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A Udine la solidarietà è reato !

La Procura accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina tre volontari, per aver fornito informazioni legali su come richiedere asilo. Un’inchiesta che stravolge l’articolo 2 della Costituzione

In Friuli il filo spinato che divide l’Europa è già entrato nel codice penale. La Procura di Udine ha indagato tre volontari, due ragazze italiane e un interprete afghano, per aver accompagnato trenta richiedenti asilo alla Caritas, per aver fornito loro il proprio numero di cellulare, per aver dato indicazioni precise su come rispettare la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato. Il reato contestato è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: rischiano fino a quattro anni di carcere.

Le due ragazze, presidente e vicepresidente dell’associazione “Ospiti in arrivo” di Udine, e l’interprete, in servizio presso la Commissione territoriale rifugiati di Gorizia, sono accusati di trarre «in concorso morale e materiale tra loro, un ingiusto profitto (pari, quantomeno al 5 per mille in caso di riconoscimento dell’associazione) dalla condizione di illegalità di vari extracomunitari, giunti nella provincia di Udine illegalmente e in prevalenza attraverso la rotta balcanica», è scritto nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Lo stesso atto giudiziario riscontra comunque che “Ospiti in arrivo” non è censita dalla prefettura e non riceve alcun finanziamento attraverso il 5 per mille.

Dal punto di vista lessicale, non fa una grinza. Dal punto di vista sostanziale la Procura di Udine sta affermando una pericolosa interpretazione giuridica. E cioè: accompagnare i profughi alla Caritas, fornire loro informazioni, fare in modo che rispettino la legge è reato. La stessa solidarietà diventa reato. L’esercizio della stessa Costituzione si riduce così a un crimine. Sancisce infatti l’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». È vero, è un enunciato piuttosto sovversivo oggi.

Il pericolo però è nelle conseguenze sulla vita quotidiana. Se perfino i volontari di un’associazione rischiano tanto penalmente, l’interpretazione che molti di noi ne potrebbero dare è un ulteriore invito a voltare la faccia e fregarsene. Una specie di penalizzazione del gesto umano e di depenalizzazione dell’omissione di soccorso che invece, fino a decisione contraria del Parlamento, è reato. Portando all’estremo questa interpretazione, perfino i comandi della Marina militare e della Guardia costiera andrebbero mandati a processo, visto che con i loro mezzi i profughi li vanno addirittura a raccogliere in mare e li portano in Italia.

Udine, con Trieste e Gorizia, è una delle prime città italiane di approdo della rotta balcanica. Di sgombero in sgombero da parte della questura, spesso i profughi finiscono a dormire nei parchi, sotto i portici, nelle fabbriche abbandonate. L’indagine sui tre volontari, di età compresa tra i 23 e i 30 anni, e su altri quattro collaboratori dell’associazione comincia nelle notti del febbraio 2015 da una serie di operazioni.

Prima il blitz della polizia nell’ex acciaieria Safau, poi in un immobile demaniale abbandonato in via Chinotto, poi nell’ex sede dell’azienda energetica di via Scalo Nuovo, nell’ex concessionaria Alfa Romeo in via Cormor Basso 2 e infine nell’ex caserma Osoppo. In realtà si tratta in gran parte degli stessi profughi afghani e pakistani, una quarantina, che si spostano in cerca di riparo nel totale disinteresse degli enti pubblici friulani. Il problema, spiegano i richiedenti asilo, è dovuto soprattutto ai ritardi con cui la questura consegna la ricevuta che attesta la domanda di protezione umanitaria: passano anche tre settimane e in quel periodo le persone non possono accedere a nessuna forma di assistenza, né di ospitalità. Nemmeno in hotel, nella remota ipotesi che qualcuno abbia con sé abbastanza denaro. Una procedura che altre questure, fuori dal Friuli Venezia Giulia, risolvono in pochi minuti.

I sette volontari, sul posto per distribuire coperte, viveri e fornire informazioni legali, vengono identificati e indagati dalla polizia per “invasione di terreni o edifici” e per “deturpamento e imbrattamento di cose altrui”. Reati commessi in concorso: in questo il giudice potrà valutare se sussistesse o no lo stato di necessità. Le due responsabili dell’associazione e l’interprete che le sta aiutando, però, vengono messi sotto inchiesta anche per il reato ancora più grave di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sul suolo italiano.

E qui è fondamentale la formula usata dalla Procura, al capo B del suo avviso di conclusione delle indagini, per descrivere come si possa infrangere la legge nell’esercizio della solidarietà: «Accogliendo e accompagnando circa trenta clandestini afghani presso la Caritas di via Treppo il 29.12.2014», cioè in pieno inverno, nel mezzo delle vacanze tra Natale e Capodanno. E ancora: «Fornendo il proprio numero di cellulare a svariati soggetti al fine di assicurarne la diffusione in capo ai clandestini che arrivavano a Udine o provincia, così venendo da loro contattato al fine di poterne poi organizzare il ricovero presso strutture o altro» e viene riportato un caso del 19 agosto 2014, altro periodo dell’anno in cui gli enti pubblici, che già a Udine fanno molto poco, sono chiusi per ferie. E poi: «Fornendo indicazioni precise su come muoversi in Italia, in particolare per quanto concerne la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato politico anche presso la Commissione territoriale di Gorizia, dove lo stesso A. Z. prestava la propria attività come interprete».

La Procura di Udine avrebbe potuto già disporre l’archiviazione del capo B. Qualora richiedesse il rinvio a giudizio per i tre, aprirebbe invece un nuovo, drammatico corso che metterebbe in discussione l’operato di migliaia di volontari, di associazioni laiche, parrocchie, l’Alto commissariato per i rifugiati, le stesse direttive attuali del ministero dell’Interno. Tanto da dover considerare perfino il messaggio del Papa, più volte ribadito, alla stregua di una pericolosa istigazione a delinquere.

Fabrizio Gatti da L’Espresso

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