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A scuola le politiche di repressione sulla droga non servono a niente

Il 26 agosto scorso il ministero dell’interno ha pubblicato la direttiva Scuole sicure, per cui si sono stanziati 2,5 milioni di euro per finanziare i controlli antidroga negli istituti scolastici: cani, telecamere, forze dell’ordine davanti e dentro le scuole.

Eppure il consumo di sostanze stupefacenti tra i ragazzi rimane più o meno stabile da dieci anni. L’ultima relazione dell’Osservatorio europeo sulle droghe e sulle tossicodipendenze (dati 2018) mostra che la percentuale dei ragazzi che fanno uso di sostanze rimane praticamente la stessa; la relazione al parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, del 2017, ci dice che il 25,3 per cento degli studenti ha fumato cannabis almeno una volta nell’ultimo anno, l’11 per cento ha fatto uso di cannabinoidi sintetici (la cosiddetta Spice), il 3,5 per cento di nuove sostanze psicoattive (per esempio la ketamina), il 2,2 per cento di cocaina, l’1,1 di eroina.

Certo, gli usi di sostanze vanno ricompresi in un mercato che sta cambiando soprattutto per stili di vita e trasformazioni del mercato; la possibilità di acquistare on line ha ovviamente modificato lo spaccio.

La maggior parte dei soldi sono destinati non alla prevenzione, alla cura e al reinserimento, ma alla repressione

Un’inchiesta pubblicata il 16 settembre dall’Espresso metteva in luce come però il numero di minori di 18 anni in cura per problemi di tossicodipendenza tra il 2013 e il 2018 sia raddoppiato. Alcune comunità terapeutiche registrano negli ultimi cinque anni un incremento del 70 per cento delle richieste; e l’altro dato preoccupante è che molti dei ragazzi in cura presso comunità hanno spesso (almeno il 15 per cento dei casi, secondo le stime del ministero di giustizia) una doppia diagnosi: tossicodipendenza e disturbo mentale. A cosa è dovuto quest’aumento?

Molti operatori del settore mi dicono che il nodo centrale è uno ed è ignorato da molti anni: i soldi che si spendono per occuparsi di abusi e tossicodipendenze e delle problematiche correlate non sono pochi, ma quasi tutti sono destinati non alla prevenzione, alla cura e al reinserimento, ma alla repressione. Invece di affrontare la questione da un punto di vista sociale, lo si fa da un punto di vista penale.

Questo tipo di approccio repressivo ha una storia lunga. Negli Stati Uniti è stata inaugurata con la presidenza di Richard Nixon all’inizio degli anni settanta, per cui “la droga è il nemico pubblico numero uno” e va combattuto essenzialmente con le armi e la polizia. La cosiddetta war on drugs è stato un approccio la cui efficacia sembrava essere stata smentita in modo definitivo nel 2011 da un report della Commissione globale per le politiche sulle droghe istituita dall’Onu:

La guerra globale alla droga è fallita, con conseguenze devastanti per gli individui e le società di tutto il mondo. Le immense risorse dirette alla criminalizzazione e alle misure repressive su produttori, trafficanti e consumatori di droghe illegali hanno chiaramente fallito nella riduzione dell’offerta e del consumo. Le apparenti vittorie dell’eliminazione di una fonte o di una organizzazione vengono negate, quasi istantaneamente, con l’emergere di altre fonti e trafficanti. Gli sforzi repressivi diretti sui consumatori impediscono misure di sanità pubblica volte alla riduzione di hiv/aids, overdosi mortali e altre conseguenze dannose dell’uso della droga. Invece di investire in strategie più convenienti e basate sul evidenza per la riduzione della domanda e dei danni le spese pubbliche vanno nelle inutili strategie della riduzione dell’offerta e della incarcerazione.

Ma questa prospettiva, avvalorata da evidenze ormai quarantennali, a quanto pare non è strumentale a una politica che deve sbandierare prassi muscolari. Mentre nel dibattito scientifico si discute di autocura e autoregolazione, il discorso pubblico sulla droga specialmente in Italia è una babele di allarmismo, faciloneria e leggende metropolitane: da blue whale alla “droga degli zombie” al krokodil “la droga che mangia gli organi”.

Questo genere di retorica, che spesso è quella istituzionale ha una storia che parte dagli anni settanta, in concomitanza all’arrivo dell’eroina di massa. Il libro di prossima uscita per Laterza di Vanessa Roghi, Piccola città. Una storia culturale dell’eroina, ricostruisce i passaggi di questa vicenda ma anche i danni sociali che l’approccio emergenziale e repressivo ha portato, nonostante da subito ci fossero studiosi seri come Guido Blumir che indicavano una strada opposta – il suo Eroina. Storia e realtà scientifica. Diffusione in Italia. Manuale di autodifesa del 1983 a rileggerlo oggi sembra un testo d’avanguardia.

da Internazionale

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