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Il Che sul braccio, Fidel nel cuore. Hasta siempre Diego!

Addio a Diego Armando Maradona, morto a 60 anni. La vita oltre lo sport del calciatore più grande di sempre. La passione politica. Comunista? Forse. Di sicuro fu castrista, chavista, peronista di sinistra, nazionalista anti-Thatcher. Riceve Estela Carlotto, la prima Madre di Plaza de Mayo, incontra Chavez, caccia Macrì

Giocò, vinse, pisciò, perse. E va bene, questa è di Eduardo Galeano, che a calcio era uno scarpone irredimibile ma capiva di pallone e di persone, di storie e di vite, e quella di Diego Armando Maradona era ingombrante e magnifica e tremenda, con o senza una palla tra i piedi. Ma dirlo meglio non sembra possibile.

TRA GIOCARLA E PERDERLA – la partita, la vita – c’è quel labirinto di contraddizioni chiamato Diego, il genio del campo e il folle fuori, il cacciatore e il cacciato di un’industria mediatica che lo ha adorato e crocifisso a giorni alterni. Forse il solo cardine se lo portava inciso sul braccio destro: Ernesto Che Guevara, il ritratto scattato da Alberto Korda e trafugato da Giangiacomo Feltrinelli.

Certo, è mica l’unico: sant’Ernesto ce l’ha la Bruja Sebastian Veron, ce l’ha Carlitos Tevez, il Pipita Gonzalo Higuain ha preferito «Hasta la victoria siempre» alla base della schiena, per parlare solo di calciatori argentini.

MA ERA IL CHE DI DIEGO che dominava, «nessuno mai mi ha mai lasciato un’ispirazione più forte della sua». Negli anni quel Che magro e scavato si era alquanto arrotondato sul braccio sempre più florido, ormai assomigliava a Abatantuono. Ma restava lì, indiscutibile.

Comunista, Maradona? In un certo senso resistenziale, certamente. E castrista, chavista, peronista di sinistra, nazionalista argentino vendicatore delle Malvinas, con il gol della «mano de dios» e il «gol del siglo» sbattuti in faccia alla signora Thatcher che tempo prima era salpata per affondare l’incrociatore General Belgrano e con esso la tenuta politica dell’atroce dittatura nata con Videla.

Gli anni della pelota patriottica, l’amicizia con quel lestofante di Carlos Menem el Bigote, il presidente coi basettoni che impose la parità fissa peso-dollaro e mandò a catafascio una nazione – amicizia impolitica tra personaggi eccessivi.

SI FARÀ AMPIAMENTE PERDONARE, in patria e fuori. Ad esempio ricevendo Estela Carlotto, la prima Madre di Plaza de Mayo, in un ritiro mondiale dell’Argentina: «Tutti noi vogliamo verità e giustizia», disse, non aggiunse «e ritorno con vida» come le Madri perché le madri erano nel frattempo diventate nonne, e trentamila desaparecidos non sarebbero tornati mai più, né con vida né senza.

Ad esempio presentandosi a Mar del Plata nel 2005 dopo il default argentino, all’enorme protesta per la IV Cumbre de Las Americas che fece saltare lo scellerato Alca, l’accordo di libero commercio delle Americhe che era – avrebbe detto Guevara – «libera volpe in libero pollaio». Si presentò con una maglietta «Stop Bush» – e la esse di Bush era una esse runica.

IL CHE SUL BRACCIO, ma Fidel nel cuore. È il vecchio Castro che nel 2000 lo invita a Cuba per disintossicarsi dopo fastelli di tentativi andati male. Castro che morirà il 25 novembre, proprio come Diego. Cuba produce medici in grande quantità e qualità, al Centro de salud La Pradera anche medici specializzati in dipendenze.

All’Avana Maradona riesce a staccarsi dalla cocaina che gli ha avvelenato naso e cervello negli anni al Napoli, anni di speranza e di riscatto meridionale come pure di amicizie col clan Giuliano, anni in cui pippava a tutto spiano e andava all’antidoping col pene finto e l’altro argentino che butterà fuori l’Italia dal Mondiale del ‘90 non lo chiameranno più Cladio Pol Caniggia ma Claudio Pol Verina.

Negli spogliatoi italiani due estremisti di sinistra, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano e il giornalista italiano Gianni Minà, assistevano increduli a un palleggio funambolico con un’arancia. «L’ho toccata con la mano? Dite di no? Invece sì, l’ho toccata anche con la mano».

E POI INCONTRI E FOTO e amicizie: con Hugo Chavez in Venezuela, con Evo Morales in Bolivia, con Rafael Correa in Ecuador, con Lula in Brasile – tutti pericolosi caudillos secondo il Dipartimento di stato americano. Il 26 dicembre del 2019 era andato in visita alla Casa Rosada, la sede del presidente dell’Argentina, il peronista di sinistra Alberto Fernandez.

E su sua richiesta si era affacciato dal celebre balcone, gridando contro l’ex presidente di destra Macri: «Nunca mas, che se ne vada in Thailandia!» e salutando la folla. Come il capo di stato che in effetti era. Uno stato che abita tra il cuore e lo stomaco di chiunque abbia mai giocato con una palla.

Roberto Zanini

da il manifesto

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A Diego

Con Maradona il mio rapporto è stato sempre molto franco.

 Io rispettavo il campione, il genio del pallone, ma anche l’uomo, sul quale sapevo di non avere alcun diritto, solo perché lui era un personaggio pubblico e io un giornalista.

Per questo credo lui abbia sempre rispettato anche i miei diritti e la mia esigenza, a volte, di proporgli domande scabrose.

So che la comunicazione moderna spesso crede di poter disporre di un campione, di un artista soltanto perché la sua fama lo obbligherebbe a dire sempre di sì alle presunte esigenze giornalistiche e commerciali dell’industria dei media.

Maradona, che ha spesso rifiutato questa logica ambigua, è stato tante volte criminalizzato.

Una sorte che non è toccata invece, per esempio, a Platini, che come Diego ha detto sempre no a questa arroganza del giornalismo moderno, ma ha avuto l’accortezza di non farlo brutalmente, muro contro muro, bensì annunciando, magari con un sorriso sarcastico, al cronista prepotente o pettegolo “dopo quello che hai scritto oggi, sei squalificato per sei mesi. Torna da me al compimento di questo tempo.”

Era sicuro, l’ironico francese, che non solo il suo interlocutore assalito dall’imbarazzo non avrebbe replicato, ma che la Juventus lo avrebbe protetto da qualunque successiva polemica.

A Maradona questa tutela a Napoli non è stata concessa, anzi, per tentare di non pagargli gli ultimi due anni di contratto, malgrado le tante vittorie che aveva regalato in pochi anni agli azzurri, nel 1991 gli fu preparata una bella trappola nelle operazioni antidoping successive a una partita con il Bari, in modo che fosse costretto ad andarsene dall’ Italia rapidamente.

Eppure nessuno, né il presidente Ferlaino, né i suoi compagni (che per questo ancora adesso lo adorano) né i giornalisti, né il pubblico di Napoli, hanno mai avuto motivo di dubitare della lealtà di Diego.

Io, in questo breve ricordo, a conferma di questa affermazione, voglio segnalare un semplice episodio riguardante il nostro rapporto di reciproco rispetto.

Per i Mondiali del ’90, con l’aiuto del direttore di Rai Uno Carlo Fuscagni, mi ero ritagliato uno spazio la notte, dopo l’ultimo telegiornale, dove proponevo ritratti o testimonianze dell’evento in corso, al di fuori delle solite banalità tecniche o tattiche. Questa piccola trasmissione intitolata “Zona Cesarini”, aveva suscitato però il fastidio dei giovani cronisti d’assalto (diciamo così…) che occupavano, in quella stagione, senza smalto, tutto lo spazio possibile ad ogni ora del giorno e della notte. La circostanza non era sfuggita a Maradona ed era stata sufficiente per avere tutta la sua simpatia e collaborazione.

Così, nel pomeriggio prima della semifinale Argentina-Italia, allo stadio di Fuorigrotta di Napoli, davanti a un pubblico diviso fra l’amore per la nostra nazionale e la passione per lui, Diego, mi promise per telefono: “Comunque vada verrò al tuo microfono a darti il mio commento. E tengo a precisare, solo al tuo microfono.”

La partita andò come tutti sanno. Gol di Schillaci e pareggio di Caniggia per un’uscita un po’ avventata di Zenga.

Poi supplementari e calci di rigore con l’ultimo, quello fondamentale, messo a segno proprio da quello che i napoletani chiamavano ormai “Isso”, cioè Lui, il Dio del pallone.

L’atmosfera rifletteva un grande disagio. Maradona, per la seconda volta in quattro anni, aveva riportato un’Argentina peggiore di quella del Messico, alla finale di un Mondiale che la Germania, qualche giorno dopo, gli avrebbe sottratto per un rigore regalato dall’arbitro messicano Codesal, genero del vicepresidente della Fifa Guillermo Cañedo, sodale di Havelange, il presidente brasiliano del massimo ente calcistico, che non avrebbe sopportato due vittorie di seguito dell’Argentina, durante l’ultima parte della sua gestione.

C’erano tutte le possibilità, quindi, che Maradona disertasse l’appuntamento. E invece non avevo fatto a tempo a scendere negli spogliatoi, che dall’enorme porta che divideva gli stanzoni delle docce dalle salette delle tv, comparve, in tenuta da gioco, sporco di fango e erba, Diego, che chiedeva di me, dribblando perfino i colleghi argentini. C’era, è vero, nel suo sguardo, un’espressione un po’ ironica di sfida e di rivalsa verso un ambiente che in quel Mondiale, non gli aveva perdonato nulla, ma c’era anche il suo culto per la lealtà che, per esempio, lo aveva fatto espellere dal campo solo un paio di volte in quasi vent’anni di calcio.

Cominciammo l’intervista, la più ambita al mondo in quel momento, da qualunque network.

Era un programma registrato che doveva andare in onda mezz’ora dopo, perché più di trent’anni di Rai non mi avevano fatto “meritare” l’onore della diretta, concessa invece al cicaleggio più inutile.

Ma a metà del lavoro eravamo stati interrotti brutalmente non tanto da Galeazzi (al quale per l’incombente tg Diego concesse un paio di battute) ma da alcuni di quei cronisti d’assalto che già giudicavano la Rai cosa propria e che pur avendo una postazione vicina ai pullman delle squadre, volevano accaparrarsi anche quella dove io stavo intervistando Maradona. El Pibe de Oro fu tranciante: “Sono qui per parlare con Minà. Sono d’accordo con lui da ieri. Se avete bisogno di me prendete contatto con l’ufficio stampa della Nazionale argentina. Se ci sarà tempo vi accorderemo qualche minuto.” Aspettò in piedi, vicino a me, che terminasse l’intervista con un impavido dirigente del calcio italiano, disposto a parlare in quella serata di desolazione, poi si risedette, battemmo un nuovo ciak e terminammo il nostro dialogo interrotto. Quella testimonianza speciale, di circa venti minuti, fu richiesta anche dai colleghi argentini, e andò in onda (riannodate le due parti) dopo il telegiornale della notte.

Fu un’intervista unica e giornalisticamente irripetibile, solo per l’abitudine di Diego Maradona a mantenere le parole date.

Lo stesso aveva fatto per i Mondiali americani del ’94 quando aveva accettato per due volte di ritornare all’attività agonistica in nazionale prima per assicurare la partecipazione alla querida Argentina nel match di spareggio contro l’Australia e poi giocando tre partite all’inizio dei Mondiali stessi, prima che lo fermassero. Eppure, val la pena ricordarlo, nel momento in cui, con un’accusa ridicola era stato sospeso per doping dopo le prime due partite.

La Federazione del suo amato paese non aveva mandato nemmeno un avvocato a respingere legalmente l’imputazione che non stava in piedi: “Hanno preferito trafiggere con un coltello il cuore di un bambino” aveva commentato Fernando Signorini, il suo allenatore e consigliere, quando la mattina dopo ci eravamo incontrati.

L’intervista da un motel dove aveva soggiornato con i parenti l’avevo ottenuta io. I giapponesi l’avevano mandata in diretta e i francesi in differita, un po’ di ore dopo, non credendola possibile.

Così, insomma, questo modo di comportarsi da grande e da piccino lo ha portato a superare ogni avversità e pericoli – anche quelli che sembravano impossibili – della sua esistenza.

Dalla polvere di Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires, dove è cominciata la sua avventura di più grande calciatore mai nato alla militanza politica nei partiti progressisti latinoamericani per i quali ha dato molte volte la propria faccia.

Nessun calciatore è mai arrivato a tanto.

Diego, per una ironia del destino, se n’è andato da questo mondo lo stesso giorno di un altro gigante, Fidel Castro.

Alla fine li rimpiangeremo, come succede a chi ha lasciato una traccia indelebile nel gioco del calcio e della vita.

E ora silenzio.

Il suo prezzo al mondo del pallone lo ha pagato da tempo.

Gianni Minà

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L’ultima finta di Maradona

La città che lo ha accolto come uno di casa, non solo come il dio del pallone. Da qui, giustamente, arrivano decine di omaggi, che testimoniano di un rapporto miracoloso e raro in quello che in genere è solo un business ideologizzato.

Diego e io

Arrivò in estate, era il 1984. Ero solo un quindicenne e ricordo ancora i caroselli d’auto, i tuffi nelle fontane, all’annuncio dell’avvenuto acquisto. In realtà già da settimane vicoli e strade erano piene di sue immagini, di gadget di tutti i tipi con il suo volto.

Il manager di Diego si era lamentato di ciò perché i prodotti che sfruttavano la sua figura erano sottoposti a stretto, e danaroso , copyright. Se ne fece in seguito una ragione.

Insomma neanche era arrivato e a Napoli si festeggiava come a una vittoria sportiva. Si perché appariva veramente incredibile che “ il più forte calciatore del mondo” venisse proprio a Napoli. No a Torino no a Milano ma a Napoli. Pazzesco.

E me ne resi conto ancora meglio perché ad ottobre di quell’anno con la famiglia ci trasferimmo a Bergamo. Per me , tra i vari dolori del lasciare la città natale, c’era anche quello di non potermi godere le gesta del campione. Mi dicevo, con la mia ingenuità da adolescente: ma come a Napoli arriva Maradona e noi ce ne andiamo?

In realtà vivere a Bergamo ti dava la possibilità di vedere un sacco di partite del Napoli. Milano a pochi km, Atalanta, Brescia e Como in serie A. A volte pure la Cremonese. Verona a un’ora soltanto di treno. E Torino non lontanissima da andare ad espugnare.

L’11 maggio dell’87, il day after, a scuola il professore di latino accettò la mia richiesta di non essere interrogato perché ero campione d’Italia. “Mi sembra giusto”, disse il simpatico prof orobico.

Si perché era chiaro a chiunque che vincere a Napoli non era la stessa cosa che vincere altrove. Nessuna squadra del sud lo aveva mai fatto. Persino la piccola Verona ci era riuscita ma noi no.

Per un pischello come me, catapultato nella ricca Lombardia, allora attraversata dai primi deliri leghisti e con i canali Fininvest già a pieno regime, era difficile parare sempre le cazzate su Napoli e sui meridionali in genere.

Il primo giorno di scuola che feci a Bergamo, un ragazzo mi chiese se fosse vero che quando passava il boss per strada dovevamo assolutamente salutarlo. Insomma mi chiedevano cose così. Mio padre fin quando non cambiò la targa dell’auto, che era NA, aveva sempre gente che gli suonava addosso. Appena mise quella BG i clacson cessarono.

Mio fratello che faceva le scuole medie andava ogni giorno a botte con qualcuno perché lo sfottevano in quanto napoletano e terùn.

E Diego, da ragazzo sveglio e intelligente, seppe interpretare benissimo questi umori. Sia di chi a Napoli ci viveva sia di chi era dovuto andato via.

Una volta in un’intervista affermò che gli bastarono poche trasferte per capire l’andazzo generale che vigeva in Italia. Un’odio contro Napoli e contro il Sud che da argentino faticava a comprendere. Capì subito che una vittoria del Napoli non era solo un fatto sportivo ma la rottura di un tabù. Un capovolgimento di prospettiva assolutamente non previsto. Una forzatura culturale.

Basti pensare che il tanto lodato Gianni Brera, al tempo, scriveva e pontificava alla Domenica Sportiva che anche con Maradona il Napoli in quanto squadra del Sud non avrebbe mai potuto vincere uno scudetto. Perché per vincere servono organizzazione e disciplina che i napoletani non hanno, in quanto più inclini a mettersi al sole e mangiare gli spaghetti. Quanto lo schifavo Gianni Brera.

Ancora a distanza di tanti anni sembra incredibile quel processo d’empatia che si stabilì tra un ragazzo proveniente dalle favelas di un altro continente e la popolazione napoletana. E proprio per questo fu un giocatore odiatissimo. Perché difese, non solo sportivamente, la città.

Io sono tra quelli che, nell’estate del ’90, nella semifinale dei mondiali tra Italia e Argentina esultò al gol di Caniggia. Come tanti napoletani preferivo la vittoria di Diego a quella della nazionale di un paese che ci discrimina e infanga e che, per quanto mi riguardava, aveva costretto la mia famiglia a lasciare Napoli.

Avevo già festeggiato nell’82. Poteva bastare. Allora ancora ci credevo che siamo tutti “fratelli d’Italia”. Allora forse ci credevamo un pò tutti. Poi ho capito che noi eravamo i fratellastri.

La partita si giocò proprio a Napoli. Da allora la Nazionale italiana ha sempre evitato di giocare partite importanti al San Paolo. Considerato troppo poco nazionalista. Troppo napoletano. Quindi poco italiano.

Diego, poi, è uno dei pochi eroi giovanili che col tempo non mi hanno deluso. Anzi col passare degli anni, in contemporanea con il mio impegno politico e la conseguente crescita culturale, l’ex ragazzo di Buenos Aires ha dato ampie soddisfazioni.

Questa volta lontano dai prati verdi di gioco. Ma vicino alle popolazioni oppresse. Ai paesi sotto attacco dall’imperialismo statunitense. Utilizzando la sua enorme popolarità per sostenere i processi sociali di ispirazione socialista. Con Fidel, con Chavez, con Maduro, ma anche con Lula.

Niente male per un tipo considerato poco più di un tamarro. Per uno che “è solo un drogato”, un alcolizzato.

La sua fragilità, i suoi eccessi, le sue buffonerie sono stati invece elementi a tutto tondo di un personaggio comunque unico. Eroe e martire contemporaneamente. Vittima di uno showbiz violento e tritatutto come quello del football. Che ti innalza per meglio guadagnarci e che poi ti butta via se non sei più utile alla causa del profitto.

E’ caduto rovinosamente, poi ha scoperto che esiste tutto un mondo che fa altro che inseguire un pallone, e si è rialzato. Per cadere ancora e ancora perché il ghetto dove sei cresciuto non è solo un luogo fisico ma uno state of mind.

Sono pochi anzi pochissimi i campioni sportivi che hanno avuto una così forte rilevanza extrasportiva quanto Diego. Viene in mente di primo acchito Mohammed Ali. Ma Alì era ideologizzato strutturalmente, Diego invece no. Il bambino d’oro ha fatto tutto da sé, seguendo il cammino tracciato dal connazionale Che Guevara. Il suo tatuaggio più famoso.

Ciao Diego. Voglio infine ricordarti in quella fantasmagorica e allucinante conferenza stampa, da CT dell’Argentina. Con una qualificazione ai mondiali ottenuta all’ultimo minuto. Ti rivolgesti ai giornalisti, che per settimane ti avevano dipinto come incapace e inadatto, dicendogli soltanto: solo tienes que chuparlo. Appunto .

Ivan Trocchia

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Monoteismo maradoniano

Gli dei, ora, stringeranno la mano del dio monoteista. Addio genio maledetto. Porterò in eterno, nei miei occhi, l’incanto sublime della tua poesia scritta coi piedi. E sulla pelle, il gelido fremito che mi avvolgeva un attimo prima che il magma infuocato del goal travolgesse i sensi e l’intelligenza. Fino a perdersi nell’estasi idiota dell’orgasmo.

Eri la vita che celebra la morte. In ogni suo palpito. Eri il Kairos che si fa eterno. L’atto in cui si smarrisce e si smemora l’azione.

Resterai per me Dioniso con un pallone tra i piedi. Musica, immagini, versi scritti su un foglio d’erba verde. Il riscatto mai domo di un niño che dalle favelas argentine è partito e ha scalato il Machu Pichu. Sfidando il potere delle sacre icone del Calcio.

E ha vinto, perché mai ha voluto sedersi a quelle tavole imbandite di nulla. Preferendo le periferie inzaccherate di fango e di pioggia alle celebrazioni squallide di mediocrità vendute in sovrapprezzo.

Nel cuore il Che, nelle mani il dolore, nella testa la coca e nei piedi Rimbaud. Ti ho amato come fossi il primo amore. Ti ho odiato come se a letto ti fossi portato mille uomini. Ho pianto e ancora piango, quando ti vedo volteggiare folle sui campi. Come un Nureyev su puma e bulloni.

In questo presente che ha cancellato Mito e Memoria, tu sei l’ultima Leggenda. L’ultima Memoria di un mondo a dimensione d’Uomo. Poeta e guerriero di uno sport che fu. “Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”, diceva Nietzsche. E tu, tra gli astri cosparsi di bianchi cristalli, hai danzato eiaculando gioia e tragedia.

Ciao Diego!

Vincenzo Morvillo

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L’ultima finta1 di Maradona

Cos’è una finta? E’ far pensare all’avversario di andare da una parte e invece andare ad un’altra. E’ far pensare all’avversario di toccare un pallone e farlo rimanere invece nello stesso posto. E’ far pensare al portiere di mandare il pallone da un lato e mandarlo invece dall’altro. E’ far pensare di voler stoppare un pallone ed invece lasciarlo passare.

E’ far pensare all’avversario che la realtà andrà in un certo modo e mostrargli invece che può andare in tanti modi diversi. E’ far vedere che il futuro è pieno di possibilità non indagate.

Essere un fuoriclasse come Maradona nel mondo del calcio (e l’analogia la facciamo non con Pelè, ma con Garrincha2, anche lui morto prematuramente) è stato un modo di rifiutare la realtà e questo tempo che opprime.

Per lui il talento con le sue finte e le sue magie è stato un modo per fuggire dalla miseria, poi per scappare da una mentalità conformista, infine da un calcio sempre più burocratizzato e corrotto.

Maradona non era un imperatore indiscusso come Pelè3, non un leader riconosciuto come Platini, non un professionista postmoderno come Messi. Maradona era uno sciamano, un borderline, un visionario che andava a giocare partite impossibili per gli amici (spesso discutibili) nei campetti fangosi della provincia di Napoli4.

E a Napoli aveva trovato la follia, la pentola magica dove far fruttare il suo talento e farne un messaggio per l’umanità intera.

Non a caso frequentava Fidel Castro5 e Chavez6: aveva bisogno di un oltre dove lanciare il pallone del destino, il suo e quello di un esercito di appassionati che aveva capito che lui non era solo un calciatore, ma un poeta maledetto, un bestemmiatore che stringeva il rosario nelle mani sempre pronto a combattere con Dio e con qualsiasi autorità.

E’ rimasto famoso per le sue punizioni7, dove aggirava qualsiasi barriera, per i suoi cross con l’esterno del piede o di tacco8 quasi ad accarezzare qualsiasi pallone, con i suoi gol da quaranta metri9 come a dire che non c’è distanza che la magia non sappia percorrere.

Ma il ricordo più vivo che abbiamo di lui è quello della mano che ruba il primo goal all’Inghilterra nel 198610. Un gesto con cui è andato oltre il calcio.

Un gesto scorretto, certamente, ma al tempo uno sberleffo verso una nazione che rappresentava la tradizione ma anche l’arroganza calcistica11, una nazione che con la Thatcher aveva fatto guerra proprio all’Argentina12 (sia pure quell’Argentina indegna dei colonnelli), una nazione che rappresentava per il mondo di lingua spagnola un nemico irriducibile a cui non si concede nemmeno la correttezza.

Poi al poeta hanno tarpato le ali, prima con la storia del doping, poi riducendolo a rinserrarsi in qualche modo sempre di più, facendolo goffamente zampettare come l’albatro di Baudelaire13 per qualche lustro.

Forse chissà, morti Fidel e Chavez, ha pensato a quell’oltre verso cui lanciare il pallone. Ha capito che con il suo corpo ingrassato non poteva arrivarci. Ed ha progettato l’ultima rete, quella della vittoria definitiva.

Infatti ci aveva fatto pensare che l’operazione alla testa di pochi giorni fa14 fosse riuscita ed invece ha fintato ed è andato verso la libertà della sua anima, ormai detenuta da un corpo che si lesionava sempre di più e da un mondo che mortifica la fantasia e l’immaginazione.

Con un arresto cardiocircolatorio ha stoppato magicamente il pallone discendente della sua vita, ha dribblato come contro l’Inghilterra15 tutti quelli che lo ostacolavano16 e si è proiettato in rete verso la leggenda.

Italo Nobile

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Ho visto Maradona

Questi piedi che poggiano sullo stesso suolo dei miei sono i più co stosi e «virtuosi» del mondo. Indossano sandali con calzini bianchi e non sembra che abbiano niente di particolare, ma quando toccano la palla il mondo ferma la sua corsa. Sono tondi, piccoli, ben saldati a un paio di caviglie solide e graziose. Se si alza lo sguardo si scoprono gambe corte e sode, e più su dei fianchi che non sono da manichino, ma che si muovono come se fossero fatti di vimini. Più in alto c’è un torace ben tornito, non troppo muscoloso, sul quale Diego Armando Maradona indossa la maglia gialla del Brasile che ha sconfitto pochi giorni fa. E poi: ciglia folte, grosse labbra, capelli neri e l’orecchino.
Quando ci sono estranei in casa sorride male, come se diffidasse di loro, e deve avere i suoi motivi. La cosa migliore, mi sembra, è di non adularlo, dargli del «lei», trattarlo con il rispetto che si ha per una persona che, al di là del calcio, deve avere i suoi sogni inconfessabili, le sue smanie infantili e un enorme desiderio di piacere per qualcosa di più che una partita di calcio.

Osvaldo Soriano

dall’archivio de manifesto del 3/7/1990, Soriano e Minà cenano con Maradona alla vigilia di Italia-Argentina (1-1, azzurri eliminati), semifinale di Italia ’90

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I peccati di Diego

Maradona ha commesso, da qualche anno, il peccato di essere il migliore, il delitto di denunciare gran voce le cose che il potere impo ne di tacere, il crimine di giocare mancino, il che – secondo il Piccolo Larousse illustrato – vuol dire «con la sinistra» e significa anche: «Al contrario di come si deve fare».

Maradona non aveva mai usato stimolanti alla vigilia delle partite per moltiplicare le proprie potenzialità. È vero che è stato nel giro della cocaina, che si «dopava» nelle feste tristi, per dimenticare ed essere dimenticato, quando era già soffocato dalla gloria e non poteva vivere senza la fama che non lo lasciava vivere. Giocava meglio di tutti nonostante, non grazie alla cocaina.

Da quando la folla ha gridato il suo nome per la prima volta, quando aveva sedici anni, il peso del suo personaggio gli ha fatto curvare le spalle. Questo è un uomo che da molto tempo lavora sodo negli stadi, sottomesso alla tirannia del rendimento sovrumano, imbottito di cortisone, analgesici, ovazioni: perseguitato dalle esigenze dei suoi fedeli e dall’odio dei suoi detrattori.

Il piacere di distruggere idoli direttamente proporzionale alla necessità di costruirli. (…)

Eduardo Galeano

dal manifesto del 3/7/1994

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Comments ( 2 )

  • sergio falcone

    Maradona eroe positivo. Sì, al doping

    di Giovanni Giovannetti

    https://www.ilprimoamore.com/blog/spip.php?article4538

    Muore Maradona e lo si (rim)piange in struggenti pagine che ne rinnovano i miracoli e le imprese. A Napoli si prega e si accendono lumini in suo ricordo… d’ora in poi lo stadio San Paolo avrà il suo nome… qualcuno lo vorrebbe cittadino onorario… In questa immagine vediamo l’illustre miliardario cocainomane gradito ospite nella villa del boss camorrista di Forcella Carmine Giuliano (alla sinistra di Maradona), a quell’epoca latitante. Dell’argentino serba un vivido ricordo anche il mafioso “pentito” Salvatore Lo Russo: «Diventai molto amico di Maradona che frequentava spesso casa mia ma solo perché diceva di trovarsi bene in mia compagnia e solo in un paio di occasioni mi ha chiesto se potessi procurargli della cocaina per uso personale». Tutti fantastici. Fate cittadini onorari anche loro.

  • rosario

    “Comunista, Maradona? In un certo senso resistenziale, certamente…..”
    Come no, infatti portava sempre al polso due orologi da svariate decine di migliaia di euro, roba che un operaio non vede neanche in anni di lavoro.
    Ma è così il mondo. Se porti un Hublot, l’orologio dei re, allora sei uno sporco capitalista. Se invece ne porti due sei “in un certo senso” un comunista perché anche Fidel ne portava al polso due di……Rolex.
    Quanta ipocrisia.

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