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Torino 11 aprile 1969: rivolta alle Nuove. I detenuti devastano il carcere

Il ciclo di lotte dei detenuti contro le disumane condizioni di vita nei penitenziari comincia nel giugno del 1968, portando avanti parole d’ordine piuttosto avanzate sulla riforma delle carceri e contro la carcerazione preventiva. Ha una certa importanza il lavoro di inseminazione politica portato avanti dagli studenti arrestati per le lotte universitarie, d’altra parte si rileva un carattere episodico dovuto sia alla mancanza di organizzazione interna, sia all’importanza eccessiva dei motivi di contenuto immediato.
La rivolta parte dalle Nuove di Torino e si estende a San Vittore e a Poggioreale.
A metà gennaio 1969 nuova rivolta, di minor rilievo, a Torino in occasione della “controinaugurazione” dell’anno giudiziario.

LA PROTESTA PACIFICA – Il salto di qualità si compie nell’aprile 1969. La rivolta non a caso comincia l’11, nel giorno dello sciopero generale per i fatti di Battipaglia, per ribadire la richiesta di riforma e con una azione di denuncia e di appello all’opinione pubblica. Si continua con la critica a tutto l’ordinamento giudiziario, alla giustizia di classe (negli slogan e nelle dichiarazioni ai giornali i detenuti introducono spesso duri attacchi all’istituto della difesa d’ufficio, e soprattutto della custodia preventiva, due nodi fondamentali del sistema classista della giustizia italiana).
A dirigere, a parte i primi due giorni in cui comandano i “capoccia”, vecchi detenuti abbastanza compromessi col direttore, e a lanciare parole d’ordine è il “comitato di base” costituito da elementi giovani che si impossessano del ciclostile per diffondere una “carta rivendicativa” in cui si propone l’elezione di un comitato delegato a fare una conferenza stampa e l’impegno di astenersi dai danneggiamenti nel caso le autorità avessero preso impegno di non dar corso a punizioni e trasferimenti.

LA RIVOLTA VIOLENTA – Le autorità non si assunsero impegni. In seguito a ciò, nell’ultimo giorno il comitato non riesce minimamente a indirizzare la rivolta, che si fa violentissima. Bisogna ricordare che, nella fase non violenta e protestataria la polizia già segue una tattica brutale, imbottendo il carcere di bombe lacrimogene.
La giusta violenza dei carcerati è non solo una risposta alla repressione, ma anche un tentativo pratico-politico di riforma carceraria a modo loro. Infatti è distrutta la cappella (la religione è una delle chiavi del cosiddetto sistema rieducativo basato sulla violenza); l’ufficio matricola; l’ufficio fascicoli personali, dove il detenuto riceve il marchio di reietto; l’infermeria simbolo della discriminazione classista interna, in quanto è noto che le persone di elevata condizione (o che possono pagare) vi sono ricoverate sine die. Sono distrutte le fogne del 1857 e le tubature d’acqua antiquate, i miseri “impianti” per l’igiene, con lo scopo dichiarato di farle costruire nuove e come denuncia di una condizione di vita disumana. Sono resi inservibili i macchinari delle lavorazioni su cui si fatica otto ore per guadagnare 350 lire al giorno. Le autorità dapprima reprimono duramente, poi invece è il trionfo del paternalismo e delle promesse a buon mercato. Conclusione: l’ordine è ristabilito, col trasferimento punitivo verso carceri lontane: questo significa aggravare l’isolamento del recluso e prolungare di molto la detenzione preventiva, visto che i giudici istruttori rimangono a Torino ed in questo modo le procedure si allungano di anni.
Dopo una rivolta a pagare rimangono sempre e solo loro, i detenuti. E sono anni di galera in più.

Ugo Maria Tassinari

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