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Quando il “social” diventa reato

Negli ultimi mesi i giudici sono tornati ad occuparsi di Facebook e dei social network in generale, fornendo ad avvocati e utenti nuove regole di condotta.

Intanto, è bene sapere che le impostazioni di default dei principali social network sono parametrate sugli standard di tutela più bassi di quelli europei, fondandosi sul cosiddetto meccanismo di opt-out in vigore negli Stati Uniti. Sarà l’utente a dover limitare la visibilità dei propri contenuti a una cerchia ristretta di persone, se vorrà evitare che il proprio profilo sia pubblico.

Profili aperti e chiusi. Se il profilo, però, resta aperto a tutti, come accade nella maggior parte dei casi, ci sono importanti conseguenze dal punto di vista legale. Tutti i contenuti potranno, ad esempio, essere autenticati dal notaio in caso di contenzioso o salvati su supporto durevole, tramite appositi programmi, dal difensore munito di mandato per indagini difensive o dalla stessa parte che sta in giudizio.

Più difficile, ma non impossibile, l’acquisizione della prova quando la visibilità dei dati è stata ristretta dall’avente diritto. A rigor di logica, saranno producibili in giudizio soltanto quelle prove che ai sensi dell’articolo 13 comma 5 lettera b del Dlgs 196/2003 saranno strettamente necessarie per fa valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.

Tuttavia, “privatizzare” il profilo non serve a evitare una eventuale condanna per diffamazione aggravata. Lo ha precisato la Corte di cassazione, chiamata a dirimere un conflitto di competenza, con la sentenza n. 24431 depositata l’8 giugno scorso. Per i giudici anche un messaggio diffuso a una ristretta cerchia di “amici” ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, proprio perché il mezzo usato valorizza il rapporto interpersonale, senza il quale la bacheca Facebook non avrebbe senso.

Utilizzo di pagine internet. Attenzione alle prove carpite illegittimamente. Da Livorno i giudici mettono in guardia. Nei giudizi di separazioni non si possono produrre le pagine Facebook ottenute “violando” i profili social del coniuge, anche nel caso in cui se ne conosca la password o l’account venga lasciato incustodito. I reati configurabili vanno dalla violazione di corrispondenza fino all’accesso abusivo a un sistema informatico e alle interferenze illecite nella vita privata. Le prove saranno pertanto dichiarate inammissibili.

I giudici non nascondono le loro preoccupazioni anche in tema di garanzie per l’acquisizione di una pagina internet in giudizio. Non costituisce documento utile ai fini probatori una copia di “pagina web” su supporto cartaceo che non risulti essere stata raccolta con garanzia di rispondenza all’originale e di riferibilità a un ben individuato momento.

Tracciabilità. C’è poi la questione della tracciabilità della prova informatica: ai fini della corretta acquisizione della digital evidence è necessario poter tracciare lo stato di un reperto, ovvero la relativa metodologia di custodia e di trasporto, come ribadito in più occasioni dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità. Da rilevare che il difensore, se munito di mandato di indagini difensive, avrà un ruolo preminente nelle prime fasi di indagine, anche attraverso i propri consulenti tecnici, al fine ad esempio di scongiurare sequestri di reperti illegittimi.

Sequestro. Quest’anno le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno anche chiarito che è ammissibile il sequestro preventivo mediante oscuramento di una pagina web, a meno che non si tratti di una testata telematica registrata (Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza del 17 luglio 2015 n. 31022). Dal 2014 la Corte di cassazione ha però ribadito il principio di non eccedenza anche in ambito informatico. Si può sequestrare soltanto quanto strettamente pertinente al reato (articolo 275 del Codice di procedura penale). Sarà legittimo il sequestro preventivo di un intero dominio internet solo quando risulti impossibile, con adeguata motivazione in merito, l’oscuramento di un singolo file o frazione del dominio stesso (Corte di cassazione, sezione III, sentenza del 7 maggio 2014 n. 21271).

Marisa Marraffino da il Sole 24ore

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