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«Vi scrivo dal carcere di Oristano, dove viviamo in condizioni pessime»

La lettera di un detenuto nella sezione di alta sicurezza di Massama. «Non esiste vigilanza dinamica, né videoskype: per noi “deportati” sull’isola diventa vitale, considerate le spese eccessive per le famiglie per i colloqui visivi ogni mese»

Molte carceri sono illegali, nel senso che non rispettano la cosiddetta legalità costituzionale. Questo perché, il più delle volte, violano l’articolo 32 della Costituzione che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e l’articolo 27 per il quale in nessun caso la legge può determinare come pene “trattamenti contrari al senso di umanità”. Lo scopriamo attraverso i puntuali rapporti redatti dall’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, dalle denunce da parte delle associazioni come Antigone e Yairaiha onlus, oppure dalle visite nelle carceri effettuate dal Partito Radicale. Ma lo veniamo a sapere anche da chi sconta direttamente la pena in quei luoghi.

Il Dubbio, ad esempio, ha ricevuto la lettera di un detenuto nella sezione di alta sicurezza del carcere sardo di Massama, ad Oristano. Scrive per conto di tutti gli altri detenuti, per «dare voce a chi non ce l’ha». Scrive che, loro non fumatori, sono «chiusi 20 ore al giorno, chi fuma può usufruire di due ore di saletta pomeridiana, unica saletta in sezione», e aggiunge che «non esiste vigilanza dinamica, videoskype, che per noi che siamo “deportati” sull’isola diventa vitale fare la videoconferenza con i familiari, considerate le spese eccessive che le famiglie si devono sobbarcare per fare i colloqui visivi ogni mese. Facendoci mancare il supporto familiare ci dobbiamo accontentare di telefonate ordinarie più due straordinarie se ti comporti bene».

Il detenuto aggiunge altri particolari, come il discorso del sovraffollamento. «Le celle detentive sono dimensionate per due persone – scrive nella lettera -, oggi risultano occupate tutte da tre persone, alla faccia della sentenza pilota Torreggiani. Il sovraffollamento non ci viene riconosciuto con la scusa che i letti non sono saldati alle pareti e sono provvisori. In istituto ci sono tantissimi ergastolani con problemi di salute, e che dovrebbero stare in celle singole». Ma c’è anche il discorso del lavoro, del tutto inesistente. «L’unico lavoro che ci è consentito- denuncia sempre il detenuto recluso nel carcere sardo di Massama -, è di due mesi all’anno se si è fortunati. Lo spesino, il portavitto, lo scopino, lavoro che si svolge in sezione di una ora al giorno, con una mercede di 40/ 50 euro mensili, per noi definitivi».

Non manca di denunciare la criticità idrica, con conseguenze da terzo mondo. «La sera verso le 22.15 ci viene chiusa l’acqua fino al mattino e viene aperta elle 6.30 violando le più elementari leggi sanitarie, ci organizziamo la sera riempiendo secchi e bottiglie», scrive sempre il detenuto. Poi affronta il discorso trattamentale, che secondo il recluso è del tutto carente. «Organico incompleto di educatrici, psicologi, assistenti sociali, non esistono volontari. Siamo costretti a fare decine di domandine per avere udienza con il direttore, comandante, magistrato. Ma rimangono lettere morte», si legge nella lettera. Poi aggiunge altro, che ovviamente è tutto da verificare. Sottolinea un atteggiamento, a detta sua, vendicativo da parte dell’amministrazione penitenziaria del carcere di Oristano. «Ci hanno sequestrato computer, macchinette, taglia capelli, pennarelli, pastelli, evidenziatori, materiale che utilizziamo per la scuola e la pulizia personale togliendoci il piacere di fare qualche disegno per i nostri figli», denuncia il recluso, aggiungendo che «è tutto materiale comprato regolarmente e a caro prezzo presso l’istituto, con l’aggravante della ulteriore spesa per il computer di 150 euro per renderlo “consentito”». Infine conclude, con una speranza: «Le nostre dimostranze non sono richieste di non pagare il nostro debito con lo Stato, ma sono volte a migliorare la nostra detenzione e renderla più umana. Poiché abbiamo ancora voglia di imparare, che non ci è mai passata».

Damiano Aliprandi

da il dubbio

 

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