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Giro di vite in Turchia sulla libertà di espressione

Mentre si insasprisce l’aggressione turca al popolo curdo, fino a diventare una vera e propria guerra civile, Erdogan, sempre più dispotico, introduce nuove e gravi limitazioni al diritto di espressione.

La situazione della libertà di espressione in Turchia sta peggiorando a vista d’occhio. La settimana scorsa un accademico inglese è stato espulso dal paese senza processo e altri tre docenti turchi sono stati arrestati con l’accusa di diffusione di materiale di propaganda terroristica. Sempre questo mese, un tribunale di Istanbul ha ordinato il sequestro del quotidiano Zaman, molto diffuso e noto per le sue posizioni critiche verso il regime, e ne ha affidato la redazione ad un consiglio di fondazione. Solo durante l’ultimo mese, l’Index of Censorship ha registrato più di dieci violazioni della libertà di stampa, che si aggiungono alle 203 violazioni del 2014. Insieme a Reporters Sans Frontières hanno monitorato le violazioni sulla libertà di stampa negli ultimi due anni, portando alla luce risultati scomodi che hanno determinato il posizionamento della Turchia al 149° (su 180 paesi) dell’indice della libertà di stampa.

Censura sui social network

Le autorità turche non limitano la repressione della libertà di espressione soltanto ai media mainstream e l’influenza della Turchia sui social network non è più un segreto. Durante le proteste di Gezi Park del 2013, destò scalpore la clamorosa dichiarazione di Erdogan secondo cui “i social network rappresentano la minaccia peggiore alla società”. In seguito, il governo è stato capace di oscurare temporaneamente Twitter e YouTube anche se i due siti si sono dimostrati meno proni di Facebook, che invece sembra stare dando seguito alle richieste di censura senza problemi.

Grazie al lavoro dei dipendenti sottopagati di una compagnia a cui Facebook subappalta la moderazione dei propri contenuti, siamo in grado di conoscere fino a che punto Facebook abbia accettato le richieste di censura del governo turco. Il documento di riferimento per i moderatori di Facebook sulla rimozione di contenuti illegali proibisce specificatamente post contenenti i seguenti argomenti: attacchi contro Ataturk, mappe del Kurdistan, bandiere turche in fiamme, sostegno al PKK e qualunque contenuto faccia riferimento ad Ocalan. L’unica altra restrizione presente è relativa al negazionismo sull’Olocausto.

Sorprendentemente, questa politica di moderazione è applicata anche sul piano internazionale e i gestori di una pagina di informazione con quasi 200.000 iscritti, World Riots, è incappata in una violazione degli “standard di comunità” di Facebook. Il 6 marzo sono stati informati che un post di qualche giorno prima era stato rimosso e che gli amministratori della pagina (inglesi e italiani) avrebbero avuto il loro account bloccato per 24 ore. La minaccia è stata di una rimozione permanente sia degli account personali, che della pagina stessa. La violazione in questione si riferiva alla condivisione di alcune foto (rimosse nel giro di poche ore) pubblicate da un’altra pagina, chiamata Yasasin Halkin Adaleti, che ritraevano due militanti comuniste del DHKP-C uccise in uno scontro a fuoco con la polizia ad Istanbul.

Le foto delle due donne erano state immediatamente ripostate da World Riots con la seguente didascalia: “Ancora una volta Facebook ha censurato i post di solidarietà verso chi sta lottando contro il regime di #Erdogan in #Turchia. I post di ieri sulle due martiri del #DHKC e del #DHKP sono stati rimossi. RIP Berna Jilmaz (25 anni) & Cidem Jaksi (20 anni), morte in una sparatoria con la polizia turca. Condividete in massa per dire fanculo ad Erdogan e fanculo alla censura!”

Per quanto censurare un post apertamente critico verso la censura rappresenti una palese violazione delle norme sulla libertà di espressione, il comportamento di Facebook non ci ha sorpreso. Nell’agosto del 2015, un altro amministratore della pagina World Riots si era visto rimuovere, con un simile avvertimento, un “meme” in cui Erdogan vestiva i panni di un carnefice dell’ISIS. Il contenuto politico di quel post rappresentava una chiara equiparazione tra il sanguinario regime turco e le brutalità dell’ISIS, oltre che una denuncia sull’omertà che regna intorno al sostegno economico e militare che la Turchia fornisce ai combattenti islamici.

È ormai chiaro che i moderatori di contenuti di Facebook abbiano World Riots nel mirino e per la seconda volta in una settimana è stato rimosso un post e gli account degli amministratori della pagina sono stati bloccati, questa volta per 3 giorni. Il post incriminato riguardava una foto pubblicata mesi fa (non più tardi del 15 novembre) e che, visto il grande numero di post presenti, richiedeva di scorrere la pagina a ritroso per poter essere trovata.

La foto riguardava un noto murales di Bologna in cui era ritratta una donna tra due bandiere curde con la scritta “Kobane Resiste” ed esprimeva solidarietà verso una città divenuta il simbolo della resistenza antifascista e antimperialista. L’immagine non conteneva elementi di esaltazione militare e il post di commento non aveva nessun riferimento al PKK o allo YPG/J, lasciando come unici elementi incriminanti il giallo, verde e rosso delle bandiere curde, alcune stelle rosse e la consapevolezza stessa della resistenza portata avanti dalla città curda di Kobane. World Riots non si tira indietro nel pubblicare rivendicazioni politiche controverse dai possibili contenuti sovversivi od offensivi, e anzi la tenacia contro la censura e la volontà di pubblicare quelle storie spesso ignorate dai media mainstream rappresentano proprio i punti di forza della sua popolarità e della sua etica politica. Un esempio recente è rappresentato dalla pubblicazione di un post, divenuto virale con quasi 250mila visualizzazioni, di una svastica che ondeggiava sulla faccia di Donald Trump lasciando intravedere la faccia di Hitler in trasparenza. Fino al momento in cui scriviamo, questo contenuto non è stato rimosso da Facebook nonostante il parallelismo tra Erdogan-ISIS e Trump-Hitler. Perché due pesi e due misure quando si vanno a toccare le scelte politiche turche? Perché poi questo recente inasprimento della censura proprio in un momento di particolare delicatezza nelle relazioni tra la Turchia e i paesi membri della UE?

Escalation degli attacchi ai media

La particolare accortezza dimostrata da Facebook rimuovendo una foto di un graffito, è solo uno degli aspetti della preoccupante escalation della Turchia nella repressione della libertà di espressione. Tutto, con la protezione della Ue e della Nato da possibili condanne internazionali. Il segretario generale di Reporters Sans Frontières, Christophe Deloire, ha così commentato il sequestro di Zaman della settimana scorsa: “È totalmente illegittimo ed intollerabile che Erdogan abbia usato il sistema giudiziario per prendere il controllo di un grande giornale pur di eliminare la base politica del movimento Gülen. Questa operazione illegale ed ideologica come Erdogan si stia spostando dall’autoritarismo ad un vero e proprio dispotismo.”

A chiara dimostrazione di questo crescente dispotismo, anche una semplice offesa al Presidente Recep Tayyip Erdogan comporta conseguenze penali e reclusione. Nel suo report annuale sulla Turchia, Amnesty International si è così espressa: “Nel semestre conclusosi a marzo, il Ministero di Grazia e Giustizia ha avviato 105 procedimenti penali per offesa al Presidente Erdogan secondo l’Art. 299 del Codice Penale. Otto persone sono tutt’ora detenute in attesa di processo. […] A settembre, uno studente diciassettenne è stato condannato a 11 mesi e 20 giorni di reclusione dal tribunale dei minori di Konya, Anatolia centrale, per aver “offeso” il Presidente definendolo “il padrone ladrone del palazzo illegale”.

Secondo lo stesso rapporto, Canan Coşkun, giornalista della testata Cumhuriyet, rischia fino a 23 anni e 4 mesi di reclusione per aver offeso il Procuratore di Stato durante la sua indagine sulla corruzione. Paradossalmente, rispetto ai successivi scandali sulla collusione tra il regime turco e i gruppi islamisti, due dirigenti del giornale sono stati accusati di “spionaggio, divulgazione di segreto di stato e sostegno ad un’organizzazione terroristica” dopo aver insinuato che i servizi dell’intelligence turca avevano consegnato armamenti ad un gruppo armato siriano nel 2014, nonostante Erdogan avesse dichiarato che i camion trasportavano aiuti umanitari. Per lo stesso “crimine” di insulto al Presidente, Bans Ince, ex-editore del giornale di sinistra Birgün, è stato condannato a 21 mesi di reclusione.

Censura e guerra contro i curdi

Limitare la diffusione di informazioni sulla guerra sanguinosa che stanno portando avanti contro i curdi e contro le organizzazioni rivoluzionarie di sinistra rappresenta una pietra miliare nella strategia militare del regime di Erdogan. Dal momento che troppe informazioni sulla pulizia etnica in corso potrebbero scatenare ulteriori proteste in Europa, dove vivono 1,5 milioni di curdi. Alla luce della popolarità dell’HDP, partito di sinistra e pro-curdo, degli effetti negativi sulla reputazione di Erdogan a seguito delle proteste di Gezi Park, e del ruolo che i nuovi e vecchi media hanno svolto in entrambe le occasioni, la manipolazione mediatica rappresenta una componente imprescindibile delle politiche di repressione del dissenso interno.

L’esercito turco ha dichiarato di aver ucciso oltre 700 combattenti curdi (cifra fortemente esagerata) durante il coprifuoco di 79 giorni imposto dal 14 dicembre su Cizre, città curda di 132mila persone sulle rive del Tigri al confine tra Iraq e Siria. Secondo alcuni gruppi di tutela dei diritti umani, anche 92 civili sono stati uccisi e 171 corpi senza vita sono stati ritrovati dalla fine delle ostilità.

La Turchia ha sferrato il suo attacco militare nel sudest del paese nel luglio del 2015, infrangendo il cessate il fuoco firmato con il PKK nel 2013. Le forze di sicurezza turche sono entrate in alcuni insediamenti curdi su veicoli blindati per attaccare il movimento curdo. Da allora, centinaia di militanti curdi sono stati uccisi e Amnesty International ha riportato come almeno 150 civili, tra cui donne e bambini, siano stati uccisi e che oltre 200mila vite sono state messe in pericolo. La guerra di Erdogan contro il popolo curdo non è portata avanti solo dall’esercito turco nel Kurdistan turco, ma anche da gruppi islamisti foraggiati dalla Turchia, sia in Siria che nella stessa Turchia, e sono ancora vive nella nostra memoria le immagini degli attentati di Suruc e di Ankara.

Il 20 luglio 2015, 33 persone sono state uccise in un attacco suicida attribuito all’ISIS. Le vittime erano in maggior parte membri della sinistra giovanile e pro-curda impegnati nella conferenza stampa sul loro viaggio a Kobane per portare aiuti nella ricostruzione, dopo la strenua resistenza contro l’assedio da parte dello Stato Islamico. Il 10 ottobre 2015, un altro attacco suicida colpisce il movimento pro-curdo durante una manifestazione pacifica organizzata da gruppi di sinistra e da partiti politici all’esterno della stazione centrale di Ankara. La conta dei morti raggiunge 102 vittime a cui si aggiungono 400 persone ferite. L’attentatore viene identificato come il fratello del responsabile dell’attacco di Suruc, entrambi sospettati di essere legati a gruppi affiliati allo Stato Islamico. Viste le dimensioni della città e la forte militarizzazione del territorio, è difficile credere che l’attacco sia potuto avvenire alla totale insaputa dei servizi di intelligence turchi.

I legami tra il regime turco e i gruppi islamisti attivi nel conflitto siriano sono ormai assodati e non dobbiamo tornare tanto indietro nel tempo per trovare le accuse più recenti. In un’intervista rilasciata al canale russo RT e pubblicata la settimana scorsa, il portavoce della milizia curda dello YPG nel Rojava, in Siria, ha accusato la Turchia di aver fornito un passaggio sicuro per le armi chimiche usate contro di loro vicino alla città di Aleppo: “Tutti gli indizi dimostrano che queste fazioni utilizzavano armi proibite (gas Sarin) ma non possiamo raggiungere la zona di lancio perché è situata sul fronte tra l’esercito turco e i ribelli”.

La posizione geopolitica della Turchia

Non c’è molto da chiedersi sul perché Erdogan stia conducendo una guerra su larga scala contro il popolo curdo. Per il regime e per l’alleanza politica e sociale che ne ha sostenuto la salita al potere, il movimento e la sinistra pro-curda rappresentano una seria minaccia. Non soltanto perché fungono da contenitore per una forte opposizione sociale e politica, ma anche perché contribuiscono a creare quell’instabilità tanto odiata dai mercati finanziari quando colpisce economie emergenti. La crescita turca è in stagnazione, mentre la Lira turca è in caduta libera negli scambi con il dollaro e le sanzioni russe stanno colpendo duramente la produzione industriale e agricola del paese. La strategia di Erdogan, che si trova a dover affrontare una fase di stallo nel suo regime quasi ventennale, viene correttamente riassunta da un ex-rappresentante del CHP, partito dell’opposizione: “È come se Erdogan stesse dicendo: se votate per me, porterò pace e stabilità. Se non votate per me, renderò la vostra vita un inferno.”

Nonostante la diaspora curda e le coalizioni internazionali rappresentino una questione delicata per il peso internazionale della Turchia, la posizione geopolitica turca ha subito degli sviluppi nell’ultimo anno grazie al desiderio della Ue di rafforzare le sue frontiere esterne. La Turchia è un alleato chiave dell’Unione Europea per l’assorbimento dei migranti in fuga dalla guerra civile in Siria e per l’implementazione di controlli rigorosi alle frontiere. La spinta per il rafforzamento di questa alleanza, divenuta sempre più urgente dopo il picco della crisi dei rifugiati della scorsa estate, è coincisa con l’aumento della repressione e dell’impunità in Turchia. Mapping Media Freedom commenta così il tempismo del sequestro del quotidiano Zaman, avvenuto mentre funzionari e capi di stato della Ue si trovavano in Turchia in visita ufficiale: “La Turchia sta costruendo la sua posizione nel mondo non come portatore sano di standard democratici in una zona travagliata del globo, ma come una zona cuscinetto tra la Fortezza Europa e una marea umana di rifugiati siriani. Secondo la Turchia questo gli permetterebbe di potersela cavare per l’uccisione di una testata giornalistica.” Il peso dell’importanza data alla Turchia in quanto deterrente contro l’ingresso dei migranti nel continente europeo le ha permesso di rimuovere ogni parvenza di libertà di espressione, mentre l’Unione Europea si appresta a riempire le mani di Erdogan con 6 miliardi di euro in argento. Finché i politici europei daranno priorità alle proprie esigenze elettorali piuttosto che al diritto al dissenso politico in Turchia, le limitazioni alla libertà di espressione potranno solo aumentare. In Turchia come nel resto del mondo.

Rosa Gilbert, Alfredo Mazzamauro

Fonte: roarmag

Traduzione a cura di Michele Fazioli, per DINAMOpress.

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