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Storie di ordinaria carcerazione, utili per chi in galera non c’è stato

Io esco poco, il meno possibile, basta un niente a suscitarmi emozione. Devo correre in bagno.  Mi succede da quella volta: ero finito in carcere, e non ci ero abituato, anzi era una cosa a cui non avevo mai pensato.

Era stato per via di una foto in cui ero stato ritratto con dei miei paesani, poi qualche rimpatriata al ristorante, una telefonata di tanto in tanto. Il carcere lo conoscevo per i film americani, cercavo di non urtare gli altri, li assecondavo. Rimasi in cortile con tutti quando protestarono per il sovraffollamento, un pomeriggio di febbraio: gli agenti ci lasciarono fare, si fece sera, poi notte. Dopo l’una spruzzarono acqua in aria che ricadde già ghiaccio. Restammo a indurirci per un paio d’ore. Poi gli idranti ci sbatterono al muro, non sapevo che avessero così tanta forza.

Ci fecero spogliare nudi e passare fra due file di poliziotti con casco, scudo e manganello. Io non presi botte. Me la feci addosso. Dopo due anni e passa mi assolsero. Basta una piccola emozione a mandarmi in bagno. Io non ce la faccio a spogliarmi davanti al mio compagno, anzi a volte non mi spoglio nemmeno se sono da sola, vado a letto vestita. Per anni, nei giorni d’udienza, mi spogliavo prima di andare in tribunale, poi al ritorno. «Tutto, si tolga tutto», mi ordinavano le poliziotte. «Si pieghi», «allarghi le gambe», «apra le natiche». Si dovevano vedere bene tutti i miei orifizi, si doveva vedere che non nascondessi nulla. Mi fecero spogliare e mi ordinarono le flessioni pure il giorno che mi assolsero e uscii.

Un’amica aveva utilizzato la mia identità, servirono anni per capire che io non ero stata complice. Mi diedero anche un bel po’ di soldi oltre le scuse. Ma non li tocco quei denari, sarebbe come pagarmi gli spogliarelli, giustificarli. La mia dottoressa dice che alla fine ce la farò a mettermi nuda, anche senza la necessità che qualcuno me lo ordini. Io non dormo, perché appena chiudo gli occhi mi rimbomba in testa la sirena della volante sopra cui sono stato portato via una notte d’ottobre, e quando non è la sirena è il suono della battuta dei ferri delle sbarre della finestra in cella, tre volte per dì, per prevenire le evasioni. Io non sarei scappato nemmeno se si fossero dimenticati la porta aperta, che ne sapevo di fare la latitanza.
Il mio terrore era di fare più di cinque anni di galera perché mi ero ricordato di aver letto da qualche parte che superata quella soglia si impazziva, irreversibilmente. Stavo anche attento a non raccogliere i punti delle merendine, anche quello segno di demenza. Ai giudici non rispondevo, mi ero fissato: che se loro, sbagliando, mi avevano messo dentro, avrebbero dovuto riparare. E loro davvero lo fecero, dopo quattro anni e prima dei spaventevoli cinque. Non mi diedero né soldi né scuse perché, dissero, il mio silenzio li aveva aiutati a proseguire nell’errore. Fortunatamente non sono impazzito, però non dormo con questo frastuono.

Io non ho più certezze, ce le avevo quando mi hanno arrestato, ce le avevo l’anno scorso: ero un treno in corsa, sbriciolavo vite come il latte con i biscotti. Quelli come me non si fermavano con i ragionamenti. Servivano le manette o le pallottole. Così ho dato ragione a chi mi ha arrestato, ho tifato con chi mi ha condannato. E ho benedetto il vetro che al parlatoio, una volta al mese, mi ha diviso dal calore umano, la piccolezza della mia cella, il poco fiato dell’acqua nel rubinetto, l’asfissia del cubicolo, le parche parole dei due compagni due ore al giorno, gli occhi e le orecchie di telecamere e microfoni ogni minuto di ventiquattrore.

Ogni dolore che mi hanno inflitto era una medaglia che mi issavo in petto. L’ho meritato tutto l’orrore del carcere al 41bis. Certo, ogni ora, di ogni giorno, per venticinque anni. Da quando è cominciato il ventiseiesimo anno di galera mi è balenato in testa il pensiero di aver pagato il giusto, che se mi cacciassero fuori mi sentirei in pace con me stesso e con la società. Starei buono, davvero, cercando di utilizzare al meglio i rimasugli di vita che ancora mi scuotono. E ora mi passa in testa che anche se non sono buono, e non sono il dato fisiologico degli errori giudiziari, forse neanche quelli che mi fanno questo siano perfettamente buoni.

da il riformista

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