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Ricordando Pianosa e l’Asinara… cosa furono le “carceri speciali”

“Ricordando Pianosa e l’Asinara” è un testo contenuto nel libro “Fuga dall’Assassino dei Sogni” di Carmelo Musumeci (prefazione di Erri De Luca). Il testo contiene un’appendice dove sono state raccolte alcune testimonianze su quello che è successo nei “Carceri speciali” delle isole di Pianosa e dell’Asinara agli inizi degli anni ’90. Questo testo di Marcello Dell’Anna fa parte dell’appendice. 

Nota degli autori

Questo è un libro che corre su vai piani. Uno di essi (non il solo) è quello della riemersione di quando avveniva nel supercarcere dell’Asinara negli anni ’90. Quando vennero riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara, quelle carceri divennero a tutti gli effetti “carceri speciali”, luoghi dove per anni il diritto e la Costituzione vennero sospesi.
Abbiamo voluto, in conclusione del libro, inserire in una appendice alcune testimonianze di persone detenute, nel corso degli anni ’90, in quelle carceri.

Abbiamo deciso di divulgare questa Appendice per rendere pubbliche il più possibile queste tristi pagine della nostra storia recente.

Premessa  a cura di Marcello Dell’Anna

L’Isola del diavolo Carmelo Musumeci

Pianosa Matteo Greco

Quando lo racconteremo, non ci crederanno Pasquale De Feo

Asinara Sebastiano Prino

Tortura Antonio De Feo

In memoria di Pianosa Rosario Indelicato  

 

La premessa storico-introduttiva a queste testimonianze è di Marcello dell’Anna, che in quegli anni venne detenuto a Pianosa.

Premessa

Pochi sanno cosa sono state davvero lo carceri speciali delle isole di Pianosa ed Asinara, durante gli anni ’90. Qualcuno di noi ricorda ancora i momenti infernali passati in quegli anni tra quelle spesse e vecchie mura, tra spazi tetri e isolamenti infernali, tra abusi e minacce.
In quegli anni le nostre Istituzioni, mascherate di Giustizia e di Diritto, hanno, in realtà, preferito indossare il passamontagna della vendetta e lo stesso vestito che ogni criminale ama indossare, crogiolandosi al suo interno.
Tutto va raccontato, ricordato… per non essere dimenticato.
Solo in questo modo può esserci un cambiamento di civiltà, degna di un Paese di diritto.
Per capire gli odierni regimi speciali bisogna ritornare indietro con la memoria ed arrivare agli inizi degli anni ’70 e vedere che, da lungo tempo, i detenuti subiscono violenze fisiche e psicologiche e che, da sempre, radio, televisioni, stampa, continuano a girarsi dall’altra parte: la gente non deve sapere.
La riforma del 1975 mosse i primi passi nel periodo in cui il terrorismo nel Paese sfociava in episodi criminali di grande potenzialità, di destabilizzazione nei confronti delle stesse istituzioni, in un clima che, per oltre un decennio, creò fortissimo allarme sociale in tutto il territorio nazionale. A seguito di alcuni episodi di evasione da istituti penitenziari, di rivolte nelle carceri e di pesanti atti di terrorismo, il legislatore introdusse le misure della c.d. sicurezza esterna ed interna alle carceri. Nacquero così, in determinati istituti penitenziari, i cosiddetti “reparti speciali”, di “massima sicurezza”, chiamati pure braccetti speciali o specialetti, al fine di ospitare quei detenuti ritenuti responsabili di determinati fatti delittuosi e, nel contempo, di isolarli ermeticamente, operando sugli stessi una graduale frantumazione della loro identità.
Accadde così che l’amministrazione penitenziaria, con un semplice atto di trasferimento, procedette al raggruppamento dei soggetti necessitanti di una più rigorosa custodia in particolari istituti di punizione, senza incorrere in alcun tipo di controllo giudiziario.
Tra queste carceri, accuratamente scelte negli anni ’70 e ’80, ricordiamo le isole dell’Asinara, Pianosa e Favignana, le famigerate carceri di Badu e Carros, Novara, Alessandria, Termini Imerese, ecc., in cui si venne a creare un sistema di controllo sulla sicurezza interna ed esterna del tutto svincolato dalla legge penitenziaria e spesso in contrasto con la stessa.
Il regime applicato per Esigenze di sicurezza (una norma di cui all’art.90 dell’ordinamento penitenziario, abrogata dopo il varo della legge Gozzini), si caratterizzava per un irrigidimento delle condizioni detentive, derivante da un totale isolamento comunicativo tra reclusi e dalla limitazione delle ore d’aria, della ricezione dei pacchi e della possibilità di acquistare generi alimentari, nonché dalla limitazione delle ore di colloquio e delle telefonate con i familiari.
Peraltro, malgrado i colloqui venissero effettuati in locali dotati di vetri divisori, che impedivano qualsiasi contatto umano, e provvisti di citofoni, i familiari venivano sottoposti ad umilianti perquisizioni che incidevano sulla sfera più intima della personalità. L’applicazione indiscriminata del controllo della corrispondenza, il divieto di accedere a mezzi di mass-media- nel senso che venne preclusa la possibilità di avere in cella TV, quotidiani e radioline-rappresentò in quegli anni una valida arma di governo nel sistema carcerario, legata anche al potere discrezionale che caratterizza l’amministrazione penitenziaria; il risultato fu la creazione di un circuito ideato solo con l’intento di spersonalizzare il reo, attraverso una forte pressione psicologica, al fine di indurlo a rompere con il passato e a collaborare con la giustizia.
Nei primi anni ’90, in un momento particolare della vita dello Stato, per stroncare sul nascere quello che fu definito l’attacco della mafia al cuore dello Stato, il regime del carcere duro,ossia l’art. 41 bis, rappresentò la risposta più dura e radicale da parte delle istituzioni. Il primo episodio che fece scattare il campanello d’allarme accadde il 23 maggio 1992 sull’autostrada Trapani- Palermo, vicino allo svincolo dell’uscita di Capaci, ove persero la vita, dilaniati da una bomba, il magistrato Giovanni Falcone e con lui la moglie e alcuni agenti di scorta. Il 19 luglio dello stesso anno, in via D’Amelio, nel centro della città di Palermo, perse la vita, insieme a cinque poliziotti, un altro magistrato, Paolo Borsellino. A seguito del verificarsi di tali eventi il Governo di allora, in piena emergenza, varò il decreto legge n.306/1992, che introduceva il secondo comma all’art. 41 bis.
Contestualmente, nel giro di qualche giorno, furono immediatamente riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara, che fino a quel momento avevano avuto funzioni di colonie agricole, adatte più ad una popolazione detenuta di livello attenuato di sorveglianza. La riapertura delle isole rappresentava l’unico mezzo per isolare mafiosi che, a torto o a ragione, andavano emarginati dal mondo, in modo da spersonalizzarli, da renderli inoffensivi, da annientarli…

Era l’estate del 1992, ricordo che il giudice Paolo Borsellino era stato appena ammazzato e, nel giro di una notte, circa 70 di noi fummo, come si dice in galera, impacchettati e trasferiti nell’isola di Pianosa. Altri finirono all’Asinara. Eravamo i primi 300 detenuti ai quali fu applicato il regime del carcere duro. Tutti arrivammo a destinazione con quello che avevano addosso, quando fummo presi di notte nelle nostre celle delle varie carceri italiane… chi in pigiama, chi in mutande… Gli agenti erano tutti in assetto antisommossa, caschi e manganelli, tute mimetiche ed anfibi… che ancora ricordo, come se fosse un tatuaggio, l’impronta che mi lasciò dietro la spalla un numero 43. In quegli anni, a Pianosa, ci imponevano un’attività sportiva o fisica in modo indiscriminato e crudele; le forme di violenza fisica, quali pugni, calci, manganellamenti, erano abituali, normali procedure; non ci era consentito il cambio delle scarpe, quasi tutte- risulterà strano a chi non conosce l’attività fisica cui eravamo costretti per ore- con le suole usurate; ci era consentito l’uso delle docce una volta ogni quindici giorni,per tre o quattro minuti e chiudevano l’erogazione dell’acqua in termini improvvisi, lampo. A qualcuno fecero saltare le capsule dei denti, che non furono mai ritrovate. I pasti consistevano in un’altra occasione di violenza. Contavamo i pezzi di pasta corta messi nel piatto e non superavano mai la trentina; ci veniva data una patata, un litro d’acqua per l’intera giornata, e ci lasciavano senza carne e senza pesce, cosa invece prevista dai regolamenti. La nostra forma fisica era parecchio compromessa, tanto che parecchi di noi accusarono un progressivo calo di peso. Eravamo costretti al silenzio, sia durante le ore d’aria che nelle nostre celle, e se trasgredivamo queste regole non scritte, venivamo chiamati in barberia e pestati a sangue da otto, nove agenti, a volte incappucciati…
Nessuno dei giornali riportavano queste notizie, ma tutti sapevano e tutti tacevano. Ciò nonostante, queste vessazioni non sfuggirono all’attenzione di un Magistrato di Sorveglianza di Livorno, Dr. Rinaldo Merani che, dopo la sua visita all’isola, scrisse subito un rapporto. Nella relazione del 05/09/1992, il dott. Merani scriveva: “…si è avuto notizia che due detenuti sono stati recati fuori sezione, l’uno all’interno di una carriola la muratore, certamente non in grado di camminare da solo, l’altro ammanettato e trascinato per le braccia: entrambi venivano portati verso il blocco centrale, dove non è dato sapere cosa sia successo poi. Si è avuta notizia dell’uso di manganelli all’interno delle sezioni, evidentemente non in relazioni a situazioni di pericolo reale che altrimenti ne sarebbe seguita adeguata e completa informazione a quest’ufficio da parte della Direzione (…). Altri episodi di iattanza e violenza, psichica più che fisica, nonché una serie di umiliazioni tanto inutili quanto ingiustificate, sono state inflitte a detenuti comuni impegnati nei lavori di ristrutturazione delle diramazioni (…) Il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose. Non è certamente questo il modo di riaffermare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione…”

Sono certo che la fatica per avere rievocato nella mia mente spiacevoli ricordi, frutto di esperienza reale vissuta sulla mia pelle, sia servita a costituire certamente un evento, approdo e sintesi di uno dei percorsi nelle cayenne delle istituzioni e della società italiana. In questo modo ciascuno di voi lettori potrà meglio intendere la continuità di quelle inciviltà usate negli anni ’70, l’intimità profonda e attualissima della comunità del 41 bis reale con i luoghi che si ritengono oscurati, con le deportazioni di veri e presunti criminali, condannati comunque alla morte viva.
Nel 1993 un rapporto di Amnesty International raccolse le testimonianze denunciando le brutalità subite dai reclusi della sezione Agrippa del carcere di Pianosa.
Le carceri di massima sicurezza dell’Asinara e di Pianosa sono state chiuse nel 1998. Il regime speciale non arriva oggi ai limiti della violenza fisica diffusa e sistematica, come è accaduto nei primi anni ’90, ma a quella psichica certamente, tanto che ancora oggi rimangono condizioni di detenzione e finalità di pena intollerabili in un paese civile.
Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.)ha avuto modo, sin dal 1995, di interessarsi alla situazione carceraria italiana ed, in particolar modo, al regime del 41 bis. Ad avviso del C.P.T. questa particolare fattispecie di regime detentivo è risultato il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva.
La delegazione intravedeva nelle restrizioni gli estremi per definire i trattamenti come inumani e degradanti. I detenuti erano privati di tutti i programmi di attività e si trovavano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provocava effetti dannosi che si traducevano in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Infatti, il carcere duro, e vi parlo per esperienza diretta, comporta un isolamento sociale, una limitazione fisica e motoria, nonché la riduzione delle stimolazioni cerebrali conseguenti allo stato di privazioni imposto, determinando alterazioni dello stato psichico del detenuto, con conseguente deterioramento intellettivo e percettivo e possibilità di allucinazioni.
Dal punto di vista della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, in Italia, subito dopo il 1992, la violazione dell’art 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è stata invocata, dinanzi alla Corte EDU, in due occasioni e da due persone che erano detenute a Pianosa, al carcere duro. Nei due episodi, la Corte di Strasburgo ebbe a constatare la violazione procedurale dell’art.3 in ragione del ritardo nelle indagini e della negligenza nell’identificazione degli agenti penitenziari responsabili.
Riguardo alle sentenze emesse dalla Corte Europea, in ordine alla constatata violazione dell’art.3 della Convenzione, non possiamo omettere di riportare e raccontare la storia di due nostri compagni che, negli anni 90, furono ristretti nelle isole del diavolo.
Nel primo episodio, il Signor Labita, detenuto nell’isola di Pianosa a partire dal 20 luglio 1992 e sottoposto al regime del 41 bis, lamentò alla Corte EDU di avere subito maltrattamenti, che venivano sistematicamente inflitti ai detenuti, intimidazioni, vessazioni ed altre forme di tortura, sia fisica che psicologica da parte degli agenti di custodia, di essere stato sovente schiaffeggiato e percosso, alle dita, alle ginocchia, ai testicoli, di avere subito ispezioni corporali durante la doccia e di essere rimasto ammanettato durante le visite mediche. Le sue proteste risultarono inutili e controproducenti. Per essersi lamentato di avere avuto strappati i vestiti dagli agenti, sarebbe stato minacciato, insultato e percosso da uno di essi. Inoltre gli vennero danneggiati la protesi dentaria e gli occhiali, senza avere poi la possibilità di ripararli. I disturbi psichici manifestatisi in seguito alla sua detenzione a Pianosa vennero attestati in un certificato medico del 20 aprile 1996. Il Governo, chiamato a rispondere sui fatti, ammise che tali atti riprovevoli erano stati commessi da taluni agenti di custodia di loro iniziativa e che non si potesse ritenere che tali leggerezze si inquadrassero in una politica generale. Questi comportamenti censurabili, non previsti e non richiesti, ma, al contrario, possibili di sanzioni penali, non possono essere imputati alla responsabilità dello Stato che, al contrario, ha reagito, tramite l’autorità giudiziaria, per stabilire lo Stato di diritto, turbato da tali episodi. Successivamente il Governo affermò che l’esito negativo dell’inchiesta avviata per accertare l’identità degli agenti accusati di maltrattamento non poteva fondare la violazione dell’art. 3 CEDU, dal momento che lo Stato aveva operato con diligenza e, semmai, l’impossibilità di giungere ad una conclusione soddisfacente doveva essere imputata al ricorrente, che aveva omesso di richiedere le visite mediche immediatamente dopo aver subito i maltrattamenti in questione e non era stato in grado di riconoscere gli agenti di custodia nelle foto (esibite in fotocopia) che gli erano state mostrate e che, perciò, ogni ulteriore attività investigativa sarebbe risultata inutile.
Il ricorrente fece riferimento al rapporto del Magistrato di Sorveglianza di Livorno, da cui si evinceva che i metodi adottati a Pianosa erano uno strumento volto ad intimidire i detenuti e ad incentivare la collaborazione; altresì affermò che l’archiviazione della sua denuncia penale, perché erano rimasti ignoti gli autori del reato, era avvenuta a causa della superficialità delle indagini svolte, e questo confermerebbe che all’epoca i fatti di Pianosa erano noti e tollerati dal Governo. La Corte prese anche cognizione del rapporto del presidente del Tribunale di Sorveglianza, peraltro prodotto dal Governo e, pur non sottovalutando la questione, si limitò a prendere atto che, in effetti, all’epoca dei fatti, nel carcere di Pianosa persisteva una situazione allarmante seppur di carattere generale (Sentenza Labita c. Italia, 6 ottobre 2000, n 26772/94).
Nel secondo caso preso in esame dalla Corte di Strasburgo, il Signor Indelicato, detenuto presso il carcere di Pianosa, denunciò di avere subito percosse e insulti da parte degli agenti di custodia. I fatti denunciati dalla moglie del signor Indelicato si verificarono nello stesso periodo del caso Labita (estate 1991). In quella circostanza il Governo rivelò che, a seguito di indagini amministrative, il clima di forte tensione che regnava tra gli agenti di custodia e gli abitanti (rectius detenuti) dell’isola di Pianosa era dovuto all’arrivo di numerosi detenuti particolarmente pericolosi e che, pertanto, questo comportava una maggiore intransigenza e una disciplina più rigorosa da parte degli agenti di custodia. A seguito della denuncia presentata dalla moglie del ricorrente nell’agosto del 1992, nel febbraio 1999 il Pretore di Livorno condannò due agenti, avendo ritenuto provato che il ricorrente avesse subito maltrattamenti dai predetti. La Corte di Appello di Firenze, tuttavia, ritenendo che i fatti dovessero essere riqualificati come violenza privata (ex.art.610 c.p.), anziché come abuso di autorità contro arrestati e detenuti, successivamente annullò la sentenza restituendo gli atti alla Procura della Repubblica di Livorno (Sentenza Indelicato c. Italia,18 ottobre 2001 ricorso n.3143/96).
A volte pensiamo di vivere in città civili e tranquille. In realtà, ogni città nasconde un lato oscuro, che oggi sembra dilatarsi sempre di più ed espandersi perché coperto dall’omissione, dal compromesso, dall’amnesia, dalla paura di guardare. Quel lato oscuro continuerà ad espandersi finché non ci sarà luce ad illuminarlo.
È arrivato il momento di accendere questa luce.

Marcello Dell’Anna*, ergastolano ostativo
Penitenziario di Badu e Carros (Nuoro),ottobre 2014
Marcello è nato il 4 luglio 1967, a Nardò (Lecce). Detenuto ininterrottamente da oltre 22 anni, ha vissuto sino ad oggi nelle patrie galere per oltre 25 dei suoi 47 anni, attualmente sconta una condanna all’ergastolo, è sposato ed ha un figlio di 26 anni.
È un detenuto con il cruccio dello studio e della scrittura. Nel corso degli anni di detenzione, infatti, ha conseguito diversi attestati ed ottenuto vari encomi, nel 2012 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti.
Ha pubblicato il testo Autobiografia di un uomo-in raccolta di poesie, (Pietro Manna editore 2007) ed altri suoi testi sono in attesa di valutazione.
Tutto questo però, quando sei un condannato all’ergastolo ostativo, diventa per qualcuno “una questione di secondaria importanza”.

 

L’isola del diavolo

Per non dimenticare le carceri speciali.

Per non dimenticare Pianosa e l’Asinara.

Per non dimenticare il diritto calpestato e stuprato.

Perché qualcuno sappia ciò che è accaduto.

 

Arrivai il 26 agosto 1992 all’Asinara, sez.41 bis Fornelli. Una prigione nella prigione, una fogna dentro una fogna. La sezione 41 bis dell’Asinara è stata partorita da alcuni uomini in nero del Ministero di Disgrazia e d’Ingiustizia per dare la possibilità al sistema, di nascosto da tutto e da tutti, di distruggere i prigionieri con un metodo atrocemente malvagio, illegale e dittatoriale.

Accadeva di tutto, piccole e grandi violenze, pestaggi ed umiliazioni, guardie che rubavano e brutalizzavano in nome del popolo italiano. Le istituzioni non potevano ignorare, ma l’hanno fatto, hanno chiuso un occhio, a volte tutt’e due, per convenienza, per far pentire i furbi e i malvagi.

All’Asinara in quel tempo non c’era legge, quindi non c’erano diritti né giustizia. Veniva smorzato ogni tipo di spirito di rivolta attraverso precise tecniche psicofisiche, insomma, si veniva gradualmente annientati. Come ulteriore colpo di viltà, anche i magistrati di sorveglianza, che nonostante tutto avrebbero avuto la possibilità di discernere il vero dal falso facendo appello al buon senso (ma anche questo, quando c’era, restava nascosto) non agivano per paura del senso comune.

Là dentro non avevano più nulla, tranne noi stessi. Alcuni si limitavano a sopravvivere ridotti quasi come degli animali, altri decisero di usare la giustizia per alleviare le loro sofferenze e si pentirono.

Io mi ribellai in vari modi, feci anche lo sciopero della fame per oppormi all’oppressione e all’ingiustizia… e sì, ce l’ho fatta, sono partito con la stessa dignità con cui sono arrivato nella maledetta isola del diavolo. Ho lottato molto, ho lottato sempre per potercela fare. Pochi ce l’hanno fatta e per quei pochi è stata una vittoria. Nei momenti più duri la mia famiglia era l’unica ragione di vita, non avevano altro obiettivo che lottare per uscire da quel posto. Nei momenti più brutti mi ripetevo: “Carmelo, devi farcela”. Quando tutto mi sembrava impossibile, quando soffrivo atrocemente, anche in quei momenti ritrovavo l’incredibile forza di reagire. Reagivo soprattutto con la speranza di ritrovare la via del ritorno. Quando ti trovi in momenti drammatici, tutto appare più chiaro e ti aggrappi ai veri valori della vita: l’amore e la dignità. Continuavo a lottare, era uno modo per sconfiggere la cattiveria dei miei aguzzini, dovevo credere, credere fortemente in me stesso. Ricordare quei momenti mi provoca una profonda rabbia, è difficile ripensare a quei giorni senza rabbia e senza provare di nuovo l’angoscia di allora, quando temevo che la capacità di reagire del mio fisico non fosse pari alla mia volontà. L’alimentazione era scarsa e cattiva, i topi erano ospiti fissi nella cella,una sola doccia di due minuti la settimana, mancava l’igiene… ma andiamo per ordine.

Dopo i gravi fatti accaduti nel paese, venni sottoposto allo stato di tortura dell’art.41 bis O.P. e tradotto nella famigerata sezione Fornelli del carcere dell’Asinara, in Sardegna.

Un viaggio allucinante: venni prelevato individualmente, messo in branco insieme ad altri compagni, tutti trasportati prima con aerei militari (sempre con le manette ai polsi) e dopo in elicottero. Appena arrivati sull’isola fummo immediatamente oggetto di soprusi e violenze. Un incubo fatto di sadismi, umilianti perquisizioni ad oltranza, spogliati delle nostre piccole cose, derisi; i nostri pacchi e vestiti mandati indietro, se non “persi”, oppure saccheggiati, eravamo in balia di aguzzini con la licenza di fare come gli pareva, se gli pareva, quando gli pareva. Una volta messo nudo in cella, con solo un paio di pantaloncini ed una maglietta, uno spazzolino e dentifricio (che in seguito presi ad usare per lavare i piatti), provai un senso di torpore che mi ammaliava la mente, spingendomi verso l’accettazione meccanica del fatto che mi trovavo in grossi guai, ostacoli insormontabili. Eppure si nascondeva nella mia mente confusa la forza di non arrendermi ai vari soprusi che si delineavano, indurito da una determinazione interiore che avrebbe sostenuto la mia anima quando il cuore e la ragione avessero ceduto.

Dopo i primi giorni avvenne il primo pestaggio: quando si usciva all’aria gli sgherri si mettevano in fila con i manganelli in mano. Un compagno anziano, lento nei movimenti, rimasto indietro, venne preso a calci, pugni e manganellate. Sentivamo urla strazianti. Al ritorno vedemmo il sangue sparso nel corridoio, ma eravamo tutti troppo impauriti per potergli offrire la nostra solidarietà e quella nostra debolezza fu l’inizio della fine, poiché fatti analoghi, in seguito, si ripeterono sovente.

In quel periodo imparai a conoscermi, a crescere dentro, scoprii che lo Stato era peggio di quel che credevo, mi faceva conoscere privazioni, torture e patimenti nell’assenza più totale di legalità, giustizia e umanità. In quella maledetta isola, dove persino i gabbiani erano infelici per quello che vedevano, nell’estate del ’93 iniziai lo sciopero della fame. Risparmio la descrizione dello stato in cui mi ero ridotto, dico soltanto che, nonostante le mie precarie condizioni, subivo comunque continue provocazioni d’ogni genere da parte del personale di custodia. Vivevo quei giorni terribili con una segreta tristezza, così profonda che mi pareva impossibile vederne il fondo. Più i giorni passavano, più mi sentivo debole, sia nel corpo che nella mente; i morsi della fame erano terribili, mi sentivo isolato e disperato, internato in un mondo escluso dal mondo umano. Una mattina chiesi un bicchiere di caffè, ma mi venne negato, per averlo avrei dovuto interrompere lo sciopero della fame, rimasi stravolto dalla rabbia, non riuscivo a formulare nessun pensiero. Quell’aguzzino che mi aveva negato un bicchiere di caffè (acqua sporca) nelle condizioni in cui mi trovavo, mi aveva fatto capire che non c’era ragione di aspettarsi che un uomo libero fosse moralmente migliore di uno prigioniero e che un uomo prigioniero fosse meno di un uomo libero. Tutti i giorni, con sufficienza, venivo visitato e pesato da un dottore. Da 73 chili, il mio peso forma, ero sceso a 56 chili ed era appena passato un mese e mezzo da quando avevo iniziato lo sciopero della fame. In quelle condizioni sentivo che il cervello non mi funzionava più come prima.

Il mondo mi sembrava capovolto. Le convinzioni, i fatti della mia esistenza mi apparivano alterati, in disordine, qualcosa stava andando in pezzi. Di me non c’era più niente, solo un fantasma che cercava, nonostante tutto, d’essere uomo. Fortunatamente in quel periodo iniziarono i miei processi ed il presidente della Corte di Assise di Massa, sapendomi ancora in sciopero della fame, mi tolse il 41 bis, ma dopo un breve periodo il Ministero di Disgrazia e Ingiustizia me lo rimise. Arrabbiato e deluso, incassai quel nuovo trauma per assimilarlo e riporlo assieme alle molte violenze subite dal mio spirito. Non potevo certo di nuovo iniziare lo sciopero della fame, avevo giurato solennemente alla mia famiglia di non farlo più. Inoltre, sia fisicamente che mentalmente, non ero nelle condizioni di procedere con quell’atroce agonia. Ritornai all’Asinara, dove le cose non erano migliorate, anzi erano peggiorate: soliti pestaggi per lo sfortunato di turno e solito trattamento crudele, disumano ed ingiusto. E così passarono gli anni, pensavo di avere raggiunto il fondo, ma mi sbagliavo, non c’era mai fine al peggio. Mi comunicarono l’inizio dell’isolamento diurno di 18 mesi.

Mi sembrò assurdo, illegittimo, nello stesso periodo ero sottoposto a due misure di rigore, sia l’isolamento che il 41 bis. Avrei dovuto essere sottoposto solo ad una delle due, ma in quella maledetta isola del diavolo non c’era legge. Il tutto era per me ancor più pesante, perché rifiutavo di diventare un vegetale e tentavo in ogni modo di resistere e di conservare la mia identità umana. Dopo cinque anni, finalmente lasciai l’Asinara, dove ho visto tanto, di tutto e di più:uomini trattati alla stregua di bestie da altri uomini.

I nostri aguzzini erano convinti che il male si confonde col bene.

Invece non è così, dal male può nascere solo il male.

Carmelo Musumeci

 

Pianosa

Ormai da parecchie ore mi ero addormentato, ad un tratto mi svegliai di soprassalto. Alcuni secondini avevano aperto la porta blindata ed il cancello, erano entrati in cella ed avevano circondato la branda, mi dissero:
“Alzati, devi partire”.
“Per dove?”
Un secondino, con la mano destra, mi prese per i capelli, tirandomi fuori dal letto, un altro mi diede un pugno, dall’alto verso il basso, sul collo. Cercai di difendermi. Erano sei e si scagliarono tutti contro di me con pugni e calci, riuscii a dare qualche pugno, caddi a terra, mi rialzai, caddi e mi rialzai di nuovo, finché non ricaddi ancora a terra e non ebbi più la forza di rialzarmi. Il mio volto era ridotto a una maschera di sangue, non dissi una parola né pronunciai un lamento, si sentivano solo le grida dei secondini. Mi portarono all’ufficio matricola, ancora tutto stordito, mi misero i tre zippi (manette) e mi fecero salire su un furgone blindato. Scesi all’aeroporto militare.
Non chiesi dove mi stessero portando né dove fossero i miei vestiti.
Avevo con me solo il pigiama che indossavo ed un paio di ciabatte di plastica ai piedi. Mi imbarcarono su un elicottero militare, il rumore era assordante e non mi diedero la cuffia per proteggermi da quel frastuono.
Dopo molte ore arrivai all’isola di Pianosa e lì ad attendermi c’erano una trentina di secondini, carabinieri e finanzieri. Era il 22 luglio 1992, ore 19:20, un caldo insopportabile. Spento finalmente l’elicottero -una liberazione per le mie orecchie-ancora tutto stordito mi fecero scendere e appena misi i piedi a terra alcuni secondini mi diedero pugni e calci, venni preso di peso come un fiammifero e lanciato dentro una jeep. Sbattei la testa sulla sbarretta del bracciolo del seggiolino e le manette mi vennero strette ancor di più, da bloccare così il passaggio del sangue; mi diedero un pugno in testa, gridando:
“Abbassa la testa bastardo.”
Dopo cinque minuti di strada, mi fecero scendere spingendomi fuori dalla jeep, caddi a terra e con un gesto istintivo mi riparai il viso con l’avambraccio, venni sollevato di peso, e ancora schiaffi e calci: venni fatto entrare in un fabbricato e messo in una cella d’isolamento, tre metri per due, c’erano una branda di ferro massiccio saldata per terra, un lavandino d’acciaio saldato al muro con sopra un rubinetto da cui sgorgava acqua salata, non potabile.
L’isola di Pianosa era sprovvista d’acqua dolce, questa veniva portata sull’isola dalla nave cisterna che la prelevava da Piombino. Per bere si consumava acqua minerale imbottigliata, la Direzione ne concedeva solamente un litro al giorno, l’altra avremmo dovuto comprarla, se non avessimo voluto patire la sete.
Al fianco del lavandino c’era il gabinetto alla turca, a destra una mensola di ferro saldata al muro, a terra nel mezzo un seggiolino. I muri erano umidi, sopra vi si erano formati alcuni canaletti che arrivavano fino al pavimento, l’acqua scorreva come nei cambi di riso.
Mi venne ordinato di spogliarmi e, rimasto nudo, mi fecero abbassare a quattro zampe, mi vennero divaricate le natiche per ispezionarmi le mie nudità, mi fecero aprire la bocca, alzare la lingua per ispezionarmi meglio, mi guardarono persino dentro le orecchie e nei fori del naso; poi improvvisamente si scagliarono di nuovo come belve assetate sul mio povero corpo, il pestaggio durò alcuni minuti, lunghi come un eternità. Svenni, ripresi i sensi grazie ad una iniezione fattami da una dottoressa, la quale vedendomi esclamò:
“Ma come è ridotta questa persona?”.
Il suo lavoro era quello di far finta di nulla (perché obbligata), infatti nel certificato per la medicazione scrisse: Trattasi di una piccola escoriazione sulla fronte, perché scivolato in cella.
Venni obbligato a firmare una dichiarazione, in cui sostenevano che ero caduto da solo e poi venni lasciato per alcuni giorni in cella di isolamento, con un litro d’acqua da bere al giorno, 200 grammi di vitto farcito con cicche di sigarette e pezzettini di vetro.
Spesso entravano in cella con una spranga per sbattere le sbarre, mi ordinavano di stare dritto e di abbassare la testa, di guardare a terra con le mani dietro la schiena ed ero costretto a salutare senza ricevere risposta, sia all’entrata dei secondini che alla loro all’uscita, questo per quattro volte al giorno. Mi venne consegnato un documento, col quale mi comunicavano che mi era stato applicato il 41 bis.
Tutti questi maltrattamenti, queste umiliazioni così crudeli, avevano uno scopo ben preciso: far dichiarare ai detenuti falsità (che per loro sarebbero state verità).
Dopo diversi giorni in cella d’isolamento, mi condussero nel reparto “A”, terza sezione, primo blocco, cella numero tre, qui trovai un detenuto. La cella poteva ospitarne tre, c’erano le brande ben saldate al suolo, a due metri d’altezza dal pavimento si trovava una bilancetta per conservare la biancheria; in un angolo, saldato al muro, vi era un televisore bianco e nero, a terra una panca di ferro lunga 2m x 50cm e un tavolo, tutto bloccato col cemento. Il detenuto che già era lì si chiamava Salvatore, ma si faceva chiamare Turi, era un mio concittadino, anche lui di Catania. Turi mi offrì alcune brioches, uno dei pochi alimenti che ci era permesso acquistare. Le limitazioni sugli acquisti erano uno dei divertimenti che i secondini si concedevano sulla nostra pelle. Accettai con piacere per fame, avevo perso cinque chili. Turi mi diede un paio di pantaloni, una maglietta, alcuni boxer, non poté darmi le scarpe perché ogni detenuto poteva averne solo un paio.
Per la prima volta dal mio arrivo nell’isola, finalmente mi diedero la cena: un pezzo di mortadella e un pezzettino di frittata. In seguito mi accorsi che la domenica era il giorno più sicuro per consumare la cena, perché si presentava apparentemente senza scorie, diversamente dal pranzo quando, sia nel primo piatto che nel secondo, ci trovavamo dentro un po’ di tutto, tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi. La carne non si vedeva mai. La tabella ministeriale del vitto non rispecchiava assolutamente ciò che veniva distribuito. Dove finivano i soldi stanziati per il vitto? Un gran mistero!
Accendemmo il televisore e dopo qualche minuto arrivò un secondino ad ordinarci di abbassare il volume e Turi con gran pazienza eseguì l’ordine, dopo alcuni altri minuti ritornò lo stesso aguzzino e fece la medesima richiesta, a quel punto capimmo che il suo era solo un pretesto per disturbarci, visto che il volume era al minimo. Turi finse di abbassare il volume e il segugio andò via soddisfatto.
Le guardie venivano sull’isola a rotazione, si fermavano un mese o due al massimo, alcuni firmano per molti mesi, dato che la paga era molto alta, inoltre sottraevano ai detenuti molte cose, francobolli, sigarette, bagnoschiuma, shampoo etc.. Il vino e la birra erano tra le merci più rubate, appena qualche minuto dopo che le riponevamo nello stipetto, fuori della cella.
Pochi erano i secondini che si mantenevano sobri, la maggior parte di loro canticchiava allegramente la stessa canzone: Faccetta nera. Per me non era una novità. Sapevo già che perlopiù le forze dell’ordine battono a destra.
Di notte si dormiva poco o niente, a causa di questi indegni individui perennemente ubriachi, che marciavano sbattendo gli scarponi sopra le nostre celle e spesso giocavano con le latte vuote dei pelati, urlando e schiamazzando; finito di schiamazzare sul tetto, solitamente entravano in sezione, aprivano gli spioncini e c’insultavano pesantemente.
Alla mattina non conveniva prendere il latte o il caffè, perché ci venivano gettati addosso; quando si andava all’aria, di doveva salutare e mettersi, di fronte al lato della cella, con il viso rivolto al muro, mani e braccia aperte, gambe divaricate, testa abbassata ed un secondino con il cappuccio in testa, con i guanti e il manganello, ci tastava tutto il corpo, ci faceva poi voltare ed aprire la bocca e, dopo vari colpi di manganello che piovevano da tutte le parti, più si correva e meglio era, e così si arriva al passeggio.
Il tragitto che percorrevamo per arrivare al passeggio era pieno di secondini incappucciati che davano manganellate da tutte le parti e ci ingiuriavano con frasi oscene d’ogni tipo, finché si arrivava ai cancelli, che trovavamo chiusi. A quel punto bisognava fermarsi e partiva un altro pestaggio e, dato che non potevamo correre, dovevamo aspettare che il secondino, il quale ritardava di proposito, aprisse il cancello.
Vedendo ciò, un giorno decisi di non andare al passeggio, allora i segugi entrarono nella mia cella e mi si scagliarono addosso: fu un massacro, un pestaggio così l’ho visto solo nei film dell’orrore. Esanime, mi presero di peso e mi trascinarono al passeggio. Mentre ero disteso a terra, mi si avvicinò Turi, ma un secondino gli urlò di non avvicinarsi, di non guardare, di allontanarsi e di passeggiare senza mai lasciare la fila. Era proibito parlare con gli altri detenuti, così rimasi a terra sotto il sole per un’ora. Finita l’aria, i secondini mi presero e, sempre trascinandomi, mi condussero in infermeria, dove venni messo su un lettino da visita. Il dottore non disse nulla, scrisse solo un certificato con la richiesta delle lastre; il mio viso era una maschera gonfia, il naso era rotto, il corpo pieno di sangue e di lividi, ero irriconoscibile, le pupille degli occhi coperte dal gonfiore delle sopracciglia e dalla carne del viso, il labbro rotto e gonfio, il dottore non sapeva cosa dire né cosa fare. Il comandante dei secondini con un sorriso gli disse:
“Non si preoccupi, questi mafiosi di merda, uomini senza onore e dignità, non sono nulla. Solo con i poveracci sono malandrini. Con noi guardie sono vigliacchi, ruffiani, tremano appena ci vedono, anzi fuori ci offrono il caffè, gente vile senza neanche un briciolo di dignità. Fra di loro, se un poveraccio si dimentica di salutarli, questo è già morto. A noi invece ci fanno un pompino, li trattiamo da animali, gli tocchiamo l’onore, offendiamo le loro famiglie, mogli, figli e cosa fanno? Ci leccano i piedi, questi sono i mafiosi di merda.”
A quelle sue parole seguirono risate divertite da parte dei suoi scagnozzi. Quando cominciai a muovere le dita, a riprendermi un poco, il dottore mi chiese come mi sentissi, se avevo sintomi di vomito.
Non gli risposi e lui intuì che non lo feci per paura di altre botte.
Venni portato in cella e per alcuni giorni venni lasciato tranquillo, non mi pestarono, ma continuavano ad insultarmi e dovevo con sforzo enorme alzarmi quando battevano le sbarre.
Per Turi fu diverso, veniva bastonato, umiliato ogni volta che usciva per andare al passeggio. Appena stetti meglio, ripartirono con altre botte, tutto questo durò 51 giorni. I pestaggi avvenivano dalle quattro alle otto volte al giorno. Di notte ci veniva gettata addosso acqua calda con una pompa e questo ai detenuti più anziani causava l’afa e lo svenimento. Bisognava alzarsi per pulire la cella allagata.
Dopo quei 51 giorni, venne a visitare il centro di tortura l’Onorevole Tiziana Maiolo. Sull’isola i detenuti erano stati bastonati da pochi minuti. L’Onorevole chiese di visitare le sezioni, ma il comandante volle farle vedere soltanto le strutture. La Maiolo insistette nella sua richiesta di voler vedere i detenuti, così un vice maresciallo, come se fosse capitato lì per caso, l’avvisò che a breve si sarebbe alzato il mare e che se non fosse andata via subito non avrebbe più potuto partire, col mare mosso la vedetta non sarebbe partita e sull’isola non c’erano né alberghi né pensioni. L’Onorevole partì, ma non mancò di notare il mare piatto come una tavola e, una volta giunta a Piombino, andò direttamente al comando della Guardia di Finanza per informarsi se nelle ore a venire il mare sarebbe stato mosso. Gli addetti lo esclusero nel modo più assoluto.
La Maiolo si interrogò sul perché avessero cercato una scusa per mandarla via e su cosa realmente succedesse in quel posto, le era arrivata qualche voce all’orecchio tramite alcuni avvocati. Infatti, anche gli avvocati che avevano chiesto il colloquio, per un mese si erano visti negare il permesso di incontrare i propri assistiti.
Dopo alcuni reclami, tale permesso era stato accordato dal ministero dell’Interno e da quello di Grazia e Giustizia, così un’avvocatessa era andata a Pianosa per un colloquio con un suo assistito… la fecero aspettare per molto tempo fuori dalla cinta sotto il sole cocente, aveva chiesto un bicchiere d’acqua e le era stato rifiutato, solo dopo diverse ore le venne permesso di entrare. Venne perquisita, spogliata nuda.
Cercò di protestare, ma la secondina le mise quasi le mani addosso; l’avvocatessa intuì l’antifona e decise di rimanere zitta. Le venne tolto l’assorbente, venne ispezionata nei minimi particolari e poi fatta rivestire, dopo altre ore di attesa finalmente poté parlare con suo assistito. Non riuscì a dire nulla, era sconvolta, si scusò, raccontò i maltrattamenti subiti.
“Io non vengo più qui, mi dispiace, ci vediamo al processo.”
Il detenuto non raccontò nulla di ciò che era costretto a subire lui, ma l’avvocatessa capì tutto solo guardandolo. Presentava segni di pestaggi sul viso e aveva gli occhi neri e gonfi.

L’Onorevole Tiziana Maiolo, all’indomani della sua visita, telefonò al Ministero per farsi autorizzare a visitare i detenuti, venne quindi ordinato agli aguzzini di riportarla a Pianosa e di lasciarla parlare con i detenuti. Nell’ispezione fu accompagnata di malavoglia dal comandante e dal vice sceriffo. Entrata nella prima sezione, si fermò ad ogni cella, informandosi sullo stato delle cose. Notò negli occhi e nel viso la paura, i detenuti erano terrorizzati, la paura era troppo forte, se non fosse stata accompagnata avrebbero avuto il coraggio di chiedere aiuto. Accanto a lei c’erano tutti i secondini con i loro capi, i quali con sguardi di minaccia facevano gelare il sangue ai prigionieri. Paura e terrore erano per i detenuti padroni assoluti. I secondini avevano carta bianca. Alla fine l’Onorevole si fermò nella mia cella e mi chiese come stessi, risposi:
“Male, vengo bastonato minimo dalle quattro alle otto volte al giorno”.
Mi sollevai la maglietta e la Maiolo rimase di ghiaccio, mai in vita sua aveva visto un corpo così martoriato. Il comandante divenne giallo in viso, cercò di affermare che ero un detenuto dalla psiche instabile e che gli ematomi me li ero procurati da solo. La Maiolo era piena di rabbia, chiese che le venisse aperto il cancello, voleva parlare da sola con me. Il capo degli aguzzini rifiutò di farlo categoricamente e la Maiolo urlò, lo stesso fece il comandante che intendeva intimorirla. Dopo un batti e ribatti, il maresciallo cedette e ordinò al secondino addetto alla sezione di aprire la cella. Le raccontai tutto, la Maiolo rimase sbalordita, prese nota di tutto quello che le dissi. Dopo che l’Onorevole andò via i secondini entrarono nella mia cella in assetto di guerra, erano in otto, entrarono gridando frasi oscene, io e il mio compagno venimmo colpiti con una guaina elettrica, io venni sollevato, sbattuto contro le pareti, il sangue scorreva copioso mentre loro ridevano. Non riuscivo ad alzarmi da terra e con gli occhi cercai il mio compagno di cella, lo vidi immobile, credevo fosse morto. Ad un tratto spuntò davanti alla porta una pompa, ne fuoriuscì acqua salata, la potenza del getto mi scaraventò in un angolo, l’acqua salata bruciava le ferite.
Comunque, dopo la visita della Maiolo, le torture diminuirono un po’, ma le iene continuarono a divertirsi. Spesso i secondini in un secchio d’acqua mescolavano shampoo e detersivo, materiali sottratti a noi detenuti, e poi versavano il tutto nel corridoio in modo da far diventare il pavimento molto scivoloso per i detenuti che andavano a passeggio, il fine era farci cadere. Un giorno un certo Zio Paolo, uomo anziano, batté al cancello con la testa aprendosi il cranio, i secondini gli urlarono di alzarsi e di continuare a correre, il poveretto non riuscì ad alzarsi finché i secondini non lo presero a calci…
Un giorno mi preparai per la doccia e chiesi alla guardia il bagnoschiuma e lo shampoo, lui mi rispose:
“Qui non c’è nulla, stronzo, a chi vuoi prendere in giro?”
Gli assicurai che me l’avevano consegnato il giorno prima. Il secondino, tutto arrabbiato, per intimorirmi disse:
“Come ti permetti, cosa vuoi affermare? Che ti è stato rubato? Stronzo.”
Mi arrivò uno schiaffo e sbattei la testa contro il muro e a calci venni spinto fino alla doccia. Un’altra mattina, mentre mi trovavo al passeggio, venni chiamato dal vice sceriffo e, dopo essere stato ammanettato, venni fatto salire sulla jeep, che si mosse verso l’uscita.
Mi ordinano di tenere la testa abbassata. Ad un tratto il vice impugnò la pistola e mi disse:
“Stai per morire!”.
Mi puntò la pistola alla tempia destra. Non battei ciglio, certamente la paura c’era, ma non potevo fare nulla. In quel momento pensavo alla mia famiglia. Quando sentii il grilletto girare a vuoto, capii che si era trattato di una finta esecuzione, seguirono le relative risate dei secondini e come se non bastasse mi ordinarono:
“Ora scappa, corri per la campagna.”
Io risposi no con la testa, allora un aguzzino mi diede uno schiaffo e urlò:
“Scappa.”
Io non mi mossi. Presero una corda e me la legarono un capo alle mie manette ed uno alla Jeep, misero in moto e mi trascinarono, cercavo di correre il più forte possibile
ma non potevo correre più della Jeep, finché inciampai con un piede in una buca, persi l’equilibrio, caddi e venni trascinato per circa 100 metri tra le risate e il divertimento dei maiali…
Alcuni giorni dopo, prima di andare all’aria, all’improvviso, durante la perquisizione, mi arrivò un pugno nel fianco destro. D’istinto mi mossi e, non l’avessi mai fatto, venni percosso in ogni parte del corpo con calci e pugni. Dopo cinque minuti di pestaggio il brigadiere ordinò agli aguzzini di smettere e mi portarono alle celle di punizione. Trascorsero tre giorni, venni chiamato dalla nuova direttrice, che aveva occupato il posto del suo predecessore. Tutti si davano il cambio dopo che per mesi con immane sadismo si erano divertiti sulla pelle dei poveri detenuti. Nel suo ufficio la troia mi comunicò che mi era stato fatto rapporto, questa motivazione: mi ero mosso mentre stavano perquisendomi. Provai a spiegarle i fatti, ma la troia mi minacciò e disse che mi avrebbe denunciato per calunnia. Sollevai la maglia per farle vedere il mio corpo tutto pestato a sangue:
“Questo chi me lo avrebbe fatto?”
La troia abbassò la testa.
“Può andare”.

Matteo Greco, detenuto

 

Quando lo racconteremo, non ci crederanno

… avevo fame.
Ogni giorno lo stomaco occupava i miei pensieri, perché il cibo era poco, scarso e immangiabile, come l’acqua, di cui ce ne davano una bottiglia al giorno, quella del rubinetto non era potabile, era gialla e puzzolente.
Tutto il contesto era opprimente, persino i colori della cella erano dipinti su ordine del generale dei carabinieri, Dalla Chiesa, negli anni ’70, che dopo essersi consultato con uno specialista dei colori aveva scelto i più deprimenti per fiaccare la resistenza delle Brigate Rosse, che comunque si ribellarono e distrussero la famigerata sezione Fornelli dell’Asinara, all’inizio degli anni ‘80.
Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41 bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete e il freddo, non essendoci riscaldamenti. Non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità.
In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo:
“Un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno.”
Ricordo di avere letto un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori di non essere creduti.
Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavamo.
In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti film, come è stato per Alcatraz; in Italia nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità. L’unico film degno di nota che è stato fatto sulle carceri è Detenuti in attesa di giudizio di Alberto Sordi, nel 1970, il resto sono stati filmetti che non rispettavano assolutamente la realtà.
L’occasione per emanare questa mostruosità furono le stragi del 1992-1993, direi le solite stragi di Stato, o per meglio dire, il solito metodo, quello della strategia della tensione. Quella volta avevano solo scelto interlocutori diversi.
Nei primi giorni era così tanto il mal di pancia dopo aver mangiato, che iniziai a nutrirmi di pane e frutta, ma poi dovetti soccombere e vincere la nausea. In seguito apprendemmo che nel nostro cibo ci mettevano ogni tipo di schifezza: detersivi, cibi scaduti, urina e altro.
Un giorno guardando nel piatto di pasta e fagioli vidi numerosi vermi bianchi, non mi decidevo a mangiare, ma la voce del mio coimputato mi arrivò dritta al cervello:
“Mangia che sono proteine, dobbiamo sopravvivere!”
La sua voce, come una sferzata, fece il suo effetto, mangiai tutto il piatto e così continuai tutti i giorni in cui rimasi in quell’inferno, cibandomi di tutto ciò che mi portavano, senza buttare neanche le briciole di pane.
La repressione indiscriminata distrugge ogni cosa e sortisce l’effetto contrario, alimentando un odio contro le istituzioni che passerà alle prossime generazioni. Quando si istituzionalizza la tortura, chi la subisce entra in un meccanismo di mostrificazione, utile a giustificare agli occhi della popolazione il crimine che si sta perpetrando.
Ciò innesca una spirale perversa di rabbia, rancore e odio che coinvolge tutta la cerchia familiare, per cui lo Stato viene identificato come nemico.
I politici, per paura di essere a loro volta inquisiti, facevano a gara a chi era più aguzzino nel proporre norme restrittive. I magistrati giudicanti, ostaggi delle procure, erano diventati dei plotoni d’esecuzione, condannavano alla cieca, tipo liste di proscrizione. La Corte di Cassazione era diventata un ufficio notarile, metteva solo il sigillo alle condanne. Il Paese era in mano alle procure e ai politici che le appoggiavano. Avevano instaurato un clima di paura e insicurezza, legittimando ogni tipo di repressione con la sospensione della democrazia e dei diritti civili nelle carceri, nelle caserme, nei tribunali.
Il regime di tortura del 41 bis azzera i contatti umani, si viene torturati fino a quando si accusano altre persone o si diventa uno zombi, un morto vivente. Per questo motivo in questi reparti si verificano suicidi cinque volte di più rispetto a quanti se se contano per gli altri regimi carcerari. È una tortura democratica elevata a sistema. Forse credono che, essendo democratica, sia meno disumana.
Non avevo mai provato prima una sofferenza così profonda, tanto forte che spesso diventava dolore fisico. Solo di notte, nelle 3 o 4 ore che riuscivo a dormire, trovavo un po’ di sollievo. Spesso pensavo alla morte come fuga dalla sofferenza. Molte volte mi sono ripetuto che non avrei augurato quel mio stato neanche al peggiore nemico. Sono stato molte volte sul punto di lasciarmi andare, di addormentarmi e di non svegliarmi più per potere ritrovare la pace. Morire per non soffrire più.
Non avrei mai creduto che leggere una piccola frase potesse bastare a dare una spinta motivazionale capace di farti superare qualunque ostacolo.
Un giorno un amico mi diede da leggere un libro di Friedrich Nietzsche, Così parlò Zaratustra. Mentre lo leggevo svogliatamente senza riuscire a concentrarmi per la disperazione dei miei pensieri, lessi la frase: I morti hanno sempre torto, e più avanti Il dolore che non ti uccide, ti rende forte, così scattò in me qualcosa, che innescò una reazione profonda che scosse tutti i miei sensi.
Iniziai a fare ginnastica e a leggere. La mente sembrava una locomotiva che andava a tutto vapore e iniziai a vedere di nuovo il mondo a colori. Ci davano un libro ogni 15 giorni ed io presentavo la richiesta anche per altri miei tre compagni di cella, così avevo da leggere quattro libri ogni due settimane. Tutta questa nuova energia mi portò a lottare per i diritti che venivano calpestati e mi scontrai con la Direzione dell’Asinara. Riuscii ad ottenere, attraverso un intervento ministeriale, alcune cose che la repressione ci limitava, come due docce a settimana, comprare una busta di caramella e un chilo di frutta e verdura a settimana, piccole cose ma che in quel momento per noi erano molto.
Me la fecero pagare.
Trascorsi un intero inverno con un paio di scarpe di tela. Non avevo mai sofferto così tanto il freddo ai piedi, ma quando sei determinato in quello che fai, tutte le repressioni le sopporti con stoica pazienza. Tutte queste prove mi rafforzarono il carattere e mi diedero una forza d’animo tale da poter sopportare qualsiasi dolore.
Il potere, oggi come nel passato, cerca di far scivolare nell’oblio le infamie che sono state commesse all’Asinara, a Pianosa, a Poggioreale, a Secondigliano ed in molte altre carceri. Non dobbiamo permettere che questo avvenga, perché, come la storia insegna, ciò che non si corregge si ripete, e storie analoghe in Italia purtroppo si sono spesso ripetute, durante quei periodi di repressione ciclica che si sono abbattuti principalmente sul meridione.
Oggi, anche se sono trascorsi 22 anni, l’infamia della tortura del 41 bis continua, dalle bastonate quotidiane si è passati a metodi più scientifici. Per avere una idea basta rammentare i centri di detenzione psichiatrici sovietici, dove venivano rinchiusi i dissidenti con lo scopo di annullare la loro personalità e annichilire il loro pensiero; questo oggi è il 41 bis.
Quando sento i Savonarola che urlano di riaprire Pianosa e l’Asinara, penso a quanto siano malvagi, anche se ho la consapevolezza che non sanno di cosa parlano. I loro strali servono a mantenere la loro rendita di potere ed i privilegi acquisiti attraverso il loro lavoro di dispensatori di odio, non pensano minimamente che il loro benessere deriva da tanta sofferenza.
A volte penso che se fossi ricco finanzierei un film sul regime di tortura del 41 bis e principalmente sulle due Cayenne italiane, le isole dell’Asinara e Pianosa. Credo che solo così la gente potrebbe in parte vedere l’orrore perpetrato dallo Stato in quei luoghi.
Mai più simili barbarie. Ce lo impongono la nostra civiltà, la nostra appartenenza alla Comunità Europea e i trattati internazionali.
È tempo di colmare questo vuoto di umanità.

Pasquale De Feo
Penitenziario di Catanzaro, settembre 2014

 

Asinara

Mi chiamo Sebastiano Prino, sono nato a Nuoro il 29 luglio 1964 e con questa breve testimonianza vorrei descrivere, se è possibile farlo con la penna, il periodo di detenzione che ho trascorso nel carcere dell’Asinara dal 3 ottobre 1995, data del mio arresto, al mese di luglio del 1997, cioè fino alla chiusura di quel piccolo lager che, in termini di sospensione dei diritti umani, ha poco da invidiare ai più famigerati penitenziari di Abu Grahib in Iraq o all’ancor più noto carcere di Guantanamo, messo anch’esso in piedi dal Governo americano per rinchiudervi i nemici combattenti catturati in Afghanistan.

All’alba del 3 ottobre del ’95, mentre mi trovavo a governare il mio gregge, che in quel periodo come al solito aveva cominciato a figliare, sono stato arrestato con l’accusa di avere partecipato ad un tentativo di rapina, avvenuto circa un mese prima ai danni di un furgone portavalori e che si era concluso con la morte di quattro uomini, due militari e due ragazzi che avevano preso parte all’assalto. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, dopo un passaggio alla questura di Nuoro, mi ritrovai nell’isola dell’Asinara, rinchiuso in una cella della struttura adibita al 41 bis. Ricordo perfettamente che in quel giorno indossavo un paio di pantaloni neri di velluto liscio, scarponi di pelle dello stesso colore a cui furono subito tolti i lacci, una maglietta intima e, sopra di essa, un maglioncino verde che dava un tocco di colore al resto degli indumenti e, soprattutto, al mio volto terreo che in quel momento rifletteva il turbine di sentimenti che attraversava il mio animo. Il lucido ricordo che ho dei capi di abbigliamento che indossavo quel giorno deriva dal fatto che essi sono stati gli unici indumenti che ho indossato, giorno e notte, per i seguenti otto mesi, cioè fino alla primavera del ’96, quando venne concesso ai miei familiari di inviarmi un pacco postale, contenente, oltre a un paio di tute, un accappatoio, un asciugamano e mutande e calze che da tempo non usavo più, essendomisi putrefatte addosso.

Quei primi otto mesi di galera nel carcere dell’Asinara non furono duri solo perché trascorsi in condizioni di totale abbruttimento dal punto di vista igienico, ma anche per il fatto che in quel periodo mi colse un fortissimo mal di denti, curato con la somministrazione di un’aspirina al giorno e che, dopo una decina di giorni, mi spinse a tentare il suicidio, non riuscito solo per il fatto che le calze, usate come cappio, logore per l’uso, non ressero il mio peso. Inoltre, a queste prevaricazioni va aggiunto il non secondario fatto che, ogni qualvolta riuscivo ad addormentarmi, venivo svegliato dallo scuotere dello spioncino metallico o dalla battitura su esso delle enormi chiavi delle porte blindate. Questo accanimento su me derivava dal fatto che, durante gli interrogatori a cui venivo sottoposto e nonostante le offerte di benefici, denaro e libertà per ottenere la collaborazione con gli inquirenti, mi avvalevo sempre alla facoltà di non rispondere, un mio diritto sancito dal codice di procedura penale, e il mio mutismo li faceva imbestialire. Credo di essere riuscito a sopravvivere a quelle torture fisiche (poiché neanche quelle mi sono state risparmiate) e psicologiche solo grazie al fatto di essere cresciuto in un ovile barbaricino, le regole che vigono in quell’angolo di mondo mi hanno temprato alla lotta e a soffrire in silenzio. Oggi, a 17 anni dal giorno dell’arresto, sono ancora dentro un carcere, dove inutilmente, notte dopo notte, tento di disfarmi di ricordi che l’inconscio si ostina a riportare a galla. Per quel che può valere, faccio presente che al momento dell’arresto ero incensurato e che il reato di cui ero accusato non prevede ora, né tanto meno lo prevedeva allora, la detenzione nel braccio del 41 bis, dove invece sono stato illegalmente detenuto per circa due anni.

Termino questo breve scritto augurandomi che questa testimonianza, insieme ad altre, venga letta e diffusa tra i lettori di ogni angolo di questo Paese, per fare conoscere e conseguentemente evitare ad altri nel futuro le torture subite da me e da tutti coloro che furono relegati nelle isole dell’Asinara e di Pianosa dal 1992 al 1997, cioè in un periodo dove di fatto ad un pugno di uomini è stato sospeso ogni diritto costituzionale.

Che tutto questo non abbia più a ripetersi.

 Sebastiano Prino

 

Tortura

 Sottoposto a regime di tortura del 41 bis nell’isola di Pianosa dal 1992.

Queste memorie hanno il compito di ricordare l’infamia accaduta, con il consenso dello Stato, in un paese ritenuto civile, ovvero il nostro, di informare le future generazioni e di impedire che quei fatti cadano nell’oblio come è avvenuto per le torture autorizzate dallo Stato contro le Brigate Rosse durante gli anni di piombo.

All’inizio di settembre 1992, mi trovavo nel carcere di Alessandria, vennero alle tre di notte molte guardie nella mia cella e mi svegliarono in modo brusco, mi ordinarono di vestirmi in tre minuti. Chiesi se dovevo essere trasferito, mi risposero solo che dovevo andare con loro, mi portarono al magazzino e, dopo quindici minuti, arrivò tutta la mia biancheria avvolta in un lenzuolo. Quello che stava avvenendo non suscitava in me rabbia, ero abituato a quelle prepotenze e non potevo ancora immaginare che stavo andando incontro ad una delle esperienze più traumatiche della mia vita.

Lasciammo il carcere e solo quando arrivammo al porto di Piombino capii che mi stavano portando all’isola di Pianosa. Ci imbarcammo sulla nave e nella stiva, dove erano le celle, c’erano altri due detenuti. Ognuno di noi aveva la propria scorta, in tutto una quindicina di carabinieri. Questa precisazione ha un motivo che da qui a breve capirete. Giunti a Pianosa ci rimisero gli schiavettoni e ci portarono in un piazzale dove parcheggiavano le auto e i camion. In quel momento non c’erano e al loro posto c’erano una sessantina di guardie. Ci fecero fermare e, uno per volta, ci fecero avanzare alla distanza di due metri da un brigadiere. Questi, rivolgendosi a me, gridò:

“Lei come si chiama?”

Risposi:

“De Feo Antonio” ma lo stesso continuò gridando ancora più forte, gli risposi gridando anch’io.

“Mi chiamo sempre come di prima, De Feo Antonio.”

Il brigadiere chiese di togliermi gli schiavettoni e subito mi misero le manette, spostandomi di 5-6 metri. Tutti insieme i carabinieri delle tre scorte mi saltarono addosso. Si erano messi d’accordo durante il viaggio, mi riempirono di botte. Mai avrei immaginato che era solo l’inizio. Neanche avevano finito e iniziarono le guardie, che erano molto più numerose. Mi trovavo in balia di un’orda forsennata che colpiva come se stesse facendo un linciaggio, si colpivano anche tra loro. Sembrava che io fossi diventato il male assoluto tra i problemi dell’Italia. Dopo essersi sfogati in modo bestiale, mi caricarono, insieme agli altri due detenuti, su una jeep e ci portarono tutti alla sezione Agrippa. Il brigadiere disse alle guardie:

“Prima gli altri due carcerati, e in ultimo De Feo”.

In un quarto d’ora perquisirono i due carcerati. Arrivò il mio turno, entrai in una stanza, c’erano un tavolo e una coperta a terra.

Mi dissero di spogliarmi. Come rimasi nudo, iniziarono di nuovo a bastonarmi. Mi ordinarono di fare le flessioni e mentre le facevo si divertivano a picchiarmi senza sosta. Dopo un quarto d’ora di questo trattamento, mi dissero di rivestirmi ma continuavano lo stesso a menarmi. Si fermarono solo un attimo per dirmi:

“Qui comandiamo noi.”

Non c’era bisogno di dirlo, è sempre stato così.

Mi fecero uscire dalla stanza, le guardie si erano messe a destra e a sinistra del corridoio, che dovevo attraversare per arrivare alla cella, mi arrivarono botte da tutte le parti, addirittura cercavano di trattenermi per meglio assestarmi i colpi, un massacro condito dalla ferocia bestiale non di uomini, ma di bestie che godevano nel fare quello che stavano facendo, il tempo mi sembrò interminabile. Arrivato alla cella, chiusero anche lo spioncino. In quell’attesa l’ansia faceva da padrona. Una voce onesta mi parlò:

“De Feo, ascoltami bene. Contro di te hanno cattive intenzioni, perciò non rispondere a nessuno, altrimenti ti ammazzano”.

Questo me lo ripeté due volte. Era palese che quella onesta persona non faceva parte delle bestie che c’erano in quel luogo infame ed era contraria al sistema di torture che veniva applicato in modo feroce. Le bestie vantavano di poter fare tutto quello che volevano, dato che avevano carta bianca dal Ministero e dal Governo.

Il calvario del primo giorno non era ancora finito. Verso le sette di sera vennero di nuovo le guardie a dirmi che dovevo andare in infermeria per la visita medica. Dovetti di nuovo fare il corridoio del linciaggio e ancora mi massacrarono senza sosta. Ciò che faceva più male erano le mortificazioni verbali e i loro sorrisi soddisfatti. Arrivato tutto stravolto dalla dottoressa, questa, con lo sguardo sulla mia cartella medica personale, mi chiese:

“Ha problemi?”

Gli risposi di no. Tranquillamente mi misurò la pressione, vedeva che ero stravolto e pieno di ematomi in faccia e in altre parti del corpo e fece finta di niente, poi disse:

“Bene, lei può andare.”

In quel momento capii che erano tutti d’accordo. Il comportamento della dottoressa era simile, se non peggiore, a quello dei dottori nazisti nei campi di concentramento o a quelli dei gulag sovietici.

La libertà della democrazia le avrebbe consentito di opporsi a quel sistema di torture, ma non lo fece. L’ansia e la paura mi assalirono nel pensare che avrei dovuto di nuovo percorrere il corridoio del linciaggio, ma non c’erano alternative, ero stanco del viaggio e di tutte quelle botte che avevo preso. Mi picchiarono con più foga. Col senno di poi ho compreso perché si accanirono in quel modo, perché non gli davo soddisfazione, perché non gridavo.

Una volta in cella, credevo che la giornata fosse finita, ma mi sbagliavo, le bestie non erano ancora sazie. Verso le nove e mezza ritornarono di nuovo, mi intimarono di andare con loro con un tono che non prometteva niente di buono, mi portarono nell’ufficio del comandante, che mi disse:

“Qui comandiamo noi e gli agenti possono fare quello che vogliono perché sono la legge in tutto e per tutto.”

Mi ingiuriarono dicendomi di tutto e, dopo che il capo si era sfogato per bene, mi portarono in sezione, però questa volta per arrivare alla sezione, al terzo blocco presso la cella n.3, che mi era stata assegnata, c’erano da percorrere oltre 50 metri e le guardie erano il doppio di prima. Ero sfinito, ma dovetti farmi forza. Fu peggiore di tutto quello che avevo dovuto subire fino a quel momento. Furono più bestiali di prima, mi fecero di tutto, botte, ingiurie, addirittura mi colpirono con le chiavi in testa, quelle che servono per aprire le celle.

Pensavo che mi avrebbero ammazzato, come mi aveva avvisato la voce onesta. Cercavo di arrivare alla cella, ma i colpi in testa mi avevano rintronato e le mie gambe venivano meno. Dopo un tempo interminabile arrivai davanti alla mia cella, la guardia adibita all’apertura della cella aprì lentamente, affinché i suoi colleghi potessero continuare a picchiarmi. Alla fine mi spinsero dentro come un sacco di patate e mi trovai vicino alla finestra, non mi girai fino a quando non sentii il rumore delle chiavi che chiudevano il blindato, guardandomi intorno vidi che c’erano altri due reclusi. Per quel giorno le barbarie erano finite, ma quello era solo l’inizio di un tempo interminabile di torture.

La mattina seguente, alzandomi dal letto capii dove mi trovavo. Mi sentivo la testa tutta indolenzita e pesante, ricordavo le botte che avevo preso la sera prima. Non riuscivo a capacitarmi di tanta crudeltà da parte di agenti in divisa che dovevano rispettare le regole e farle rispettare, mentre invece gareggiavano a chi era più determinato a essere un bravo esecutore, come le SS nei campi di concentramento, e se ne compiacevano. Passarono il latte. Credo che neanche la più fervida immaginazione possa arrivare a pensare qualcosa del genere: uno schifo impressionante, una pentola di rame senza manici, tutta nera, come quelle che si usavano sul fuoco a legna in campagna, era trascinata per terra con un pezzo di fune di circa mezzo metro. La guardia, con un branco di bestie al seguito, cantava e rideva divertendosi, ci dava una porzione minima, ma questo non era il problema maggiore, il problema era che ci sputavano dentro, ci buttavano detersivi, ci urinavano, e altre schifezze simili.

A Natale del 1992 ci misero tutto l’impegno per prepararci un bel pranzo per le sante feste. Sia a Natale sia a Capodanno ci diedero un osso macchiato di sugo di pomodoro. La carne la mangiarono loro e le ossa le diedero a noi. Per fortuna c’era il pane e potemmo calmare i brontolii dello stomaco. Tutto il resto era uno schifo. La pasta per poterla mangiare dovevamo sciacquarla, dopo che le guardie erano andate via, e così mangiavamo pasta in bianco. Mangiare era una guerra di sopravvivenza.

Un altro problema era l’acqua da bere. Ce ne davano un litro al giorno. Dopo un anno ce ne concessero due litri e fecero qualche altro cambiamento, usavano il carrello per i pasti, almeno così l’igiene era garantita.

Al mattino, quando andavamo in cortile per l’ora d’aria, dovevamo metterci faccia al muro con le mani appoggiate (come nei film americani) e i piedi divaricati. Da dietro si divertivano a dare calci nelle caviglie, il dolore era molto forte e difficoltoso stare in piedi quando poi ci facevano girare. Poi iniziava il controllo equino:

“Apra la bocca, alzi la lingua.” E non contenti, guardavano tra i capelli.

Alla fine ci lasciavano andare ed iniziava il percorso nel corridoio del linciaggio; l’impresa non era da poco, perché per arrivare al passeggio bisognava girare a sinistra e, per meglio divertirsi, buttavano a terra olio e detersivi, così scivolavamo facilmente e loro potevano picchiarci ancora di più. All’ingresso del passeggio immancabilmente c’era sempre un gruppo di guardie che ostruiva l’entrata di proposito, e giù botte da orbi con feroce crudeltà. Ricordo ancora i loro schiamazzi di reciproco compiacimento. Entrati nel cortile, le guardie sui muri di cinta gridavano: “Abbassare la testa” e poi parolacce e ingiurie che avrebbero mortificato anche le pietre; il cortile era a piano terra come le celle. Vedevamo i nostri materassi poggiati alle finestre e tutta la cella all’aria. Quando rientravamo, di nuovo la solita trafila.

Prima la perquisizione e poi il corridoio del linciaggio. Entravamo in cella, mettevamo in ordine quel poco che avevamo e rifacevamo i letti.

Il pomeriggio iniziava di nuovo tutto da capo. Perquisizione con calci, controllo equino, vada e giù bastonate fino al cortile. Al suo interno ricominciavano le guardie sui muri di cinta; insomma, tutte le bestie dovevano avere la loro razione di divertimento. Era obbligatorio andare nel cortile due volte al giorno, un’ora al mattino e un’ora al pomeriggio. Andavano in cella a dare le botte se qualcuno si rifiutava di uscire.

La solita trafila succedeva anche quando si andava dal dottore o da altre parti.

Questo inferno quotidiano durò per circa quattro mesi, poi iniziarono a filtrare le notizie all’esterno, nei tribunali e anche a Roma, perché, come sempre, tra i parlamentari c’erano avvocati che avevano clienti detenuti in quei luoghi, ma il terrore del fronte repressivo li bloccava. La più coraggiosa parlamentare fu l’on. Tiziana Maiolo che venne a Pianosa e andò all’Asinara e questo limitò la crudeltà delle bestie feroci. Il clima di paura e di tensione continuò comunque.

Ogni occasione era buona per picchiarci ed ingiuriarci. Il corridoio del linciaggio era stato solo limitato, ma il calvario continuò incessantemente per mesi e anni.

Solo la sera, con la chiusura del blindato, ci sentivamo più sicuri e, con la speranza che per quel giorno le botte fossero terminate, ci rilassavamo, anche se andavamo a dormire sempre con la paura e la tensione addosso. Molti di noi avevano gli incubi e, ad ogni rumore che si percepiva nella notte, saltavamo dai nostri letti. La paura delle botte aveva instillato in noi un profondo terrore.

Tutte le mattine, quando aprivano il blindato della nostra cella, iniziava la nostra via crucis, subivamo ogni forma di prepotenza e vessazione. Avevano elevato la tortura a sistema.

Quando volevano divertirsi, spesse volte ubriachi, venivano davanti alle celle e gridavano: “Abbassate la televisione.”

La maggior parte dei carcerati non la accendeva per evitare il pretesto della voce alta e prendere legnate e rispondeva che era spenta, allora gli aguzzini prendevano anche questo come pretesto e, con la scusa che i detenuti avevano mentito, picchiavano lo stesso. Nella sezione non si sentiva volare una mosca, ma ugualmente creavano tensione affinché non avessimo un attimo di tranquillità. Anche la doccia settimanale era un calvario. Perquisizione con calci alle caviglie e la solita razione di cazzotti ai fianchi. Come ci vedevano insaponati ci urlavano di uscire fuori. Il loro divertimento era farci tornare in cella tutti insaponati, malvagità gratuità, erano sicuri dell’impunità che gli garantiva lo Stato.

Una volta litigai con un detenuto e mi portarono alle celle d’isolamento, dove mi conciarono in modo tale da lasciarmi a terra svenuto con la testa rotta, dal mattino fino al pomeriggio, senza nessun soccorso. Quando rinvenni avevo la testa con i capelli intrisi di sangue indurito e una ferita di tre centimetri. Non fui visitato e neanche medicato. Rimasi così fino al giorno seguente, poi mi portarono un mezzo lenzuolo dell’amministrazione penitenziaria e con quello cercai di pulirmi alla meglio. Ero brutto da vedere, conciato male. Ci erano andati giù pesante, più del solito. Per questo motivo non mi diedero più botte e mi lasciarono chiuso nelle celle d’isolamento fino a quando non mi ripresi un po’, poi mi riportarono in sezione e iniziò di nuovo il quotidiano orrore di torture.

Un giorno mentre stavo giocando alla lotta con un mio compagno di cella, vennero le guardie e ci portarono in infermeria, il dottore ci misurò la pressione e poi fummo portati alle celle d’isolamento, ognuno in una cella diversa. Iniziarono prima con il mio compagno e si spicciarono in pochi minuti. Poi vennero tutti da me, mi spogliarono nudo. Cercai di ripararmi alla meglio, ma alla fine non riuscii neanche in questo, perché, per farmi più male, a turno c’era chi mi teneva e chi mi picchiava. Non ricordo quanto durò, ma mi massacrarono. Rimasi tre giorni nudo nella cella d’isolamento, senza niente. Eravamo io e la cella. La mia fortuna fu che era estate. Dopo tre giorni mi diedero una coperta, così potei creare con questa un giaciglio a terra per dormire. Dopo altri tre giorni mi diedero la biancheria e mi portarono dal direttore, il quale non volle sentire ragioni, quello che scrivevano le guardie era vangelo. Al ritorno mi tolsero di nuovo la biancheria e mi lasciarono i box. Rimasi altri dieci giorni in isolamento e fui trattato peggio di un animale. Entrambi, io e il mio compagno, venimmo trasferiti in altra sezione.

Potrei raccontare tanti altri episodi di giornaliere barbarie. Non basterebbe un libro per descrivere nei particolari quanto sia stato bravo lo Stato a creare degli aguzzini uguali alle SS dei campi tedeschi. Studiavano con dovizia come torturarci e farci soffrire il più possibile.

Nel film Sorvegliato speciale di Stallone si vede tutto il male delle istituzioni ma, paragonato al carcere di Pianosa e alla tortura del 41 bis, quella è un’oasi di pace.

     Per questa infamia nessuno ha pagato. Anzi, tutti quelli che sono andati a fare gli aguzzini a Pianosa sono stati poi promossi e hanno ottenuto bonus economici di vario titolo, sia sullo stipendio e sia sulla pensione, ringraziando le procure che hanno occultato ogni denuncia, principalmente in Toscana, che era competente con il territorio.

Hanno insabbiato ogni cosa.

Ancora oggi qualche politico prezzolato, per avere risonanza mediatica, dichiara che bisognerebbe riaprire Pianosa e l’Asinara, ma l’unica cosa che si potrebbe fare in questi luoghi è trasformarli in musei degli orrori come quello di via Tasso a Roma o di Auschwitz in Polonia.

Mi auguro che qualcuno degli aguzzini abbia un rigurgito di coscienza e faccia sapere al Paese quello che è successo in quei luoghi d’infamia.

 Antonio De Feo, detenuto

 

In memoria di Pianosa

Sono stato arrestato nel 1992 a maggio. Mi trovavo nel carcere dell’Ucciardone con altri detenuti, nella seconda sezione, addirittura non avevo neanche l’associazione di stampo mafioso. Avvennero le stragi e, dopo l’ultima, vennero a prenderci alle tre di notte:

“Dobbiamo fare la perquisizione.”

Allora dissi:

“Devo prepararmi, devo prendere qualcosa?”

“No, no, vada nel cortile che dopo la perquisizione risalirete tutti.”

“Va bene.”

Scesi con un paio di jeans e una camicia e mi buttarono lì nel canile, così chiamavano le celle di isolamento. Dopo tre ore cominciarono ad arrivare carabinieri, polizia, finanza.

“Ma cosa sta succedendo?” pensai.

Ci caricarono sopra i blindati, ci portarono all’aeroporto di Punta Raisi e da lì a Pisa, dove ci fecero salire sugli elicotteri militari. Ricordo un particolare, terrorizzato com’ero dalla visione del carcere che non avevo ancora fatto, un capitano dei carabinieri contava i detenuti ammanettati sull’elicottero a voce alta, per comunicare agli altri quanti eravamo sull’elicottero, puntandoci contro la pistola.

Arrivati a Pianosa, tra di noi c’era qualcuno più vecchio che già immaginava cosa sarebbe potuto succedere. Io, invece, ero ignaro.

Sinceramente non avevo la cultura del carcere pesante. Comunque ci portarono nelle celle (…) Passò un giorno e poi cominciò l’inferno.

Successe di tutto: legnate, manganellate, acqua tirata addosso, sputi, spinte, fatti cadere a terra.

(…)

Ricordo che si cercava di normalizzare la situazione facendo fare delle denunce ai propri familiari. Ricordo che venne addirittura la Maiolo, venne Taradash, vennero altri politici, ma durante le loro visite tutto risultava normale perché le guardie, dietro di loro, ci imponevano di stare zitti, per cui nessuno, per timore, diceva cosa eravamo costretti a subire e la cosa durò per mesi.

Io lì dentro trascorsi cinque anni, un mese e venti giorni. Io ho brutti ricordi, brutti ricordi e dico solo che la violenza è generatrice di violenza e se ad una persona tu levi la libertà, le hai già levato tutto e non c’è più bisogno di infierire con altra violenza su quella persona che magari vuole riscattarsi. Non ce n’è bisogno soprattutto quando la persona viene infangata nell’onorabilità, come avviene nel caso di molti siciliani, di molte persone… Lasciamo stare queste cose, io sono uscito a testa alta da tutti i processi.

Il discorso invece è un altro: lo Stato si è prestato a queste direttive che trovo vergognose. Vorrei che mi si spiegasse perché su di me si è fatto un crimine, perché per questo crimine non sta pagando nessuno, anche se ho denunciato gli artefici di questi abusi? Volevo rispondere al Dottor Palma, della Commissione Europea, che in Italia gli autori di questi abusi, pur essendo stati condannati, non hanno espiato un giorno di pena e si ritrovano attualmente a lavorare all’interno del carcere, quindi non è cambiato niente.

(…)

Una volta per curarmi quattro denti, mi portarono dal dentista e questo mi disse:

“Togliete le manette al detenuto.”

“No, no, operi così” gli risposero.

“Guardi che deve anche sciacquarsi.”

“No, no, operi così e basta, stia zitto.”

Allora si misero in sette-otto, chi con le pinze e chi con lo scalpello, a tirare il dente, il medico ebbe paura e questo è riportato nella mia denuncia. Questo medico per paura decise di intervenire lo stesso sul dente, ma non capì quello che stava facendo, tant’è vero che mi rovinò il dente buono e tralasciò di intervenire su quello cattivo. Alla fine mi disse:

“Fra 15 giorni ci vediamo e completiamo il lavoro”, ma vedevo che era più terrorizzato di me. Quindi venni messo sul blindato e massacrato (uscimmo dalla sezione Agrippa per andare in un carcere dove c’erano gli ergastolani che andavano a lavorare fuori). Questo avvenne il 22 dicembre 1992. Ero stato portato lì il 20 luglio. Figuratevi quello che avevo già passato.

Mi portarono in cella, massacrato. Passarono 3 giorni, arrivò Natale e mi diedero da mangiare patate bollite e pasta condita con margarina fredda, tutte cose appiccicate. Non mangiai niente, buttai tutto ed andai a letto, dopo i primi mesi avevo perso 16 chili. Il 27 vennero a prendermi in cella, io non volevo mai uscire per non prendere legnate. Sistematicamente tutte le volte che si usciva c’era la perquisizione corporale, dovevamo fare piegamenti perché dovevano vedere se eventualmente nascondessimo qualcosa nelle parti intime; dovevamo aprire la bocca, ci infilavano le dita nelle orecchie, facevano tutto quello che potevano…

Sicuramente ricevevano delle istruzioni, delle direttive di qualche psicologo o psichiatra, perché non erano persone intelligenti quelle che si adoperavano a fare queste cose, per cui le direttive dovevano arrivare dall’alto.

In 27 dicembre, come dicevo, mi portarono dal comandante e questo guardò i miei mandati di cattura, ne avevo già tre, e disse:

“Guardi che lei ha una brutta posizione.”

Io sempre con la testa bassa e con le guardie alle spalle, gli risposi:

“Guardi, se lei pensa che la cosa possa toccarmi, si sta sbagliando, perché lei su di me non può dare nessun giudizio, questo lasciamolo fare ad un tribunale e vedrà che la mia onorabilità verrà pulita nuovamente, non infangata come in questo momento.”

“Ma lei vuole andare a casa?” mi disse il direttore.

“No, no. Io a casa non ci voglio andare. Io le chiedo solamente di finirla con queste vessazioni, queste legnate, queste torture, queste cose. Guardi che io a casa ci andrò a tempo debito.”

Lui non fece nessun cenno e disse:

“Può andare.”

Quando mi girai e già stavo uscendo dalla porta, seguito dagli… diciamo aguzzini, non voglio neanche chiamarle guardie per non infangare chi veramente fa questo lavoro con rispetto verso l’umanità, il direttore mi disse:

“Sa, Indelicato, se ha ricevuto minacce a casa…?

Risposi:

“Sono 13 mesi che non faccio colloqui. Sa perché non faccio colloqui? Perché mia moglie, ogni volta che viene qua, viene vessata più di me. Deve subire le perquisizioni corporali, deve fare i piegamenti, deve fare tutto, mia moglie, che non c’entra niente, e anche miei figli, che non c’entrano niente con queste torture. E allora io, siccome sono stato scelto come agnello sacrificale, preferisco subirle solo io le torture, per cui qua colloqui non ne faccio. Dunque, lei sa meglio di me se, visto che c’è anche la censura, posso ricevere informazioni in merito a quello che mi sta dicendo.”

(…)

Me ne andai, ma l’idea che la mia famiglia avesse potuto subire delle intimidazioni mi rimase in testa. Anche quella era una mossa psicologica, loro cercavano di smontarti, di creare il pentito. Questa è la realtà ed in molti casi ci sono anche riusciti, molte persone si sono pentite e molte persone si sono anche suicidate… e persone che, forse la dico grossa, sono state costrette o sono state proprio uccise (…)

Andai in cella e cominciò tutta ‘sta trafila. Era il 27 dicembre e non ricevevo neanche la posta, mi avevano bloccato tutto. Feci un telegramma perché volevo venisse il mio avvocato, ma il telegramma non partì, quindi la risposta non arrivò. Comunque per due mesi stetti malissimo, non ci stavo più con la testa. Poi dissi ad un detenuto della mia sezione, che andava al colloquio, di chiedere al suo avvocato di mettersi in contatto con il mio, perché venisse a farmi visita per darmi delucidazioni in merito a quello che mi aveva detto il direttore.

Così venne e mi disse:

“No guardi, tutto a posto, tranquillo.”

A quel punto capii che si era trattato di un altro tipo di tortura.

Al pomeriggio mi portarono tutta la posta, c’erano un bel po’ di lettere, di telegrammi, di auguri di amici, fratelli e così via.

Tra le altre torture c’era il dover correre, quando si usciva dalla cella, per tutto il primo braccio; io mi trovavo alla nona cella, il primo braccio era 15 metri, c’erano altri 15 metri per arrivare al cancello dell’aria e lì, sistematicamente, si mettevano in 15, 20 o anche 30 guardie, il numero dipendeva da quante di loro volevano partecipare al gioco. Ci facevano togliere le scarpe, ci perquisivano, poi, mentre recuperavamo le scarpe buttate a terra, c’era chi ci dava una pedata, chi una manganellata, chi una spinta, chi sputava, chi ci buttava acqua; capitava si scivolasse nella curva ed erano nuove botte. Durante una di queste giornate, una guardia mi disse:

“Lei quando esce all’aria, quando esce dalla cella non deve correre.”

“Guardi, io non lo capisco se corro o se ho corso, perché non ho più cognizione di causa per capire quello che faccio.”

“No, lei non deve correre. Prego si accomodi” e aprì il cancello, mentre uno di dietro mi diede una pedata alla schiena, caddi all’interno dell’aria e lui mi chiuse il cancello, incastrandomici dentro il ginocchio destro… Uscito di lì, cioè una volta che la mia situazione venne chiarita, dovetti sottopormi anche ad un’operazione a quel ginocchio.

Comunque, questa fu una delle tante cose subite. Un’altra la subii durante una perquisizione, quando uno di loro mise in scena un atto eroico per il quale ancora oggi non saprei come ringraziarlo! Mi afferrò lo scroto e lo tirò talmente forte che si staccò una vena all’interno.

Caddi a terra e lì subii un altro pestaggio, mi alzai ma non potevo fare più niente: ero come una noce dentro un sacco, non potevo parlare perché il fatto che avessi il processo a Marsala, comportava il mio trasferimento e dalla relazione volevano che ne emergesse un quadro chiaro, che non parlassi con nessuno, che non facessi nessuna denuncia, altrimenti sarebbero stati problemi seri.

Ritornato lì ritrovai il persistere di quello stato di cose: vetro, detersivo, preservativi nella pasta, sputi in faccia durante la notte, quando venivano a svegliarmi; mi chiamavano, andavano allo spioncino a chiedere cosa volessero e, nel momento in cui mi affacciavo, mi dicevano:

“Come si saluta?”

Dicevo:

“Buonanotte…”

“Come si saluta?”

Insistevo:

“Buonanotte…” e seguiva lo sputo.

Urlavano:

“Buonanotte signore.”

Allora dicevo:

“Buonanotte signore.”

Andavo a letto e non spegnevano più la luce, per cui le zanzare facevano festa.

Un giorno ebbi delle coliche renali, mi presero e mi portarono dal medico, che mi prescrisse da bere tre litri d’acqua al giorno. In risposta mi portarono alle celle d’isolamento e continuarono a darmi un litro d’acqua al giorno. Mi piegavo per il dolore, non riuscivo a stare in piedi e quando mi abbassavo arrivava qualcuno di loro a dirmi:

“Alzati, devi stare in piedi. Non c’è gioia nel vedere che abbassato trovi sollievo al dolore.”

(…)

Queste sono state alcune delle migliaia e migliaia di situazioni che mi sono capitate durante la mia detenzione a Pianosa.

Una volta dovevo andare al colloquio, loro vennero a prendermi all’aria e mi dissero:

“Lei deve andare al colloquio.”

“Io qua sono, pronto.”

Non avevo niente con me, da Palermo non ci avevano fatto portare niente.

“Vada in cella, che poi la veniamo a prendere.”

Così andai in cella e quando arrivò il momento di uscire misi le mani al muro perché dovevano perquisirmi, all’inizio la perquisizione era fatta manualmente, poi si attrezzarono con i metal detector. Dopo questa perquisizione, uno mi fece:

“Ma lei, quando esce dalla cella” ci eravamo visti un minuto prima “non saluta?”

“Ho detto buongiorno poco fa quando sono uscito, poi siete venuti a prendermi e vi ho salutato, sono entrato in cella e vi ho risalutato, sono qua e vi ho detto buongiorno.”

“No, no, no. Come si dice?”

Il buongiorno signore non mi usciva, non ce la facevo, non mi usciva e, sistematicamente, prendevo le legnate.

“Vi ho detto buongiorno” ripetei, sempre con le mani al muro, e mi arrivò da sotto le braccia, che tenevo alzate, un pugno qui, nell’occhio. Io ho fatto il pugile professionista e so cosa significa prendere le botte, ma neanche in vent’anni di pugilato ho preso tutti i pugni che ho preso lì dentro. Mi si gonfiò l’occhio. (…)

Mi presero uno da un braccio e uno dall’altro, stringendo così forte da conficcarmi le unghie nella carne, tanto da farmi sanguinare il braccio, e mi portarono nella saletta, mi fecero ancora una volta spogliare e rivestire e poi mi presentai al grande pubblico, cioè mio fratello e mia moglie. La situazione era disastrosa, non riuscivo a contenere la rabbia, avevo paura di qualche reazione scomposta di mio fratello, allora dissi:

“State calmi, non è successo niente, state tranquilli che piano piano ci rimettiamo.”

In questo modo loro facevano pressione sui miei familiari. C’era qualche familiare che diceva:

“Se tu hai qualcosa da raccontare, raccontala e te ne esci” cioè cercavano di fare pressione sui familiari affinché loro, a loro volta, la facessero su di noi. Ho fatto anche colloqui di due minuti. Ti portavano là e poi:

“Signora, si deve preparare perché il mare si sta mettendo brutto, deve partire.”

“Ma guardi che sono arrivata ora…”

“Signora non insista, prego si accomodi.”

Questa cosa l’ho subita due volte. Un minuto di colloquio, un colloquio al mese, mi costava tre milioni. Un’altra cosa che mi ricordo e ricordo bene – credetemi che ne sono passati di anni, però sono cose che non riesco a cancellare – è che lavavo la cella ogni giorno e la mattina la lasciavo tutta bella e sistemata, per un detenuto occupare il tempo, lavare qualcosa, lavare qualche indumento, lavare la cella, fare le pulizie significa non oziare, occupare il tempo e non pensare a come andrà a finire, a quanti anni hai da scontare. Un giorno lavai la cella la mattina, rientrai dall’ora d’aria alle 11.00 e loro presero un prodotto, non so cosa, e lo buttarono dentro la cella, gli occhi cominciarono a bruciarmi e mi fecero:

“Era sporca, comincia a pulire la cella.”

Dentro le docce si entrava come mandrie, come tori (anche perché ci chiamavano così) quando passano attraverso il valico. Dopo che c’eravamo bagnati ed insaponati, loro chiudevano l’acqua e urlavano:

“Fuori. Avanti un altro… avanti un altro.”

Le persone anziane soffrivano molto per queste cose, a volte scivolavano. Insomma, sono tante le cose che potrei dire, c’è da dire molto anche dell’enorme cattiveria che c’era all’interno. Si sono fatti dei crimini che non hanno una giustificazione. Credetemi, io da incensurato non dovevo essere portato lì a Pianosa. Che c’entravo io a Pianosa e che c’entravo con quello che aveva la pena definitiva? Se il carcere deve essere rieducativo non c’entra nulla la repressione. Su chi la esercitano la repressione? Su quelli che sono dentro e che non si possono nemmeno difendere?

Io ho avuto come avvocato, in Cassazione, l’onorevole Alfredo Biondi, che venne a Piombino per presentare l’appello in Cassazione e disse a mia moglie:

“Signora, guardi che suo marito lì non ci può stare, suo marito è un semplice indagato e lì non ci può stare, vedrà che le cose cambieranno.”

Mi hanno rinnovato il 41 bis per 11 volte; (…) non ero mai stato in carcere, non avevo mai avuto sequestri di beni, non ero stato nemmeno sottoposto a vigilanza. Ho subito tutte queste cose da semplice incensurato (…)

Rosario Indelicato, ex detenuto

 

Comments ( 2 )

  • PIERO OCELLO

    ho vissuto appieno,l esperienza di pianosa dal 22-07-1992 al 19-07-1993 confermo le nefandezze perpetrate hai danni di chi come me si è trovato ad essere deportato e recluso in quel lagher ,ero uno dei 54 detenuti in attesa di giudizio,(salvo poi essere prosciolto e risarcito per ingiusta detenzione) quando uno “stato democratico”mira a vendicarsi invece di applicare la” giustizia” ,non può più essere definito tale.grazie a chi ha avuto il coraggio di denunciare tutto ciò.

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