Menu

Rinchiudere per correggere non è la soluzione

Il concetto di disciplina viene utilizzato per descrivere la configurazione sociale di un determinato periodo storico al di là delle istituzioni che lo sostengono. Si manifesta in diverse sfere quotidiane come la fabbrica, la prigione, la scuola, l’esercito e il manicomio cercando di fare ordine al loro interno e governarle razionalmente. La disciplina consiste nel sorvegliare qualcuno, controllarne la condotta e le attitudini, capire come intensificare la sua prestazione e come collocarlo nel posto in cui sarà più utile.

Il filosofo francese Michel Foucault è considerato il più importante teorico della società disciplinare. Tra il 1970 e il 1975 tenne vari corsi al Collège de France su questo tema, che dalle sue lezioni di “Storia dei sistemi di pensiero” sfociarono poi nella pubblicazione di Sorvegliare e punire. Negli anni Settanta, infatti, i suoi studi si concentrarono sulla discontinuità che caratterizzava le pratiche penali del Diciottesimo e Diciannovesimo secolo rispetto alle punizioni corporali dei primi secoli dell’età classica.

Lo scopo principale di Foucault con la pubblicazione di Sorvegliare e punire era quello di evidenziare il passaggio storico dalla punizione pubblica alla sorveglianza in termini politici. Nel Medioevo, infatti, le prigioni esistevano solamente come luogo provvisorio dove attendere l’esito della sentenza, che lasciava aperte solo due possibilità: la vita, pagata attraverso un riscatto, o la morte. La prigione come punizione in sé era totalmente estranea a quel tipo di società – che Foucault chiamò “di sovranità” – che prediligeva la morte e i massacri per liberarsi degli individui scomodi. È solo nel momento in cui, da un punto di vista economico, il potere avvertì l’efficacia del controllo rispetto al supplizio corporale che si passò alle società disciplinari. L’internamento venne visto come una possibile soluzione dei problemi nati con il capitalismo, in particolare nel momento in cui le società del Diciassettesimo secolo conobbero le grandi insurrezioni popolari in Francia o in Germania. La risposta non poteva essere quella di mandare un esercito a massacrare intere regioni in rivolta, cosa che avrebbe causato catastrofi economiche, ma quella di allontanare dai centri economici la parte della popolazione ritenuta pericolosa. 

Foucault ha sempre ritenuto centrale nel suo lavoro il concetto di Panopticon, ovvero il carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, conosciuto per aver teorizzato la dottrina utilitaristica. Da Nascita della clinica (1963) a Nascita della biopolitica (1978-79), il dispositivo Panopticon, un edificio a struttura circolare in cui un solo individuo riesce a monitorare e avere sotto controllo l’attività di tutti gli occupanti, rappresenta l’equivalenza tra Sapere e Potere nelle diverse fasi della società: più è alto il numero di informazioni possedute, più l’azione di sorveglianza risulta efficace e produce a sua volta delle nuove informazioni. Questo modello, più che rappresentare un ideale carcerario, ha funzionato come modello generale per ogni forma di organizzazione strutturale, come gli ospedali, le fabbriche e le scuole; tutti luoghi che riuniscono determinati segmenti sociali e che permettono di tenerli sotto controllo attraverso meccanismi quotidiani. È questa la tecnologia politica del Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, ovvero il periodo che Foucault definisce “società disciplinare”. 

Osservando il disegno ipotetico ideato da Bentham per il Panopticon, ci si accorge che molte prigioni costruite nei secoli successivi sono state progettate seguendo quel modello. Più che come un progetto architettonico, Foucault ha sempre visto il panottismo come una forma di governo, un modo di esercitare il potere: è dal bisogno espresso dal Panopticon di sorvegliare l’intera società che nasce la prigione. 

Foucault non è solo lo studioso dell’internamento per eccellenza, ma le sue pagine rappresentarono anche l’occasione per un progetto personale molto più ampio. Questi anni di studio coincisero infatti con la militanza nel Gruppo di informazione sulle prigioni (Gip), fondato da Foucault stesso insieme ad altri intellettuali e attivisti francesi. Il Gip interessò subito medici, associazioni, psicologi e avvocati e produsse alcuni testi utili a comprendere la vita e le dinamiche che stavano dietro alla vita carceraria. Lo scopo principale di questo gruppo era quello di ricercare e diffondere informazioni che non potevano più limitarsi all’esperienza individuale ma dovevano trasformarsi in sapere collettivo, politico. 

Uno dei momenti più famosi della militanza del Gip fu la manifestazione del febbraio 1971 di Foucault insieme a Jean-Paul Sartre, davanti al ministero della Giustizia francese, quando i due lessero in pubblico un manifesto scritto con il contributo dei detenuti. L’azione aveva un’intenzione simbolica più che politica: i due filosofi dichiararono di non avere nessuna intenzione di dialogare con Pleven, il ministro della Giustizia francese irremovibile sull’argomento, ma di voler far sentire la voce dei detenuti a più persone possibile. 

L’assenza di diritti reali era l’argomento che forse più interessava Foucault: soprattutto durante le sue lezioni universitarie insisteva nel far percepire agli studenti il lato repressivo della prigione. Raccontò loro che quell’inverno, nel carcere di Nantes, la mattina sulle coperte del letto i detenuti trovavano la brina, mentre a Draguignan la temperatura nelle celle era costantemente sotto lo zero e veniva impedito di distendersi sotto le coperte durante il giorno.

A distanza di quarant’anni e dopo molte legislazioni a riguardo, la situazione delle carceri non è ancora dignitosa. In Italia, come descrive il rapporto del 2018 dell’Associazione Antigone, nel 36% degli istituti le celle sono senza acqua calda e nel 56% sono senza doccia, mentre nel 20% non ci sono spazi dedicati ai detenuti per dedicarsi a lavori di qualsiasi tipo. Tutte cose che sarebbero previste per legge: oltre a un articolo dell’Ordinamento penitenziario che indica il dovere di favorire in ogni modo la destinazione degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale, con la legge Smuraglia nel 2000 è stato introdotto un sistema per incentivare le imprese nell’assunzione dei detenuti. 

Nella vita di tutti i giorni fuori dal carcere si ha la possibilità di incontrare persone, di avere rapporti affettivi, di informarsi. Ciò garantisce una stabilità e una quotidianità che durante la detenzione viene sostituita da un isolamento forzato dal mondo, che non porta sicurezza né all’interno né all’esterno delle prigioni. Queste condizioni producono, sempre per fare l’esempio dell’Italia, un tasso di recidiva pari al 68%, una percentuale molto alta che risulta più contenuta nel caso dell’applicazione di misure alternative. Favorendo infatti in qualche modo la reintegrazione dei detenuti in società – ad esempio facendo scontare gli ultimi mesi della pena con il lavoro – si sviluppa un forte incentivo a ripartire con una vita più stabile. Se invece il condannato passa dall’inattività del carcere – dove non ha imparato né un lavoro né ha frequentato corsi o università – alla vita da uomo libero, il ritorno alla delinquenza è molto più probabile. 

Sempre negli 80 istituti di pena visitati da Antigone nel 2018, il 28,9% dei detenuti lavora per il carcere, mentre solo il 2,5% lavora per datori di lavoro privati. La grande assente è la formazione professionale, che coinvolge in media solo il 4,8% dei detenuti. Iniziare ad aumentare il numero di visite dall’esterno o garantire seriamente un diritto allo studio funzionante non è un “lusso”, ma migliorerebbe le condizioni di vita dei detenuti. Da qualche anno, ad esempio, per iniziativa di Stefano Simonetta, un professore di Storia della filosofia medievale dell’Università Statale di Milano, è iniziata una collaborazione che prevede dei laboratori filosofici e teatrali presso alcune carceri della città, con l’obiettivo di riunire studenti e detenuti perché, come ha detto uno dei partecipanti, “La libertà si trova nelle relazioni, nella continua scoperta”.

Il quesito che si pose il filosofo in Sorvegliare e punire è: “Da dove viene la singolare pretesa di rinchiudere per correggere?”. Attraverso questa domanda si è articolato lo studio di Foucault sulle società disciplinari che raccolgono le persone, le smistano e ovviamente le controllano, pretendendo di restituirle come individui depurati, nuovi, “normali”. In realtà i dati presentati nel saggio mostrano come il fallimento sia stato immediato: fin dal 1820 si consta che la prigione, nata per trasformare gli individui criminali, non serve che a fabbricarne di nuovi o a farli sprofondare ancora di più nella criminalità, e che la funzione di “reinserimento” è venuta meno ancora prima di essere effettivamente messa in atto. 

L’emarginazione attualmente è creata dalla prigione, ma nemmeno la sua abolizione è una soluzione. La società, semplicemente, instaurerebbe un mezzo alternativo al carcere per sorvegliare e punire. Il punto allora, come si era proposto Foucault, è quello di fornire una critica al meccanismo carcerario per renderlo meno marginale rispetto al resto della società. Esistono prigioni migliori di quelle a cui siamo abituati: il Justice Center Leoben, in Austria, è stato progettato dall’architetto e designer Joseph Hohensinn, che ha voluto apporre due iscrizioni all’ingresso, ognuna delle quali afferma il diritto dei detenuti alla dignità e all’umanità ed è ritenuta una delle carceri migliori del mondo. ll centro di detenzione giovanile di Overloon, nei Paesi Bassi, ha un intero piano di laboratori di progettazione e del legno per mantenere i detenuti impegnati in vista del reinserimento nel mondo esterno.

Basterebbe solo cominciare da questi esempi e cambiare, finalmente, il modello di riferimento.

Diletta Huyskes

da The Vision

Leave a Comment

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>