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Stefano Cucchi e tutti gli altri. Lo squarcio sul “sistema”

Il processo bis in corso davanti alla Corte d’Assise di Roma sta demolendo l’assioma del “drogato che se l’è cercata”. Aldrovandi, Magherini, Uva, Sandri, Budroni… È lungo l’elenco dei morti mentre di Stato

L’assioma ideologico su cui si è basata fin qui la difesa degli imputati, sia nel primo che nel secondo processo, e che ha sempre potuto contare sul megafono dei vari Salvini e Giovanardi – Stefano Cucchi è morto sostanzialmente perché era un drogato, uno che cercava e seminava morte, dunque un cittadino di serie B, e se ha preso qualche ceffone la colpa era solo sua – si sta sciogliendo come neve al sole, man mano che si apre un varco nel muro di omertà e indifferenza che per nove anni ha impedito di arrivare alla verità.

«Sono un militare, non faccio domande», «siamo militari, rispettiamo gli ordini», «sono un militare, nessuno mi ha chiesto di raccontare e io non ho raccontato»… Sono le risposte più frequenti che risuonano all’interno dell’aula di Corte d’Assise del tribunale di Roma nelle ultime udienze del processo bis, da quando il pm Giovanni Musarò ha chiamato come testi alcuni carabinieri che a vario titolo sono entrati nella nuova inchiesta integrativa aperta sul depistaggio e l’occultamento delle prove.

Il valente magistrato antimafia sta cercando di capire fino a quale livello è coinvolta la scala gerarchica dell’Arma, ma ciò che si sta svelando fin da ora – a parte un’evidente quanto negata incompatibilità tra il ruolo di polizia giudiziaria e l’ordinamento militare – è un “sistema” (non si sa quanto diffuso) che contempla anche la violazione delle regole democratiche, e finisce col costruire omertà e impunità. Contaminando a volte anche ambiti professionali e istituzionali contigui, come si evince dal fatto che Stefano, dopo essere stato pestato e fino alla sua morte, entrò in contatto con circa 140 persone che ebbero modo di accorgersi delle sue condizioni di salute ma che si voltarono dall’altra parte.

Un “sistema” che sta emergendo grazie alla professionalità e all’inflessibilità di un giovane magistrato già nel mirino delle mafie, ma soprattutto al coraggio, alla caparbietà e all’amore dimostrato da Ilaria Cucchi e dai suoi genitori. Una famiglia che con altrettanta onestà e inflessibilità – e sotto un fuoco di fila che avrebbe spaventato chiunque – è rimasta fedele alla difesa dei diritti di Stefano e ha pure imparato ad usare le forme di comunicazione, anche quelle più di impatto mediatico, come le foto del cadavere esposte mentre si celebrava il primo processo.

Ilaria però non ha dimenticato che il caso di suo fratello Stefano è forse la punta di un iceberg che sta emergendo, tanto da aver fondato un’associazione che si occupa dei tanti – troppi – cittadini morti mentre erano nelle mani di uomini di Stato. La «Stefano Cucchi onlus» si prefigge infatti il compito di dare una mano alle famiglie che attendono ancora giustizia per la morte di un loro congiunto o che non credono a quella dichiarata in un’aula di tribunale.

«Pensiamo a Giulio Regeni, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini – scrive Ilaria sul sito dell’associazione -. Tutte queste storie, tutte le persone dietro a queste storie ci testimoniano, con la loro morte, che è una morte di Stato, che uno Stato di diritto senza diritto è una banda di predoni». Ma la lista potrebbe essere molto più lunga, anche al netto della media dei 160 morti in carcere l’anno dal 2000 ad oggi (fonte: Ristretti orizzonti), e dei 64 suicidi dall’inizio del 2018, mai così tanti negli ultimi sei anni.

Si potrebbero ricordare casi più o meno noti e ancora controversi come quello di Aldo Bianzino, il mite e sano falegname arrestato il 12 ottobre 2007 per detenzione di piante di marijuana e morto due giorni dopo in una cella del carcere Capanne, a Perugia. O di Michele Ferrulli, deceduto il 30 giugno 2011 durante un fermo di polizia, in strada, a Milano. O di Riccardo Rasman, uomo affetto da schizofrenia paranoide che nell’ottobre 2006 fu malamente immobilizzato nel suo appartamento di Trieste da tre agenti che vi fecero irruzione dopo una segnalazione, e così lo uccisero. O ancora di Gabriele Sandri, il tifoso morto nel 2007 sotto i colpi sparati a distanza da un poliziotto in un autogrill di Arezzo. O di Bernardino Budroni, morto nel luglio 2011 sotto i colpi sparati da un poliziotto al termine di un inseguimento sul Gra, a Roma.

O di Franco Matrogiovanni, deceduto nel 2009 durante un Trattamento sanitario obbligatorio nel reparto psichiatrico dell’ospedale Vallo della Lucania, dopo 82 ore di contenzione. O di Tony Drago, morto nel 2014 a soli 25 anni mentre prestava servizio militare a Roma, nello squadrone di rappresentanza del reggimento Lancieri di Montebello. Precipitato da una finestra, subito i commilitoni parlarono di suicidio. Tesi non condivisa dai familiari che credevano piuttosto ad un episodio di nonnismo, e rigettata per ultimo anche dai periti nominati dal gip che nel marzo 2017 hanno affermato che il giovane è stato ucciso. Solo in seguito, la Procura militare ha aperto un’inchiesta ipotizzando il reato di omicidio volontario.

C’è anche chi è rimato vivo e ha potuto raccontare. Come Stefano Gugliotta, un giovane scambiato per un ultrà durante la finale di Coppa Italia del 2010 e pestato senza alcun motivo in strada, a Roma, nei pressi dello stadio Olimpico, da nove poliziotti. Il tifoso Paolo Scaroni invece rimase in coma due mesi, nel 2004, per i colpi di manganello, impugnato al contrario, sferrati da alcuni agenti (mai identificati) alla stazione di Verona, dopo la partita contro il Brescia. Dopo 11 anni Scaroni non ha ottenuto i nomi di chi lo ha ridotto invalido al 100% ma solo un risarcimento del Ministero dell’Interno di 1,4 milioni di euro.

Si potrebbe continuare a lungo, raccontando fatti che naturalmente non chiamano in causa solo le forze dell’ordine. Spesso la verità non è ancora venuta a galla, alcuni processi sono ancora in corso o i familiari chiedono – con qualche fondamento – di riaprire i casi. Non accade solo da noi ma in Italia, ottenuta finalmente una legge che punisce in qualche modo la tortura, anche se in modo del tutto non conforme ai trattati internazionali, il codice identificativo per gli agenti, per esempio, è ancora un tabù coccolato dalle destre. La democratizzazione dei corpi di polizia ha ancora bisogno di una spinta propulsiva. Almeno uguale e contraria alla militarizzazione che avanza.

Eleonora Martini

da il manifesto

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