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Quel suicidio in cella non convince neanche il gip

Rigettata la richiesta di archiviazione sul suicidio di Claudio Tomaino, ritrovato senza vita nel 2008 al carcere di Viterbo.

Per la terza volta consecutiva il gip del tribunale viterbese ha rigettato la richiesta di archiviazione presentata dal sostituto procuratore, Renzo Petroselli (pm titolare delle indagini, su un altro suicidio poco convincente: quello dell’urologo siciliano Attilio Manca), imponendogli altri mesi di indagini per dissolvere alcuni dubbi ritenuti importanti.

Troppe cose non tornano. Claudio Tomaino, rinchiuso nel carcere di Viterbo in attesa di giudizio, viene trovato morto la mattina del 18 gennaio 2008. Le autorità carcerarie parlano subito di suicidio per soffocamento.

L’uomo si sarebbe tolto la vita infilando la testa in una busta di plastica dentro la quale aveva immesso il gas di un fornello scaldavivande. Ma su quel presunto suicidio, la madre dell’uomo, ha sempre mostrato dubbi.

Alcuni punti oscuri sono ancora da chiarire. Innanzitutto le tracce di sangue rinvenute sul volto del presunto suicida, sul lenzuolo e sulla federa del cuscino. Un suicidio per soffocamento non provoca fuoriuscita di sangue. Non torna nemmeno il ruolo dell’altro detenuto che era con lui e al quale era stato assegnato il compito di controllarlo: non si sarebbe accorto di nulla. E lo stesso detenuto aveva affermato che il giorno prima, il presunto suicida sarebbe stato aggredito e pestato a sangue da altre persone.

L’avvocato dei familiari aveva denunciato un’autopsia, a due giorni dalla morte, “assai sommaria”. C’è anche una curiosa coincidenza: si sarebbe ucciso pochi giorni prima dell’udienza davanti alla Corte d’assise di Catanzaro in cui avrebbe dovuto essere depositata la perizia psichiatrica che avrebbe determinato l’esito del processo. Tutte perplessità che a quanto pare non sono state chiarite dalle richieste di archiviazione.

Ma ci sono tanti dubbi anche per il reato per il quale è stato tratto in arresto. Un reato indicibile: parliamo della strage di Caraffa avvenuta il 27 marzo del 2006 nel catanzarese nella quale venne sterminata a colpi d’arma da fuoco un’intera famiglia. Parliamo di Camillo Pane e la moglie Annamaria, i figli Eugenio e Maria, di 20 e 18 anni, zii e cugini di Tomaino. In un primo momento si parla di più autori dell’omicidio poi, invece, è lo stesso Claudio Tomaino ad autoaccusarsi; raccontando che era stato spinto da motivi economici e non solo.

Una storia che forse è tutta da riscrivere. Ne è convinta Maria Pane, la madre di Claudio Tomaino, la quale aveva chiesto alla stessa Procura catanzarese di riaprire le indagini su quel caso, tramite un esposto presentato dall’avvocato Noemi Balsamo. Sicuramente, se era colpevole, non poteva essere l’unica persona a compiere quella strage.

Tomaino venne arrestato con l’accusa di omicidio volontario plurimo aggravato in concorso con ignoti: gli inquirenti sono convinti che quella strage sia stata compiuta da Tomaino, ma in complicità con altre persone che non verranno mai rintracciate.

Una strage che ha portato anche alla pista esoterica, oltre che economica. Nel suo appartamento, sulla scrivania, venne rinvenuto un contratto con Satana, firmato col sangue. A quel punto, durante il suo primo interrogatorio, disse di far parte di una setta satanica, alla quale apparteneva anche Camillo Pane, una delle vittime, e parlò degli incontri segreti avvenuti sia in Calabria che fuori, dei riti che dovevano essere eseguiti alla perfezione (egli stesso ammette: “Ho studiato e ho fatto pratica”), di come cancellare i segni dei sacrifici e dell’importanza del sacerdote rispetto agli adepti. Ed è proprio durante l’interrogatorio che si sarebbe accusato, dicendo che l’uccisione dei suoi quattro parenti sarebbe stato un sacrificio richiesto da Satana, in cambio dell’accrescimento del suo potere. Con la sua morte il processo per stabilire la verità è stato ovviamente chiuso. Ma rimane aperta ancora la verità su come sia effettivamente morto in carcere: suicidio?

Damiano Aliprandi da il dubbio

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