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Report sull’incontro della rete europea per il diritto al dissenso – Bruxelles 29 – 29 Giugno 2017

Il 28 e il 29 giugno a Bruxelles, su iniziativa dell’Osservatorio Repressione, si è svolta una due giorni per la nascita di un Rete Europea per il diritto al dissenso in difesa delle lotte sociali, alla quale hanno partecipato attivisti, giuristi ed esperti da tutta Europa.Il nostro obiettivo è quello di creare una rete capace di investigare le forme repressive a partire dai singoli Stati europei, verificando le similitudini legislative e i punti in comune tra i vari Paesi.

Il 28 giugno presso la sala “L’horologe du Sud”, in Rue di Trone 141, si è tenuto un primo momento di confronto tra le varie realtà sociali e di movimento europee impegnate sul tema del contrasto alla repressione e allo stato di eccezione.

È emersa chiaramente la necessità di indagare sulla repressione a livello europeo, al fine di elaborare una strategia comune nell’ambito dello scontro nella Fortezza Europa. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un attacco sempre più feroce nei confronti della legittimità del dissenso, e dunque alla costruzione di uno stato di eccezione permanente: la legge Minniti non è che la punta dell’iceberg, non ha fatto altro che rafforzare misure già esistenti come daspo e fogli di via.

La sicurezza e il decoro sono diventate le due parole che dettano la linea nella politica dei sindaci-sceriffi, in nome delle quali si pratica un utilizzo militare della polizia per il controllo sociale e per l’occupazione dei territori.

Italo Di Sabato, dell’Osservatorio Repressione, ha sottolineato come sia necessario e doveroso andare oltre il prendere semplicemente atto di queste vicende. Al passivo senso di accettazione e alla criminalizzazione mediatica dobbiamo contrapporre un ragionamento comune su come rompere questi dispositivi securitari. Le misure preventive sono diventate il dispositivo “normalizzato” di gestione dell’ordine pubblico e dei conflitti.

Nel contesto dell’era del diritto penale del nemico si è andata rafforzando una politica sempre più discriminatoria nei confronti delle attiviste e degli attivisti sociali, puniti non direttamente per quello che fanno ma per quello che rappresentano.

Sentiamo dunque la necessità di rompere con il dominio della cultura della legalità che ha portato a una guerra spietata contro i migranti, i movimenti sociali; dobbiamo lavorare per porre fine all’emergenzialismo che produce leggi speciali e che ci ha portati da uno stato sociale minimo a uno stato penale massimo. Per fare ciò è necessario innanzitutto rivendicare il diritto alla resistenza, uscire dal vittimismo e soprattutto superare la divisione buoni-cattivi all’interno dei movimenti, perché soltanto la solidarietà e l’unione ci permetteranno di rompere i dispositivi securitari.

Eleonora Forenza, parlamentare europea Gue/Ngl ed attivista, ha evidenziato come attualmente la Repubblica coincida a tutti gli effetti con uno Stato di polizia, e come dunque vi sia la necessità di decostruire l’Europa come spazio dello stato di diritto. In Europa assistiamo al dominio della logica securitaria, la quale fa sì che ad esempio il “profilo ideologico” del militante basti come giustificazione al foglio di via. Eleonora ha inoltre ricordato il ruolo del movimento femminista nella lotta al securitarismo.

È emersa la necessità di sviluppare su tre livelli l’Osservatorio Europeo sulla repressione: un primo livello che riguardi l’informazione, e dunque il costruire una mappatura della repressione a livello europeo, un secondo che riguardi la comunicazione e la condivisione di pratiche di sovversione e di sottrazione, e un terzo che si concentri sul rapporto con le istituzioni e come potersi avvalere di queste (avvocati, parlamentari) per dare supporto al nostro progetto.

A proposito della comunicazione, è condivisa l’esigenza di trovare nuovi strumenti comunicativi, al fine di abbattere il consenso di cui gode il potere per la costruzione dell’immagine del nemico pubblico e al fine di demistificare i concetti di sicurezza e legalità.

Checchino Antonini, giornalista de Il Salto e attivista di Acad, ha sottolineato come le misure repressive facciano leva sulla passività della società. “Abbiamo bisogno di raccontarci altrimenti veniamo raccontati”: anche dall’intervento di Davide Falcioni, giornalista processato per un articolo sul movimento No Tav, si è andata delineando la necessità di costruire un sistema mediatico, una narrazione forte che contrasti le “narrazioni tossiche” sui movimenti. Bisogna correggere l’errore molto spesso tipico dei movimenti, quello di parlare a noi stessi, e parlare invece all’opinione pubblica.

Tra le altre proposte, quella di redigere un “libro bianco” sui vari provvedimenti, denunce e misure cautelari al fine di avere un quadro complessivo della repressione.

Siamo consapevoli del fatto che pur essendoci in Italia un alto livello di conflittualità sociale, la repressione ha isolato. A tal proposito, Nicoletta Dosio storica attivista No Tav ha rivendicato la necessità di coordinare, organizzare, solidarizzare le lotte, per rompere l’isolamento a cui troppo spesso vengono relegate le lotte popolari, anche a causa del “mantra della legalità” che ci impedisce di esercitare i nostri strumenti. Nicoletta ha evidenziato come il suo rifiuto delle misure cautelari imposte sia stato possibile grazie alla solidarietà e comunanza del popolo valsusino e non solo: per spezzare i dispositivi securitari è dunque essenziale una rete di autodifesa.

È stato inoltre affrontato il tema della centralità dei territori e della loro smilitarizzazione, a partire dalla Val Susa (che è stata luogo di sperimentazione di misure repressive), dichiarata area di interesse strategico nazionale, fino a Niscemi, dove sorge il MUOS, mortale sistema di comunicazione satellitare della marina militare statunitense.

Altri interventi hanno invece sottolineato il profondo nesso tra repressione e mondo del lavoro. Federico di USB ha parlato dell’atomizzazione del lavoro che si riflette sulla società e della conseguente necessità di “federare” le lotte per combattere l’individualismo, perché repressione significa anche distruggere la solidarietà.

Dafne di USB ha ricordato i provvedimenti disciplinari nei confronti delle donne che hanno partecipato allo sciopero globale femminista dell’otto marzo e come sia doveroso rifiutare il concetto stesso di sicurezza al fine di rompere le misure repressive.

Angelo di Off Topic e Deliverance Milano ha messo in luce come la repressione attiva si esplichi nelle nuove forme di ricatto e di organizzazione del lavoro: le piattaforme digitali, che alimentano l’automazione del lavoro, sono diventati i veicoli di nuova schiavitù diffusa soprattutto tra i giovani che si rivolgono alla “gig economy”, ossia l’economia dei lavoretti, divenendo vittime di una precarizzazione sempre più aggressiva.

A ciò si collega anche la repressione “amministrativa”, ossia pecuniaria, dei movimenti, in particolare quella che ha colpito il movimento No Tav come ha ricordato un compagno di Askatasuna di Torino.

Roma ha rappresentato un laboratorio rispetto alla legge Minniti sulla sicurezza urbana, con un protagonismo sfrenato da parte della questura e della magistratura sulla prevenzione dei conflitti, con oltre 50 avvisi orali disseminati nell’ultimo anno fra diverse realtà di movimento, l’adozione di misure di sorveglianza nei confronti di attivisti del movimento per il diritto all’abitare e un controllo del territorio che vede militarizzata in forma mirata la città per colpire la libertà di movimento. Il diritto differenziale inaugurato con l’articolo 5 della cosiddetta legge Lupi del 2014, che nega la residenza a chi occupa, ha trovato continuità con le identificazioni di massa nelle occupazioni abitative soprattutto a danno dei migranti, utilizzando strumentalmente la minaccia del terrorismo. La legalità e la riqualificazione delle periferie si scagliano con forza contro i cosiddetti nemici della città, coloro cioè che vengono espulsi dal processo produttivo e si organizzano in forme diverse contro la rendita e il profitto, che rimangono il punto di riferimento dei provvedimenti securitari appena approvati.

Gianluca di Rifondazione Comunista ha sottolineato la crescente  sull’americanizzazione della società con armi per tutti e privatizzazione della repressione

È emersa l’esigenza di riprendere la questione dell’amnistia sociale, anche sulla base del manifesto per l’amnistia sociale promosso da Osservatorio Repressione, al fine di depenalizzare le lotte sociali. Su questo punto, i compagni di InfoAut, hanno fatto una significativa precisazione: ben venga la costruzione di una campagna ampia e plurale contro la proliferazione del penalismo e il clima forcaiolo che avvelena il nostro paese e l’Europa tutta, battaglia che necessariamente deve giocarsi su più piani, anche, dove possibile, su quello istituzionale. Solo, per renderla efficace e non chiusa agli addetti ai lavori, questa dovrebbe esplicitare un chiaro discorso di amnistia non solo per le avanguardie di lotta e la militanza più esposta, ma pronunciarsi in termini espliciti per una più vasta depenalizzazione dei reati connessi alle necessità della sopravvivenza di strati sempre più ampi di popolazione: reati contro la proprietà, economia informale, insolvenza. Questo perché i processi di proletarizzazione in corso stanno sempre più erodendo la “società civile” spesso fantasmata come referente ideale dei discorsi dell’attivismo, mentre aumenta a dismisura la quota degli uomini e delle donne esposte ad una precarietà non solo economica ma esistenziale, con il rischio sempre maggiore di trovarsi risucchiati nel gorgo penale. Sulla situazione penitenziaria, inoltre, come sottolineato da Sandra di prendocasa, crentro sociale rialto di Cosenza e associazione Yairai. è necessario porre la dovuta attenzione sui regime carcerario del 41 bis ed evidenziare come questo trattamento sia una forma di tortura

Abbiamo avuto modo di confrontarci con gli altri compagni europei che hanno delineato un quadro complessivo della repressione negli altri Paesi.

In Spagna, Paese con la popolazione penitenziaria più alta d’Europa, significativa è la repressione amministrativa: la Ley Mordaza prevede infatti pesanti sanzioni economiche per chi protesta. A questo “diritto amministrativo del nemico” si accompagna il “diritto penale del nemico” e l’associazione di qualsiasi forma di movimento sociale al terrorismo. Forte la presenza del Sindacato Andaluso dei Lavoratori, il quale ha messo in atto iniziative come quella di non presentarsi ai processi in quanto questi ultimi sono dei veri e propri “processi per opinione”, con una sentenza già scritta di condanna agli attivisti. In Andalusia, dove il movimento utilizza espropriazioni e occupazioni di terre come principale modus operandi, ci sono 600 compagni a processo e sanzioni erogate per un totale di 1 milione di euro.

Serge, militante belga del coordinamento collettivi Sans Papiers, ha evidenziato come i migranti siano il principale soggetto colpito dalle misure repressive delle politiche liberali che li stigmatizzano e colpevolizzano.

Nicola di Berlin Migrants Strikers ha parlato di ordoliberismo, connubio micidiale di legalità e liberismo, che porta a giustificare tutto in nome del profitto e del produttivismo economico. In Germania, Paese con il più alto numero di detenuti politici, agli attivisti viene spesso contestato un “comportamento antisociale”: se offendi la società, divieni debitore, e ti verrà sottratto dallo stipendio quanto viene ritenuto necessario per riparare l’offesa. In particolare in Germania si evidenziano tre dispositivi repressivi: quello del decoro, per cui il ruolo della polizia è cacciare i marginali, i soggetti subalterni dalla società; un dispositivo “coloniale”, ossia l’armamento della polizia in vista di una guerra contro chi minaccia l’ordine pubblico, e un dispositivo amministrativo (si pensi che la multa per occupazione di case può arrivare fino a 50.000 euro): chi lede la società si porterà dietro lo stigma di debitore. Per questo è fortemente necessario un meccanismo mutuale tra soggetti subalterni.

Una compagna di Parigi ha posto una questione fondamentale: se è pur vero che le manifestazioni contro la Loi Travail, fortemente colpite dalla repressione, hanno risvegliato quei segmenti della società che si sono resi conto cosa la polizia è capace di fare, è anche vero che la repressione ha colpito maggiormente la popolazione delle banlieue. Si registrano ogni anno almeno 15 morti per violenze poliziesche, non per la partecipazione a lotte sociali ma solo per irregolarità o assenza di documenti.

Gli scontri di febbraio 2017 dopo lo stupro di Theo da parte di due poliziotti hanno visto i giovani delle banlieue scendere in piazza, senza però l’appoggio dei movimenti sociali e senza la stessa solidarietà sociale che si era registrata per le manifestazioni contro la Loi Travail. È emerso dunque che in Francia i soggetti che subiscono maggiormente la repressione sono gli abitanti dei quartieri popolari, da sempre in lotta contro le violenze della polizia, e bisogna dunque cambiare il modo in cui ci si rapporta a tale soggettività. Non è affatto vero che i quartieri popolari sono un deserto politico, anzi vi è una forte composizione migrante che si è costituita soggetto politico in lotta contro la repressione.

Il 29 giugno presso la sede del Parlamento Europeo si è svolto il convegno organizzato da Gue/Ngcl “EUROPE, FROM THE RULE OF LAW TO A STATE OF EXCEPTION: Social struggles and freedom of expression under attacks”. A seguire la proiezione del docufilm “Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Val Susa”, con l’ intervento dell’ Avv. Claudio Novaro, legale attivisti No Tav.

Nella prima parte del convegno si è parlato di uso e abuso di misure di prevenzione: Cesare Antetomaso dei Giuristi Democratici ha segnalato come la pericolosità sociale rappresenti uno stigma che colpisce le lotte sociali; la semplice segnalazione orale del questore (senza condanna alcuna) può limitare la libertà della persona giustificando le misure preventive.

Appare dunque chiaro che si è passati da uno stato di diritto a uno stato di eccezione permanente: le leggi speciali contro le organizzazioni armate degli anni ’70 e che adesso costituiscono il fondamento delle leggi di emergenza hanno portato a una ridefinizione del nemico pubblico di volta in volta, in particolare anche il fenomeno migratorio viene visto come un fenomeno da reprimere e criminalizzare. Occorre quindi opporre allo stato di eccezione un ragionamento europeo, andare oltre la semplice testimonianza di ciò che succede nei territori, creare una campagna europea, decostruire il nesso tra neoliberismo ed ideologia securitaria.

Nei Paesi Baschi vige una normativa di eccezione antiterrorista ai sensi della quale i diritti dei detenuti sono fortemente limitati e le pene detentive fortemente sproporzionate (possono essere superiori a dieci anni). Le modifiche al codice penale spagnolo hanno portato all’interpretazione estensiva di “terrorismo”, che ha incluso nella definizione di esso le normali attività politiche, e alla creazione di un’unica sezione per i reati di terrorismo: pur non appartenendo direttamente ad alcun gruppo terrorista, se un soggetto si rende colpevole di “minaccia” alla pace sociale viene comunque etichettato come terrorista. Il sistema di persecuzioni e pene nei Paesi Baschi si basa dunque su una nuova fattispecie penale per “terrorismo individuale”, che concerne atti non legati a banda armata ma connessi alla volontà di sovvertire l’ sociale.

La seconda parte del convengo verteva sul tema “repressione e comunicazione” e ha visto gli interventi di giornalisti e media attivisti italiani, spagnoli e ungheresi colpiti dalla repressione. Casandra, attivista twitter spagnola, era stata condannata a tre anni di prigione per un tweet; mentre Davide, giornalista italiano di FanPage che nel 2012 aveva partecipato a delle azioni No Tav raccontando un’occupazione avvenuta a Torino, nel 2014 era stato chiamato a testimoniare e il PM aveva chiesto che fosse sottoposto a processo per gli stessi reati: il processo dunque diviene misura repressiva in sé.

A fine convegno si è svolta la proiezione del docufilm “Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Val Susa”

“Archiviate” sono state tutte le denunce ed esposti presentate dai No Tav contro le violenze delle forze dell’ordine, al contrario i processi a carico dei militanti (che si svolgevano nell’aula bunker, stesso luogo dei processi a carico di mafiosi!) procedevano a velocità eccezionale (si è arrivati addirittura a un processo per terrorismo nei confronti di quattro No Tav!). La vera e propria persecuzione messa in atto dai PM nei confronti dei No Tav ha portato al passaggio dal diritto penale del fatto al diritto penale del soggetto: le misure cautelari vengono erogate non per le azioni commesse ma per il solo fatto di essere attivista e militante.

La Val Susa negli ultimi anni è diventato un luogo di sperimentazione: sia delle misure repressive da parte dello Stato e delle Forze dell’ordine, sia delle pratiche eversive e sovversive da parte del movimento No Tav. Nicoletta Dosio ha ancora una volta evidenziato come ormai nei territori militarmente occupati viga uno stato di arbitrio e di guerra permanente.

D’altro canto la stessa Unione Europea ha omesso risposte concrete, violando la legittimità delle proteste dei popoli: non dobbiamo e non possiamo riporre le nostre speranze in una qualche entità superiore perché soltanto puntando sull’unione delle lotte popolari, sulla solidarietà, sulla condivisione sarà possibile cambiare lo stato di cose vigente.

La nostra è stata un’ “incursione nel cuore della Fortezza Europa”: i movimenti sociali esistono e hanno invaso Bruxelles.

report a cura di Bianca

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