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Sospeso il processo per l’omicidio di Giulio Regeni

«Gli agenti egiziani vanno informati» La terza Corte d’Assise annulla il rinvio a giudizio. Ora servirà una nuova rogatoria per chiedere l’elezione di domicilio dei quattro membri della National security. La decisione dopo una lunghissima giornata di dibattimento

La terza Corte d’Assise di Roma rientra in aula alle 20.45, dopo quasi sei ore di camera di consiglio. Mezz’ora dopo (causa blackout) arriva la decisione: il processo per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni è sospeso. Gli atti devono tornare al gup, che a maggio scorso aveva deciso per il rinvio a giudizio. Quel decreto è dichiarato nullo, come chiesto dalla difesa.

«Solo una battuta d’arresto – il commento a caldo della legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini – Pretendiamo che chi ha torturato e ucciso Giulio non resti impunito. Chiedo a tutti voi: ribadite sempre il nome degli imputati, che non possano dire che non sapevano». Poi ne legge i nomi, la data di nascita e il documento di identificazione militare, alla fine di una giornata lunghissima.

Sono da poco passate le 9 quando Paola Deffendi e Claudio Regeni, insieme alla sorella di Giulio, Irene, arrivano di fronte all’ingresso delle aule bunker di Rebibbia. C’è il sole su Roma, promessa di un’ottobrata che si fa attendere. La famiglia supera i controlli ed entra, circondata dai fotografi. Poco dopo arriva la vice presidente dell’Emilia Romagna, Elly Schlein. Dentro ci sono il senatore De Falco, Ascanio Celestini, Erri De Luca.

LA CORTE era chiamata a decidere sulla dichiarazione di assenza dei quattro egiziani imputati per il sequestro di Giulio Regeni. Uno di loro è accusato anche di concorso in lesioni personali e in omicidio aggravato. Poco dopo le 10 i giudici fanno il loro ingresso in un’aula che pullula di giornalisti. Lungo le pareti, il vuoto delle celle dei maxi processi.

Ci sono gli avvocati dello Stato per la Presidenza del Consiglio, costituenda parte civile. E ci sono i difensori d’ufficio dei quattro imputati. Loro non ci sono: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif.

QUESTA LA RAGIONE del dibattimento: stabilire se sono assenti perché inconsapevoli che un processo è pronto a partire o perché, ai sensi dell’articolo 420bis del codice di procedura penale, si stanno volontariamente sottraendo.

A monte sta la mancata notifica ai quattro ex agenti della National security egiziana (Nsa) dell’iscrizione nel registro degli indagati prima e del rinvio a giudizio poi. La ragione: nonostante rogatorie e pressioni diplomatiche, l’Egitto non ha mai risposto alla richiesta di elezione del loro domicilio.

PER SOTTRARLI al processo. È la tesi della Procura di Roma che con il pm Colaiocco espone i motivi per cui la corte dovrebbe permettere il processo: «I quattro imputati sanno perfettamente che oggi si apriva questo procedimento e di essere accusati di sequestro, lesioni e omicidio. Sono dei finti inconsapevoli», dice citando l’espressione coniata dalla Cassazione.

Colaiocco cita il gup Balestrieri che li ha rinviati a giudizio: non possono non sapere perché la copertura mediatica dell’evento è stata globale, perché come agenti dell’Nsa sono stati sentiti come testimoni, perché direttamente coinvolti nell’inchiesta egiziana e perché la richiesta di elezione del domicilio è stata mossa a ogni livello, giudiziario, politico, diplomatico.

Tesi sposatadalla famiglia, parte civile. Ballerini ripercorre la sequela di pressioni subite: l’arresto al Cairo del consulente dei Regeni, Ahmed Abdallah, e di Amal Fathy, attivista e moglie del legale della famiglia Mohammed Lofty: «Giulio muore perché qualcuno ha deciso che doveva morire. Gli sono stati rotti cinque denti, 15 ossa, incise lettere sul corpo. In un luogo che non poteva che essere della Nsa perché la tortura è stata esercitata con strumenti adeguati».

PER ULTIMI PRENDONO la parola i difensori d’ufficio dei quattro egiziani. Non entrano nel merito delle prove a loro carico, non era la sede, ma chiedono di annullare il rinvio a giudizio: «Ci aspettavamo la sospensione del procedimento, come avviene in questi casi – dice l’avvocata Ticconi, legale di Sharif, citando sentenze europee e la legge italiana – Non si può procedere contro imputati irreperibili. Si viola il diritto al contraddittorio».

Non è possibile affermare con certezza che i quattro siano a conoscenza del procedimento né che abbiamo attuato «comportamenti omissivi come il rifiuto a fornire il domicilio o la comunicazione di un domicilio sbagliato», aggiunge la legale di Tariq, Armellin.

«NON C’È STATO comportamento omissivo degli imputati – dice l’avvocata Pollastro (Helmi) – ma delle autorità egiziane. Non basta la diffusione mediatica di un fatto» per venirne a conoscenza. Tanto più, conclude l’avvocato Sarno (Kamel), che i giornali egiziani non avrebbero riportato la notizia: «Vogliamo giustizia. Ma non ci sono le basi legali. Senza la collaborazione egiziana questo processo non si può fare».

Il commento a Radio Onda d’Urto di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International. Ascolta o scarica

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Tredici fatti, un unico sabotaggio: «Così l’Egitto vuole impedire il processo»»

La ricostruzione in aula del pm Colaiocco, dalle false testimonianze al rifiuto di consegnare le prove. Fino all’ultimo atto: 200 pagine della Procura egiziana per confutare le indagini italiane

Tredici punti che racchiudono anni di indagini in condizioni difficilissime. Il pm Sergio Colaiocco ci impiega un’ora e mezza per mettere in fila gli elementi raccolti dal team investigativo italiano e ricostruire quella che definisce «l’azione complessiva di quattro soggetti e di colleghi ufficiali della National security egiziana (Nsa) dal febbraio 2016 a qualche mese fa» al fine di «bloccare o rallentare le indagini e impedire il processo in Italia».

Nessuna prova regina, specifica Colaiocco, ma elementi indiretti da valutare complessivamente. È insieme che assumono senso: «13 fatti che indicano la volontà di sottrarsi al processo».

IL FASCICOLO NASCOSTO. Dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, il 3 febbraio 2016, la Nsa ha sempre negato un proprio coinvolgimento e indotto il ministro degli interni Ghaffar a dichiarare che «Regeni non è mai stato fermato dalla polizia egiziana». Mesi dopo le stesse autorità egiziane ammetteranno l’esistenza di un fascicolo della Nsa sul ricercatore a seguito della denuncia del sindacalista Abdallah.

IL FALSO TESTIMONE. Nel febbraio 2016 l’ingegnere Mohammed Fawzi dice di aver assistito a un litigio tra Regeni e una persona, il 24 gennaio (il giorno prima del sequestro) dietro il consolato italiano. La Procura di Roma dimostrerà che in quel momento il giovane era a casa a vedere un film in streaming. Fawzi ritratterà dicendo di aver mentito su richiesta di un funzionario della Nsa.

INFILTRATO NELL’INDAGINE. Uno dei quattro imputati, il colonnello Helmi, è entrato nel team investigativo egiziano, secondo la Procura di Roma al fine di condizionarne l’esito. Si è poi scoperto che fu Helmi a ordinare le perquisizioni a casa di Giulio, nelle settimane precedenti al sequestro.

I VIDEO DELLA METRO. La Procura chiede i video della metro del Cairo la prima volta l’8 febbraio 2016. La Nsa li sequestra solo settimane dopo (ogni 15 giorni le telecamere sovrascrivono le immagini). Il team italiano chiede di visionarli comunque con l’aiuto di una società tedesca esperta nel recupero di video sovrascritti. L’Egitto li consegnerà solo due anni dopo: manca il lasso di tempo dalle 19.40 alle 20.10 del 25 gennaio 2016. Il cellulare di Regeni ha agganciato per l’ultima volta una cella alle 19.51.

LA BANDA. Il 24 marzo 2016 agenti della Nsa uccidono in uno scontro a fuoco cinque cittadini egiziani, accusandoli di aver rapito e ucciso Regeni. Tre mesi dopo la stessa magistratura egiziana iscrive gli agenti nel registro degli indagati per omicidio premeditato.

IL PASSAPORTO. Un testimone afferma di aver visto Helmi con il passaporto di Regeni in mano prima di perquisire la casa di uno dei cinque egiziani uccisi. Helmi fingerà poi di aver trovato lì il documento.

I TABULATI. L’Egitto non ha mai consegnato, adducendo motivi di privacy, il traffico telefonico nelle zone di scomparsa di Giulio e di ritrovamento del corpo, il 25 gennaio e il 3 febbraio, traffico utile a verificare l’eventuale presenza nei due luoghi delle stesse persone.

ROGATORIE INEVASE. Delle 64 rogatorie presentate dall’Italia, 39 non hanno avuto risposta. Nel caso delle altre, secondo la Procura, i documenti forniti sono errati o manipolati.

LA NOTA INTERPOL. Le autorità egiziane hanno più volte fatto riferimento a una nota dell’Interpol secondo cui Giulio aveva fatto ingresso in Turchia e in Israele (alla base dell’accusa di lavorare per dei servizi stranieri). La presunta nota non è mai stata consegnata alla Procura di Roma.

I VESTITI DI REGENI. Non sono mai stati consegnati al team italiano, che non ha potuto condurre esami del Dna.

INDAGINI SOLITARIE. Dopo l’iscrizione nel registro degli indagati dei quattro egiziani, Il Cairo ha interrotto ogni collaborazione con la magistratura italiana. Ha però proseguito nelle indagini senza condividerne i risultati.

IL DOMICILIO. L’Egitto non ha mai risposto alla richiesta di elezione del domicilio degli imputati, mossa tramite rogatorie, interventi dei primi ministri italiani e una trentina di incontri dell’ambasciatore italiano al Cairo con il ministro degli interni egiziano.

LA MEMORIA DIFENSIVA. Due settimane dopo la chiusura delle indagini in Italia, a dicembre 2020, la Procura generale egiziana ha pubblicato un rapporto di 200 pagine definito da Colaiocco «una memoria difensiva dei quattro imputati» dove analizza punto per punto le prove raccolte per confutarle.

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Erri De Luca: «Governo parte civile? Un atto dovuto»

Lo scrittore presente nell’aula bunker di Rebibbia: «Tirannia contro la verità. Impressionante la ricostruzione fatta del pm della massa di insabbiamenti e omertà per nascondere la verità»

Lo scorso anno ha dedicato a Giulio Regeni il Premio Giffoni 50, vinto con il pamphlet La parola contraria. Negli anni ha manifestato davanti alla sede dell’ambasciata egiziana a Roma e partecipato alle fiaccolate a Fiumicello. Ha preso parola contro quello che ha definito «servilismo e omertà» della diplomazia italiana, paragonando il governo italiano alle mafie «che antepongono i loro loschi affari a tutto il resto».

Ieri lo scrittore Erri De Luca non ha fatto mancare la sua presenza nell’aula bunker di Rebibbia, durante il dibattimento per decidere della dichiarazione di assenza dei quattro cittadini egiziani imputati per il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio.

Qual è l’impressione che ha ricavato dal dibattimento?

Non sono in grado di entrare nei dettagli giudiziari. Posso dire che quello che mi ha impressionato è stato il ricapitolo fatto dal pm Colaiocco di tutti i sabotaggi, gli insabbiamenti, le omertà, le minacce contro coloro che volevano arrivare a un accertamento dei fatti. La massa di abuso e tirannia verso la verità mi ha molto impressionato. Sono stati anche uccisi cinque egiziani innocenti, è agghiacciante.

Una ricostruzione capillare.

Impressionante. Un italiano che oggi vada in Egitto o semplicemente transiti per uno scalo tecnico è un temerario.

Su Il Manifesto abbiamo scritto che questo, indirettamente e dal punto di vista simbolico, è in qualche modo anche un processo al rifiuto del governo italiano a interrompere i rapporti con l’Egitto. In aula oggi (ieri per chi legge) la Presidenza del Consiglio si è costituita parte civile.

Sono parte civile, è ovvio. La notizia vera sarebbe stata se il governo non lo avesse fatto. Era un atto dovuto, non ha alcuna rilevanza.

Chiara Cruciani

da il manifesto

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