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Vent’anni dopo il G8 di Genova c’è ancora chi vuole toglierci le piazze..

Vent’anni fa il mondo si preparava al G8 di Genova. Per raccontare quelle giornate non basta ricordare la violenza dello Stato del luglio 2001, bisognerebbe parlare di speranza: quella dei limoni del genovese Montale e quelli offerti da sconosciuti contro i bruciori da lacrimogeni; la speranza dei portoni dei che si spalancavano improvvisamente come un rifugio davanti alla disperata fuga dai manganelli; la speranza delle mutande appese, a dileggio e ribellione di assurdi divieti calati dall’alto. La speranza di quello straordinario movimento, aggredito e traumatizzato ma non piegato. Forse è per questo che vent’anni dopo c’è ancora chi vuole toglierci le piazze…

Era straniante già così: in teatro ma senza pubblico, con il mio, per fortuna inconfondibile, amico Giorgio Scaramuzzino, nascosto, mascherina compresa, da una nuvola di barba e capelli, la voglia repressa di abbracciarsi violando qualsiasi cautela antipandemica, uno schermo e interlocutori distanti ma incredibilmente coinvolti. Un tema da trattare che per molti di noi è una ferita, se non un dramma, per altri un evento epocale da libri di storia. Parlare di fatti di vent’anni fa ad insegnanti liguri di ogni scuola ed età, alcuni così giovani che quei fatti per quanto gravi li hanno solo sentiti raccontare o visti impressi in qualche pellicola, è esercizio di faticosa responsabilità. Ti costringe a domandarti continuamente davanti al commosso stupore dei tuoi interlocutori: davvero così è stato? E come è stato possibile? Come è stato tollerabile?

Per questo istintivamente avevo riempito la borsa di carte. Non solo per deformazione professionale, ma per documentare, a me stessa in primo luogo, la crudele veridicità dei miei ricordi e dei miei racconti. In realtà gli organizzatori si erano tanto raccomandati: non parlare solo della violenza, quella probabilmente la conosciamo tutti, parla dei sogni di chi credeva davvero che un mondo migliore fosse possibile. Ci ho pensato per giorni: come riuscire a scindere i sogni dalla violenza che li aveva se non infranti, certamente trasformati? E poi quali sogni? I miei, confusi di una entusiasta giovane avvocata “no global” genovese o quelli delle migliaia di persone, divise comprese, diverse per età, genere, nazionalità, formazione e metodo che affollavano le nostre piazze? Che sogni avevamo tutti? Un mondo migliore, certamente. Infinitamente migliore di quello che conoscevamo e di quello avremmo visto compiersi in quelle interminabili giornate di luglio.

La violenza era ed è monotona e oggettiva. I sogni no. I sogni hanno, fortuna loro, migliaia di sfumature e toni. Come raccontarli? Parla della speranza, mi suggeriscono. E allora penso immediatamente, per repentina incontrollata associazione di immagini, ai limoni. Non solo per il naturale affetto per Montale ma perché la speranza in quei giorni era il refrigerio dell’acqua (lanciata anche a secchi) e i limoni (rimedio naturale contro i bruciori da lacrimogeni) offerti da sconosciuti, erano i portoni dei genovesi che si spalancavano improvvisamente come un rifugio davanti alla nostra disperata fuga dai manganelli. La speranza erano le mutande appese, a dileggio e ribellione di assurdi divieti calati dall’alto. La speranza era gialla come il sole cocente di quei giorni e aspra come certe medicine.Erano i medici, gli infermieri, gli avvocati del Genoa Legal Forum. E i giornalisti che hanno fotografato e descritto ogni secondo di violenza di cui sono stati testimoni e in molti casi vittime. Così che non si potesse dire che non era stato, come pure hanno tentato di fare.

Speranza sono alcune sentenze (per prime quelle che hanno annullato i decreti di espulsione emessi ai danni dei manifestanti stranieri e in un caso, buon peso, anche di un’italiana) e su tutte quelle definitive e inesorabili della Corte Europea dei diritti dell’uomo che condannano l’Italia per tortura. Ma nessuna di loro può cancellare l’orrore, anzi semmai lo cristallizzano nel faticoso e a volte inutile tentativo di sanzionare i responsabili.Anche la speranza alla resa dei conti è imbrattata di sangue.

Alla fine chi ha vinto? mi chiede un mio giovane amico a bruciapelo mentre rincorro i miei pensieri. Verrebbe facilmente da rispondere che abbiamo perso tutti. Ma non è cosi. Molti di noi, e di certo i nostri sogni, ne sono usciti traumatizzati ma non piegati, in qualche modo anzi rinforzati, più lucidi e determinati. D’altronde se i nostri sogni e il diritto di averli facevano così paura da dover tentare di reprimerli con le botte, le torture e un omicidio, devono essere ben potenti e rivoluzionari. Forse per questo vent’anni dopo c’è ancora chi vuole toglierci le piazze.

Alessandra Ballerini

da Comune-Info

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