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I pm ci spieranno col cellulare. Il nostro

La Suprema corte sdogana i Trojian Horse installati sui cellulari. Ascolti possibili anche in presenza di terzi estranei all’indagine

Sono i nostri occhi e le nostre orecchie, tengono traccia di ogni conversazione, sms e e-mail che riceviamo. Una bomba a orologeria pronta a esplodere, rivelando ogni segreto. I cellulari, i tablet e i personal computer custodiscono ormai gran parte di ciò che avviene nella nostra vita e sono diventati la nuova frontiera delle intercettazioni.

Addio alle obsolete intercettazioni telefoniche e via libera (parziale) a quelle «informatiche»: collegandosi grazie a un virus ai terminali, gli inquirenti avranno accesso alle videocamere montate sui cellulari e registreranno tutte le conversazioni a portata di microfono. Tanto da trasformare i cellulari in microspie da taschino che ogni indagato porta con sè ovunque. La decisione delle Sezioni Unite penali della Cassazione, presiedute dal presidente Giovanni Canzio, ha modificato la prassi fin qui adottata dalle Procure, allargando l’ambito di utilizzo dei «captatori informatici», i cosiddetti Trojan Horse. L’utilizzo di questi spyware autoinstallanti sarà ora permesso per i reati «di criminalità organizzata, anche terroristica» e – nello specifico – nel caso di associazione per delinquere di stampo mafioso, di scambio elettorale politico-mafioso, pornografia e pedopornografia e sequestro di persona. Tutti i casi, insomma, previsti dall’articolo 51 del codice di procedura penale, «o comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato».

Il «cavallo di Troia»
Il virus di Stato si chiama così perchè il meccanismo è lo stesso architettato da Ulisse per fare entrare gli Achei a Troia. Mascherato da innoquo sms o email, l’intercettato lo apre e lo spyware si installa automaticamente sul suo cellulare. Da quel momento, i tecnici informatici hanno accesso a tutto ciò che il terminale «vede» e «sente» e anche ai suoi spostamenti, grazie al gps. Un’arma d’indagine potentissima e invisibile, perchè l’intercettato non può accorgersi del Trojan Horse. Ma soprattutto – punto controverso – non esiste alcun modo di tutelare la privacy delle terze persone che entrano in contatto con l’indagato. Nel caso oggetto del ricorso, infatti, la Procura aveva autorizzato l’utilizzo del Trojan Horse sullo smartphone di un idagato per mafia e aveva utilizzato anche le intercettazioni avvenute nella sua casa. Intercettazioni, queste, che avrebbero bisogno però di una specifica autorizzazione del gip, perchè violano la privacy di terze persone in una «privata dimora».

Il ricorrente, allora, ha chiesto ai giudici del Palazzaccio «se – anche nei luoghi di privata dimora, pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa – sia consentita l’intercettazione di conversazione mediante l’installazione di un captatore informatico». La risposta del collegio è stata affermativa, aprendo de facto ad un nuovo bilanciamento tra diritto alla privacy ed esigenze di indagine. Le Sezioni Unite hanno modificato un precedente orientamento del 2015, che escludeva l’utilizzabilità delle captazioni in mancanza di una preventiva indicazione dei luoghi da parte del giudice. La gravità del reato associativo, per le Sezioni Unite, invece giustifica la deroga alle garanzie per la salvaguardia della sfera privata.

La discussione sui «cavalli di Troia» cibernetici e sulla loro potenzialità invasiva passa ora alla Camera, dove pende una proposta di legge depositata da Stefano Quintarelli, ex di Scelta Civica e docente di Sicurezza informatica. Oppure potrebbe trovare spazio nella delega sulle intercettazioni, ora all’esame del Senato.

Giulia Merlo da Il dubbio

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