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Quel patto di amore e di fiducia per aiutare il recupero dei detenuti

La testimonianza dell’ergastolano Carmelo Musumeci sull’importanza delle relazioni sociali. La forza dei sentimenti è la chiave di lettura che dovrebbe guidare l’operatore penitenziario nell’assistenza della persona reclusa e dei suoi familiari

Il carcere va vissuto. Per poter scrivere e parlare di carcere, è indispensabile smuoversi dalle scrivanie ed entrarci: solo così si può avere una visione reale e consapevole di un mondo a se stante, una vera e propria comunità, scandita da regole, tempi e dinamiche, spesso impenetrabili e incomprensibili per i liberi; solo così si ha davvero l’occasione per vedere – con i propri occhi – la parte più oscura della società, quella che non vorresti mai conoscere, con cui non vorresti mai averci a che fare, se non nei film e in televisione.

Questo comune sentire di avversione e rifiuto verso il carcere ha toccato anche me, la prima volta che ho varcato la soglia del carcere: e allora mi sono chiesta, cosa, invece, mi ha fatto tornare e mi fa tornare sempre con maggiore convinzione e determinatezza?

La risposta è immediata e ruota attorno ad un unico e fondamentale concetto: la promessa d’amore verso i familiari delle persone detenute, patto che si rinnova, puntualmente ogni volta che tratto con il carcere e con le persone detenute. Dalla disperazione mista a confusione, sentimenti tipici di un bambino di appena due anni che si trovava in cella con la madre, inconsolabile, con un pianto pressoché ininterrotto, alla sofferenza di un padre di un figlio in carcere, orfano di madre, morta per una grave malattia degenerativa, con gli stessi sintomi iniziali, alla preoccupazione di una compagna per la situazione del proprio compagno in carcere, ridotto su una sedia a rotelle per la paralisi degli arti inferiori, allo strazio di un giovane ragazzo, fermamente convinto della propria innocenza al punto da tentare ( per fortuna, con insuccesso) il suicidio in cella.

A Carmelo Musemuci, noto ergastolano ora in semilibertà, autore di numerosi libri, con all’attivo molteplici collaborazioni: “Credo che la cosa che conta di più di tutto nella vita sia l’amore e che l’amore sia il metro per misurare tutte le cose. Penso che il desiderio d’amore è naturale e istintivo. E che l’affettività è da sempre considerata un diritto fondamentale. Per questo la pena dovrebbe privare le persone soltanto della loro libertà. Ormai sono tantissimi i Paesi nei quali sono permessi i colloqui intimi, persino paesi come l’Albania, considerato fanalino di coda dell’Europa. Credo che sia disumano il divieto di dare e ricevere una carezza o un bacio dalla persona che ami perché la mancanza di contatti intimi reca danni alla psiche e alla sfera emozionale”. Secondo Musemuci, il fulcro del suo cambiamento è da attribuirsi ( oltre che alla sua grande forza di volontà) al contatto che è riuscito a mantenere nel corso della sua lunga pena con l’esterno e, in particolar modo, con la sua fedele compagna: “Ciò che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere, ma l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato, insieme alla lettura di migliaia di libri di cui mi sono sempre circondato, anche nei momenti di privazione assoluta. Ed è proprio questo programma di autorieducazione che mi ha aperto una finestra per comprendere il male che avevo fatto e avere così una possibilità di riscatto. Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è accorgersi che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Spesso ho persino pensato che il carcere faccia più male alla società che agli stessi prigionieri perché, nella maggioranza dei casi, la prigione produce e modella nuovi criminali. Se a me questo non è accaduto è solo grazie all’amore della mia famiglia e di una parte della società”.

La forza di tali sentimenti, così come la passione di tali persone sono la chiave di lettura che dovrebbe guidare l’operatore penitenziario, in senso lato inteso, nell’assistenza della persona detenuta ( e dei suoi familiari): un patto di amore e di fiducia che involge, il detenuto con la famiglia, da un lato, e l’operatore sia con il detenuto sia con gli stessi familiari, per accompagnarli insieme dal punto di frattura ( spesso insanabile, tra la perso- na detenuta e la famiglia oppure tra i familiari con la società esterna) al recupero di un equilibrio, improntato sulla correttezza, reciproca collaborazione, estrema pazienza e cautela, assenza di pregiudizi, nel rispetto delle regole della società ( umana) civile, lungo un percorso di presa di coscienza delle proprie azioni, del passato, della situazione presente e delle prospettive reali future.

La vicinanza ( non solo territoriale) della famiglia – laddove c’è – è un punto centrale del percorso di reinserimento del detenuto nella società ( in primis, nella sua piccola comunità familiare) e, per questo, i familiari spesso vanno seguiti più di quanto si possa fare giuridicamente con la persona detenuta: fondamentali, su questo fronte, sono le numerosissime ( eppure, non ancora abbastanza note) iniziative delle associazioni di volontariato che aiutano le famiglie ( soprattutto, se con minori) alla preparazione emotiva per il momento del colloquio con il membro della famiglia ristretto ( http: // www. volontariatogiustizia. it/). Di fondale importanza risultava, quindi, l’approvazione definitiva della riforma penitenziaria, come prosecuzione di un percorso di cambiamento, suggerito anche dal Tavolo 6- Mondo degli affetti e territorializzazione della pena degli Stati generali dell’esecuzione penale, che puntava all’introduzione di una nuova ipotesi di permesso, denominato “Permesso di affettività”. Con tale proposta, si intendeva introdurre gradualmente la possibilità che i detenuti potessero usufruire di permessi “speciali”, finalizzati al godimento della propria sfera affettiva, anche sessuale, con ciò dando un espresso riconoscimento al c. d. diritto sommerso della sessualità: per non ridurre, in ogni caso, l’importanza della riforma alla sola sfera sessuale, i lavori del gruppo di esperti miravano a potenziare la più ampia dimensione affettiva, la cui valutazione deve necessariamente contraddistinguere ogni singolo percorso trattamentale, variando, a seconda del caso, dalla situazione e dalla storia personale del detenuto.

Di rilievo, perché in linea con le soluzioni già adottate in Europa, da Germania, Norvegia e Olanda.

Di pregio, risultava, inoltre, la proposta di prevedere la possibilità che i colloqui – innanzitutto venissero effettuati sotto la mera “sorveglianza” e non a vista come oggi si prescrive – potessero essere svolti anche presso locali appositamente adibiti all’interno della struttura penitenziaria, senza il diretto controllo degli agenti della polizia penitenziaria. Sulla base, quindi, di tali modifiche si sarebbe potuto riscrivere una parte importante dell’ordinamento penitenziario direttamente funzionale a valorizzare la sfera affettiva nel processo di individualizzazione del trattamento penitenziario.

La mancata attuazione della riforma rappresenta, dunque, un passo indietro rispetto a forme di garanzia che non avrebbero tutelato solo ( e tanto) il detenuto, quanto i familiari e gli affetti ( ovverosia la società dei liberi) a cui viene addebitata automaticamente ed irreversibilmente una colpa non propria.

Veronica MancaAvvocata del foro di Trento e responsabile della sezione diritto penitenziario per giurisprudenza penale

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