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La repressione turca sbarca negli Stati Uniti

Obama incontra Erdogan, fuori i servizi cacciano giornalisti e manifestanti. I due parlano di Siria, mentre Amnesty accusa Ankara (100 rifugiati siriani deportati ogni giorno) e Dundar e Gul affrontano la seconda udienza

Erdogan esporta il modello turco anche negli Stati Uniti: giovedì, mentre parlava al Brookings Center, gli uomini della sicurezza cacciavano i giornalisti, strappavano cartelli di protesta dalle mani dei manifestanti, picchiavano reporter. Le immagini fanno da sfondo alla “faida” Obama-Erdogan: al presidente turco, in città per il summit sulla sicurezza nucleare, era stato negato un incontro ufficiale. Ma per zittire le voci di una rottura Obama ha visto Erdogan per un dialogo informale.

Nell’intervista-fiume al The Atlantic il presidente Usa aveva già spianato la strada ad un raffreddamento: «Considera [Erdogan] un autoritario che rifiuta di usare il suo enorme esercito per portare stabilità in Siria», scriveva l’intervistatore Goldberg. Proprio la Siria è stata al centro del dialogo tra i due, con contorno di lamentele turche per il sostegno di Washington alle Ypg kurde.

La Casa Bianca, da par suo, non ha alcuna intenzione di abbandonare una forza efficace contro l’Isis. E Obama è ben consapevole che la bellicosa strategia militare turca evita l’Isis ma colpisce i kurdi. Ma ancora giovedì Ankara tornava sulla questione Rojava: se le Ypg supereranno la linea rossa, unilateralmente individuata nelle città di Azaz e Jarabulus, ripartiranno i raid.

A distanza rispondeva la Russia: secondo Rt, Mosca ha presentato al Consiglio di Sicurezza Onu le prove che Ankara avrebbe rifornito l’Isis di armi per un valore di 1,9 milione di dollari, rendendosi così il primo fornitore militare del gruppo.
I crimini delle autorità turche, avallati dal complice silenzio europeo, colpiscono anche i rifugiati siriani. Se Bruxelles dipinge la Turchia come paese sicuro in cui relegarli, il governo non li vuole: ieri Amnesty ha denunciato il rimpatrio forzato di migliaia di profughi. Una media di 100 al giorno da gennaio, tra loro donne e bambini, rispediti in una guerra a cui la Turchia partecipa nelle vesti di incendiaria.

A ciò si aggiunge una politica repressiva delle voci critiche in casa: l’incarcerazione di giornalisti e accademici, il commissariamento di quotidiani indipendenti, l’oscuramento dei social network. Il caso più eclatante è quello di Dundar e Gul, direttore e caporedattore di Cumhuriyet, imprigionati per tre mesi con l’accusa di spionaggio e sostegno ad organizzazioni terroristiche per aver svelato il tentativo dell’intelligence di consegnare armi a islamisti in Siria. Scarcerati dalla Corte Suprema, stanno affrontando il processo: ieri si è tenuta la seconda udienza, a porte chiuse come la prima. Nulla di fatto: tutto rimandato.

Prima dell’ingresso in tribunale, Dundar ha ribadito che alla sbarra dovrebbero esserci i servizi segreti e non dei giornalisti: «A processo c’è il nostro diritto ad informare e quello della gente a conoscere». Fuori, a sostegno dei due reporter centinaia di persone e membri dei partiti di opposizione Chp e Hdp, a cui è stato impedito di entrare in tribunale. Sono entrati invece 473 avvocati, intenzionati a portare avanti collettivamente la difesa di Dundar e Gul.

Dagli Usa risponde Erdogan che in un’intervista alla Cnn nega di essere in guerra con la stampa: «Non abbiamo mai fatto nulla per fermare la libertà di espressione. La stampa turca è molto critica nei confronti miei e del governo. Siamo stati molto pazienti», ha detto in un’apoteosi di ipocrisia.

Ultimo tassello del puzzle è la campagna anti-kurda a sud est: secondo la Human Rights Foundation, da agosto a marzo 310 civili kurdi hanno perso la vita in operazioni dell’esercito turco, sebbene giovedì il capo dell’aviazione Unal sia arrivato a dire che «nessun civile è stato danneggiato». Basta guardare alla giornata di ieri: due bambini, Harun Çağlı di 4 anni e Ayşenur Geçit di 6, sono morti per l’esplosione di un ordigno lasciato dall’esercito turco a Cizre.

La reazione kurda, fatta di resistenza civile e guerriglia urbana, potrebbe vivere un’escalation: giovedì Murat Karayilan, leader del Pkk e membro del Commando Generale dell’Hpg, ha annunciato l’invio di unità armate per «sostenere l’autodifesa dei giovani kurdi». Nelle stesse ore un’autobomba esplodeva alla stazione dei bus a Diyarbakir, uccidendo 7 poliziotti. Ieri il Pkk ha rivendicato l’attacco.

Chiara Cruciati da il manifesto

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