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Quando il carcere non isola

Tre tifosi dell’Atalanta sono rinchiusi dal 16 gennaio nel carcere di Bergamo. Ieri sera per la seconda volta oltre un centinaio di ultras è andato a salutarli. Il gruppo si è avvicinato all’ala della prigione dove sono reclusi, ha scandito cori, sono stati accesi fumogeni e petardi in modo che i detenuti potessero rendersi conto di quanto stava succedendo. E’ bastato poco perché i tre facessero sentire le loro grida a chi stava fuori.

In molti nutrono dubbi sull’utilizzo del carcere come misura cautelare. Ci si chiede se davvero ci fosse bisogno della detenzione per questi ragazzi, in attesa di un processo che stabilisca le eventuali responsabilità. Ma questo discorso vale anche per tutte le persone detenute in attesa di giudizio. Sull’inefficacia dello strumento del carcere si sono scritti fiumi di parole.

Il carcere per le istituzioni dovrebbe servire a rieducare chi ha commesso un reato, nella realtà il suo effetto è quello di distruggere i legami col contesto sociale, di annullare le relazioni, di distruggere i legami sociali, riducendo ai minimi termini la comunicazione. Un’ora per le visite e  dieci minuti per un’unica telefonata alla settimana: gli unici contatti consentiti con l’esterno.

Ieri sera, nonostante le mura, le inferriate, i vetri e le porte, il carcere per un attimo ha perso tutta la sua potenza repressiva. Il dispositivo carcerario è stato minato dalla solidarietà di chi ha scelto di essere lì fuori. Se il carcere ha l’obiettivo di isolare i detenuti, l’arresto dei tre ragazzi non sta sortendo l’effetto sperato. Il saluto collettivo ha dimostrato come a volte nemmeno le mura della prigione sono impermeabili alla solidarietà.

da BGReport

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