è poggiata la sua condanna a ventisei anni sono stati due: Ahmed Ali Rage, detto Gelle, che all’epoca dei fatti dichiarò di essere stato presente sul posto, indicando Hassan come uno dei membri del commando, e Ali Mohamed Abdi Said, l’autista del mezzo del mezzo su cui viaggiavano Ilaria e Miran, il primo a fornire una ricostruzione dell’agguato e, dopo mille ripensamenti, a confermare la versione di Gelle.

La testimonianza di Said ha iniziato a fare acqua già nel 1997. Abdi ricostruisce le concitate sequenze del duplice omicidio di fronte al pm Franco Ionta, cadendo in macroscopiche contraddizioni. Dice di essere stato colpito dalle schegge del parabrezza fatto esplodere da uno degli aggressori a colpi di kalashnikov, ma nelle immagini scattate subito dopo la morte della Alpi appare privo di ferite e addirittura di macchie di sangue.

Il destino della seconda testimonianza chiave contro Hassan è storia recente. Dopo essere scomparso alla vigilia del processo di primo grado a carico di Hashi, nel 2015 Gelle viene rintracciato da una troupe di Chi l’ha visto? in Inghilterra. Di fronte alla giornalista Chiara Cazzaniga sconfessa l’intera deposizione. Non solo non è mai stato presente all’agguato ma la sua è stata una testimonianza “su commissione”: «Hassan non c’entra nulla, sono stato pagato dagli italiani per dirlo». «Dovevo indicare un somalo», ha detto Gelle nell’interrogatorio arrivato per rogatoria all’udienza di revisione lo scorso giugno, e così è venuto fuori il nome di Hassan.

Ma perché l’accusa ha trovato una sponda nella testimonianza di Abdi? Dal momento che Ali Mohamed Abdi Said è morto, una settimana dopo essere tornato a Mogadiscio dall’Italia, nel 2003, la risposta, come ogni elemento di questo giallo all’italiana, può essere solo ricostruita montando insieme, con infinite cautele, le mille verità degli attori dell’affaire Alpi. Alcuni dei quali, ha messo in guardia Luciana Alpi si sono rivelati «venditori di fumo».

Abdi e Hashi viaggiarono sullo stesso aereo per incontrare gli inquirenti in Italia. Strana scelta quella di fare volare insieme vittima e carnefice, giustificata solo dal clima di quel momento, in cui, come dirà Rosy Bindi nella commissione d’inchiesta per il caso Alpi alla Camera, «c’erano i somali che volevano far partire qualcuno» che potesse indicare un colpevole, e gli italiani «che volevano che per forza qualcuno arrivasse».

Così per la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è arrivata una verità di comodo. Ora che è stata smantellata per sempre è giunto il momento di chiedersi chi l’ha voluta a tutti i costi e perché. Che poi è l’unico modo per trovare i mandanti e gli esecutori dell’omicidio.

Selene Pascarella da il dubbio

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L’intervista di Radio Onda d’Urto con Maurizio Torrealta, giornalista d’inchiesta e coautore del libro “L’esecuzione” (Kaos edizioni), dove – già nel 1999 – indicava i traffici d’armi e di scorie radioattive, il sottobosco politico-affaristico italo-somalo, e settori del servizio segreto militare italiano., come gli ambienti in cui maturò il duplice omicidio. Ascolta o scarica qui.

 

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