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Un deserto umano chiamato decoro

Quando alcuni “giornalisti” del “Giornale” associano la tragica scelta di interrompere una vita alla sporcizia delle strade.

Milano in questi ultimi giorni ondeggia tra amore e morte. In entrambi i casi, due tra gli stati umani più elementari, naturali e tragici si trasformano in peccato. Così Alberto Giannoni e Marta Bravi ci dipingono questo “girone infernale” fatto di morti suicidi e giovani senza casa che, in mancanza d’altro spazio di intimità, si lasciano trascinare dal piacere sessuale en plein aire. I due giornalisti del “Giornale” di Sallusti, quotidiano noto per la sua intolleranza xenofoba e islamofoba, non tardano a classificare sotto la comune etichetta di “degrado” la tragica morte per impiccagione di un ragazzo maliano, il girovagare di “migranti” senza documenti né certezze, l’atto d’amore di due senzatetto o la richiesta di una moneta ai passanti. Per tutti invocano implicitamente la rimozione dallo sguardo della “gente perbene” di queste figure fastidiose e di loro gesti, presenze “indesiderate” nello spazio vitale dei cittadini decorosi.

A questa “volontà di decoro” risponde chiaramente il “decreto Minniti” sulla sicurezza urbana, dove il concetto di sicurezza è inteso come esclusione e rimozione dei soggetti che minano l’etica di Stato del decoro: richiedenti asilo, ambulanti, senzatetto, marginali, “dublinanti”. Con una parola: abbandonati.

A Milano, città simbolo del capitalismo finanziario definita dal “Giornale” la capitale morale d’Italia, il 2 maggio scorso è stato portato avanti un grande blitz – con schieramento di agenti in tenuta antisommossa, a cavallo e in elicottero – ordinato dal Questore allo scopo di controllare i documenti dei migranti per scovare i cosiddetti “irregolari” da predisporre al rimpatrio. Una mega retata su base etnica, motivata dal solito frame del “degrado” della zona, che alla fine ha prodotto un risultato paradossale: le persone sono state portate in commissariato principalmente per ricevere il permesso di soggiorno per protezione umanitaria, perché ne erano titolari senza aver ricevuto comunicazione dalla Commissione competente.

Dietro a questa caccia al migrante è celato un processo discriminatorio dell’ormai non più nuovo governo che, in perfetta linea con il precedente, porta avanti simili pratiche intimidatorie con l’obiettivo di “ripulire” strade e frontiere scegliendo in maniera selettiva chi merita di restare e chi deve essere messo al margine della società, del welfare, dell’accoglienza e dell’assistenza. Nella prima linea di queste nuove “crociate conto lo straniero” c’è il vessillo di un’etica del decoro sempre più declinata nei termini della “criminalizzazione della povertà”. Infatti, come in ogni guerra le morti sono all’ordine del giorno. Queste nuove crociate non brandiscono alcuna spada, ma categorie burocratiche, come quella che definisce l’irregolarità di una persona su un territorio, o riflessi razzisti mai cancellati, legati a quella linea del colore che ricalca la linea della classe.

Sono le deportazioni, le retate indiscriminate, il razzismo istituzionale e diffuso che dietro la maschera della sicurezza creano soggettività sempre più vulnerabili e ricattabili, una moltitudine di uomini e donne che attraversano strade sconosciute alla ricerca di un accampamento di fortuna o di un documento, un pezzo di carta sempre più difficile e lontano da raggiungere, perché sempre più lunga e discriminatoria è la procedura da seguire.

Dopo neanche una settimana dal blitz, sempre a Milano, proprio nei pressi della stazione centrale, un migrante trentunenne originario del Mali si è impiccato appendendosi con un cappio a un pilone lungo la massicciata ferroviaria, dal lato della strada di via Ferrante Aperti.

In pochi giorni, la stessa stazione centrale di Milano è stata quindi luogo di farsa e di tragedia, di rappresentazione sicuritaria per le masse e di un gesto concreto di disperazione individuale.

Questa morte allunga la lista dei suicidi prodotti da esclusione sociale, incertezza e marginalizzazione. Sembra un’assurdità, ma si continua a morire anche quando si pensa di essersi salvati: a gennaio scorso, Pateh Sabally, un gambiano di 22 anni ha perso la vita buttandosi nel Canal Grande di Venezia dopo aver ricevuto la revoca del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ancora a marzo di quest’anno, un giovane profugo somalo, Maslah Mohamed, si è impiccato ad un albero in un parco di Pomezia, dopo essere stato rimpatriato dal Belgio all’Italia con l’applicazione del regolamento Dublino sul primo Paese d’arrivo. Tante altre se ne potrebbero ricordare di storie di uomini e donne che dopo lo sbarco vengono presi sotto la tutela dello Stato, ma in realtà finiscono abbandonati senza alcuna garanzia di dignità.

A un complesso di leggi e regolamenti funzionali a “irregolarizzare” alcuni corpi, a un sistema d’accoglienza utile a isolare ed escludere, si aggiungono le accelerazioni securitarie e repressive delle ultime settimane, da parte di un governo che insegue le più becere retoriche razziste, della Lega come dei 5 Stelle. Ci troviamo davanti all’applicazione di una precisa logica che accomuna le nuove leggi in materia di immigrazione e di sicurezza urbana: una stretta securitaria mirata alla selezione di chi è assimilabile a un’ideale di normalità e produttività e di chi, invece, in nome del decoro, deve essere reso invisibile, respinto ed espulso. In particolar modo, con il decreto sulla sicurezza urbana, viene sistematizzata la strategia di “pulizia” della città già fortemente implementata dai processi di gentrificazione e disciplinamento dentro lo spazio urbano.

E infatti, ciò che disturba i giornalisti del “Giornale” è la presenza e il verificarsi di questi fenomeni – in particolar modo dell’atto sessuale – nel “perbene” corso Garibaldi, zona un tempo popolare ma oggi vissuta da vip, starlette e famiglie, considerate portatrici di un inattaccabile diritto alla sicurezza e all’esistenza in spazi urbani decorosi. In fondo, il decoro rimane sempre questione di classe: riguarda sempre e solo l’occhio offeso da un corpo penzolante o da un orgasmo in pubblico e mai quel degrado sociale che lascia le persone senza speranze, senza affetti o senza casa.

Per noi non è difficile dire se quella coperta di “gemiti rosa” sia più offensiva e scabrosa del corollario di banche, enoteche, ristoranti e bar finalizzati a soddisfare la Milano che consuma e quindi conta. Noi ci schieriamo dalla parte dei cosiddetti indesiderati ed irregolari, il cui diritto all’esistenza, a dire degli editorialisti del “Giornale”, vale meno della salvaguardia dello stile di vita della classe media milanese e della sua movida.

L’associazione tra mendicanti, venditori ambulanti, senzatetto e “profughi che si impiccano lungo i binari” è il riflesso automatico di una società impazzita dietro a un’idea di decoro che dissolve problemi sociali e sofferenze individuali dentro una categoria di offesa estetica allo sguardo dei ricchi. Contro questo discorso, contro questo regime di produzione di verità, contro le leggi Minniti-Orlando che ne ratificano giuridicamente il valore e l’effettività occorre affermare volontà di accoglienza, diritto per tutti e tutte di attraversare le città e i confini, capacità collettiva di abbattere tutte le frontiere, quelle che producono morte ai confini dell’Europa e di quelle altre che lo fanno nel cuore delle sue città.

Daniela Gallé

da dinamopress.it

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