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Costituzioni di guerra

Accordo UE-Turchia sulla pelle dei migranti e dei curdi. La pace diventa un principio esterno all’Europa

Alla fine ce l’hanno fatta. Ce l’hanno fatta a siglare fino all’ultima parola un accordo criminale i cui termini non riguardano la compravendita di un bene oppure (soltanto) lo scambio di una prestazione: la posta in gioco che è stata scambiata alla stregua di una merce sono le centinaia di migliaia di vite dei migranti, dei profughi e della popolazione curda. L’Europa ha dunque deciso da che parte stare non solo di fronte alle rivendicazioni che vengono fatte da questi soggetti coinvolti, ma anche rispetto alla guerra e al ruolo che questa deve assumere per i suoi cittadini. Implicitamente i 18 leader, con la firma dell’accordo infame, hanno incluso nell’apparato costituzionale dell’Unione Europa il principio della norma della guerra.

Lo possiamo vedere da due fatti.

Il primo passo è stato compiuto per il processo di integrazione europeo della Turchia. Tra i punti dell’accordo troviamo l’avvio della procedura per il rilascio facilitato dei visti già da giugno, nonché l’apertura di un nuovo capitolo a Bruxelles per l’annessione dello Stato turco, a patto che riesca a rispettare le 87 clausole avanzate dall’Unione Europea. Accettare la membership della Turchia targata Erdogan – in cui lo Stato di diritto non è formalmente né sostanzialmente riconosciuto; in cui le minoranze e le opposizioni politiche sono viste come un attacco all’intangibilità sacra del potere; in cui la questione curda è un problema da sradicare manu militari –  è già in sé un atto di guerra contro una parte della società turca. I 28 capi di governo hanno deciso di valutare la possibilità di inglobare un Paese dove le tensioni sociali e politiche causate da un Presidente criminale non sono simulate ma tragicamente guerreggiate. La guerra dall’alto verso il basso, la repressione, l’autoritarismo sono ben accolti nel continente della democrazia, al contrario dei migranti. Di più, si accetta che la guerra alle porte d’Europa entri direttamente nella struttura politico-giuridica e sociale del Vecchio Continente: non solo quella che si produce all’interno dei confini turchi, ma anche quella che si consuma tra Turchia e Siria. Se prima dell’accordo quella zona era considerata comunque Medio-Oriente, adesso diviene direttamente confine esterno dell’Europa. Un confine dal quale i curdi del Rojava vengono bombardati da Erdogan e dal quale passa l’ISIS.

In secondo luogo, l’accordo che prevede una vera e propria deportazione dei migranti bloccati negli hotspot e nei campi profughi in Grecia verso la Turchia è l’occultamento della responsabilità europea della guerra. Un occultamento che, tuttavia. inserisce maggiormente l’elemento bellico in sé nelle nostre codificazioni culturali e politiche. Ci sentiamo in colpa e in debito verso i mercati finanziari e le banche (Schuld riassumerebbero i tedeschi) ma non per le condizioni di vita dei migranti che anche noi abbiamo contribuito a creare muovendo pedine nello scacchiere medio-orientale. O meglio, non ci sentiamo responsabili per la vita di tutti coloro che scappano: possiamo accettare solo alcuni siriani, precisamente 72.000 (cioè il numero dei migranti arrivati in Germania in un anno). I non-siriani e coloro a cui viene respinto il diritto d’asilo possono tornarsene in Turchia, paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra sui diritti umani – anche se promette che inizierà a farlo, cosa su cui ha dei dubbi Amnesty International. I fortunati che vengono accettati, invece, potranno essere distribuiti secondo il meccanismo democratico ed efficiente della reallocation, che finora ha avuto il merito di distribuire casualmente poco più di trecento persone. Lavandosi le mani da ogni responsabilità e conferendo il ruolo di gendarme dei confini alla Turchia, la guerra viene resa una costante: come giustificare altrimenti l’investimento da tre miliardi (con eventuale aumento) da dare direttamente ad Erdogan?

L’Europa continua a considerare la guerra da un punto di vista emergenziale, il modo migliore per non riconoscerle il carattere strutturale e operare con interventi effimeri, che non trovano soluzioni sufficientemente adeguate per andare al nocciolo della questione. Agli occhi dei capi di governo dobbiamo abituarci al fatto che la guerra c’è e ci sarà per molto tempo. Un ragionamento sul lungo termine in merito a come impedire che il conflitto siriano vada avanti invece non rientra nelle previsioni. Così continuano a perdere la vita centinaia di migliaia di civili e di partigiani per la libertà e l’autodeterminazione, come accade in Rojava.

Soprattutto, l’Europa non riflette su come potrebbe ripensare la sua cittadinanza in una dimensione più universale, attiva e poggiata su dei diritti sostanziali. I meccanismi carenti e fallaci dell’accoglienza contribuiscono a creare dentro i confini europei una guerra simulata, riflesso di ciò che accade sul fronte medio-orientale. Che tipo di investimenti nelle strutture di accoglienza, di inserimento nel territorio socio-economico, di welfare, le città europee possono fare con il vincolo del patto di stabilità, anche per quei numeri limitati che l’Europa vorrebbe accogliere? Abbiamo visto in questi mesi di cosa si parla quando si citano hub provinciali e simili.

L’occultamente della responsabilità della guerra tocca infine un altro punto: i cambiamenti climatici e tutto ciò che li determina. Non sono le multinazionali occidentali del petrolio a strappare le terre alle popolazioni? Non è la lotta per l’egemonia geografica, prima ancora che culturale, a spostare gli eserciti per conquistare giacimenti? Basta vedere una cartina con i movimenti dell’ISIS per capire i suoi obiettivi. L’estrazione di carbon fossili che provoca desertificazione e siccità, oltre alle guerre per l’accaparramento delle risorse, è uno dei motivi della migrazione epocale. Parlare solo di diritto all’asilo per (alcuni) siriani è come mettere sotto al tappeto la polvere che noi stessi abbiamo creato con l’estrazione diretta del petrolio e col nostro modello di sviluppo occidentale.

Insomma, gli Stati membri hanno accettato che la guerra costituisca un fattore imprescindibile dell’Europa. Più di sessanta anni fa, nel secondo dopoguerra, il concetto di Europa inizia a svilupparsi attorno all’idea di pace e dell’abbandono degli scontri bellici nazionali. Purtroppo questo è uno dei tanti lati oscuri europei, perché la guerra è stata solo evacuata dall’interno del continente verso il fuori, le terre degli altri. Oggi ci ritroviamo a dover fare i conti, in maniera diversa, con un suo ritorno violento nella definizione della cittadinanza europea.

Fabio Mengali da Global Project

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