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A proposito del “saccheggio” di Gucci a Torino

La terribile procura di Torino il 9 marzo, ha arrestato 40 persone, tutti giovanissimi, il più piccolo ha 15 anni, tutti figli di migranti e malgrado quello che la stampa scrive sono tutti cittadini italiani.

Come a Milano e Firenze, sono responsabili di aver protestato contro il coprifuoco che una classe politica incapace ha imposto alla loro generazione. E sono responsabili di  aver saccheggiato i negozi del lusso di Torino.

L’anno scorso uscì un libro in USA:. In Defense of Looting: a riotus history of incivil action di V.Osterweil. L’autrice, una militante di Portland, iniziò a scriverlo tra le fiamme di Ferguson e ha finito di scriverlo il giorno in cui la caserma del 3 distretto di Minneapolis è stata bruciata.

Vi proponiamo come atto di solidarietà agli arrestati di Torino, Firenze, Bologna, Milano e Napoli l’introduzione del testo, tradotto da Nicola Carella e  Serena Manno

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Introduzione

Tra le molte forme di azione politica nell’America del XXI secolo, è difficile pensare a qualcosa di meno popolare dei riots e dei saccheggi. Il voto e l’elezione sono diffusamente considerati come la base dell’azione politica; le petizioni o il lavoro di lobbying sui rappresentanti eletti non sono poi così diversi. L’azione sindacale, nonostante quattro decenni di propaganda e azione federale contro di essa, ha ancora un forte sostegno in molti ambienti. Il community organizing è, almeno teoricamente, il principio fondante di migliaia di organizzazioni non profit in tutto il paese. Sia i liberali sia i conservatori supportano a fatica le manifestazioni, perlomeno quando non sono violente ed è la loro gente a scendere in piazza.

Anche le azioni politiche più estreme hanno un largo sostegno. Sia i liberali sia i conservatori credono nella guerra, considerandolo talora un male necessario, altre volte un bene fondamentale. I liberali possono anche opporsi alla pena di morte, ma proprio come i conservatori, credono nell’efficacia dell’omicidio: poco, infatti, hanno avuto da dire sulle esecuzioni extragiudiziali dei droni di Obama, sulle sue liste di prescrizione e sui “martedì del terrore”; da parte loro, i democratici hanno criticato l’assassinio di Qasem Soleimani da parte di Trump nel 2020 per lo più  per motivi esclusivamente procedurali: “Non ha consultato il Congresso!”. La tortura viene celebrata mille volte al giorno in televisione nei Police Procedural  o nei film d’azione e la maggior parte delle persone accetta l’incarcerazione- anni di incessante tortura psichica- come un fatto imprescindibile dalla vita sociale. La coercizione economica sulla scena internazionale, attraverso le sanzioni, accordi commerciali e prestiti per lo sviluppo, è un fatto scontato. In patria, la minaccia della disoccupazione, degli sfratti, della fame e della miseria, insieme al debito, alle imposte, alle multe e alle tasse di ogni tipo, sono così naturali da essere raramente riconosciute come dispositivi di controllo politico.

Ma i riots e i saccheggi hanno pochi difensori.

I conservatori, ovviamente, vi si oppongono fermamente, facendo il tifo per la rappresaglia della polizia affinché sopprima i manifestanti, con l’estrema destra che sostiene che le rivolte sono solo incidenti creati da facinorosi di professione fomentati da George Soros, dagli ebrei e dall'”élite globalista”.

Anche i liberali rifiutano riots: poiché il loro amore per il concetto di law and order è molto più grande della loro fede nella libertà, sostengono che i rivoltosi “danneggiano la loro stessa causa” o siano guidati da agenti infiltrati della polizia, concordando con i fascisti sul fatto che i rivoltosi siano fondamentalmente dei provocatori prezzolati, discordando con quest’ultimi solo sul chi firmi loro gli assegni.

Di fronte a riots e ai saccheggi, anche i simpatizzanti sedicenti radicali, quelli che spesso si identificano con le ragioni dei rivoltosi, a volte vacillano. Sostengono che queste azioni più estreme siano principalmente opera di agitatori esterni, “opportunisti” o borghesi su di giri. Sostengono che i saccheggiatori “non fanno parte del movimento”, che siano “apolitici” e ignoranti, che le loro azioni tradiscano una puerile “falsa coscienza” o addirittura che agiscano come consumatori, favorendo, quindi, in qualche modo, il capitalismo.

Dall’interno del movimento, la gente tende a voler definire i disordini come insurrezioni o ribellioni, piuttosto che come veri e propri riot. Nessuno vuole essere associato all’idea di sommossa, ancor meno al saccheggio. Persino mentre il riot è in corso, le stesse persone in strada spesso si adoperano per fermare i saccheggi. Molti di loro sono animati da un senso di protezione nei confronti della lotta, temendone una ingiusta rappresentazione da parte dei media e sperando di spingere, invece, in primo piano le posizioni politicamente ed eticamente più convenienti. Comprendo quell’istinto, ma è proprio per criticare e confutare quel ragionamento, innanzitutto in segno di amore e  solidarietà verso coloro che ne sono mossi e con i saccheggiatori di tutto il mondo, che ho iniziato questo mio progetto.

Altre persone, invece- compreso i politici locali, “leader” borghesi o di gruppi associativi e organizzazioni reazionarie- ostacolano i saccheggi per assicurarsi  consenso politico. Questi cosiddetti peacekeeper e deescalator cooperano attivamente con la polizia per far naufragare le rivolte e stroncarle, per dimostrare all’intera struttura di potere bianco di essere dei referenti responsabili, dei “leader naturali”, poiché capaci di controllare e contenere le masse altrimenti ingovernabili, gli interlocutori con cui negoziare. Questo libro ambisce a essere per loro uno schiaffo in faccia.

Saccheggiare è così impopolare non perché sia sbagliato o dannoso per i movimenti ma in quanto spesso è proprio la forma più estrema dei movimenti stessi.  Il saccheggio colpisce alcune delle convinzioni e delle strutture fondamentali della società capitalista razzista e ciseteropatriarcale, e conseguentemente spaventa e disturba quasi tutti, anche alcuni di coloro che vi partecipano. Dopo tutto, tutti siamo stati cresciuti ed educati a difendere, rispettare e riprodurre tali convinzioni giorno dopo giorno.

Il saccheggio rifiuta la legittimitá della proprietá e del diritto all’utilizzo, l’obbligo morale a lavorare per vivere e l’ordine morale di sancito dal law and order. Il saccheggio rivela tutto questo per ció che è: non fatti naturali, ma costrutti sociali a beneficio di pochi e a spese di molti, supportati da un’ideologia, da un ordine economico e dalla violenza dello Stato.

Non sorprende, dunque, che il saccheggio sia uno dei concetti più caricati sul piano razziale, moralmente aborriti e depoliticizzati nella società moderna.

Fin dai suoi primi usi, la parola stessa è servita a riaffermare l’ordine suprematista bianco della proprietà e della razza.

La parola loot, inglese per saccheggio, deriva dalla parola hindi lút – simile a “razzia” o “bottino” – che appare per la prima volta in contesti anglofoni nel 1788, in un manuale sul “vocabolario indiano” ad uso degli ufficiali coloniali inglesi. La prima volta che il termine appare nella lingua inglese scritta, si tratta di un documento in cui si fa riferimento ai metodi utilizzati da un ufficiale per ottenere consensi durante il reclutamento di uomini da utilizzare per sottomettere la resistenza indiana: “Ha sempre trovato nella talismanica parola loot (bottino) un incentivo sufficientemente unanime in qualsiasi parte dell’India”. L’idea razzializzata di un’identità “indiana” non esisteva ancora al di fuori delle menti dei colonizzatori, ma una naturale tendenza razzista, che superava le differenze tribali, religiose e culturali, poteva essere “svelata” dall’offerta di un malloppo. In altre parole, una relazione deviante con la proprietà è l’attributo “sufficiente” che unifica e definisce un gruppo altrimenti disparato sotto il segno della razza. Le prime apparizioni del gerundio inglese looting, l’atto del saccheggiare, si riferiscono contestualmente agli “Hirsute Sikh” e alle “Guardie Nere Cinesi”. “Saccheggio” è quindi una parola presa da un popolo colonizzato e usata per denigrare e razzializzare subalterni in rivolta che resistono all’impero inglese. Si riferirebbe quindi fin dalle origini a un rapporto con la proprietà non bianco e fuori dal diritto.

Il saccheggio che sto difendendo in questo libro non è, però, quell’atto che può essere descritto come sinonimo di “razzia”. Il saccheggio del territorio occupato dagli eserciti, ad esempio, o della ricchezza coloniale da parte dell’Impero e dei suoi addetti, può essere ugualmente ed efficacemente denotato da parole come rapina, furto, bottino e conquista.

Ma il saccheggio descritto, difeso e storicizzato in questo testo – quello di una folla di persone che pubblicamente, apertamente e direttamente prende le cose nel bel mezzo di sommosse e disordini sociali – non ha sinonimi facili da trovare. Personalmente mi piacciono molto le nozioni di “spesa proletaria” e “spesa gratis” e uso anche il concetto marxista di “esproprio”. Ma tutte questi concetti privano l’idea di saccheggio del suo carattere razziale. Anche se è comprensibile il motivo per cui le persone vorrebbero, nel difendere i propri movimenti, trovare una parola meno razzialmente caricata, è proprio il nesso tra razza e classe insito in “saccheggio” a conferirgli il suo potere tattico.

Il saccheggio è un metodo di redistribuzione diretta della ricchezza dai proprietari di negozi e capitalisti ai poveri. Saccheggiare, come scrive lo studioso Delio Vasquez in “The Poor Person’s Defense of Riots “, “si traduce direttamente (a meno che tu non venga arrestato) nel tuo acquisire le cose che stai cercando”. È una forma pratica e immediata di miglioramento della vita.

Il saccheggio rappresenta il modo materiale con cui le rivolte e le proteste aiutano la comunità: danno alle persone un mezzo per risolvere alcuni dei problemi immediati connessi alla povertà e creano uno spazio di libertà nella propria vita fuori dal lavoro salariato. Il saccheggio è un atto di coesione comune.

Ma saccheggiare è anche un atto di eccesso, di distruzione della proprietà.

Quando una cosa viene saccheggiata, la sua natura di merce viene distrutta nel momento in cui viene presa gratuitamente, fuori dal ciclo dello scambio e del profitto.

Tutto nel negozio passa dall’essere una merce a diventare un dono. Materialmente,  il saccheggio è poi di solito seguito dal rogo del negozio stesso. I saccheggiatori spesso gettano anche oggetti per le strade per chiunque voglia prenderne o accatastano caoticamente merci al centro del negozio  o passano bottiglie di liquore, sacchetti di cibo o beni tra estranei e tra la folla. Saccheggiare significa non solo appropriarsi direttamente della ricchezza, ma anche condividerla immediatamente, cosa che mira al collasso del sistema attraverso il quale proprio le cose saccheggiate producono valore.

Il saccheggio è una pratica collettiva: non può essere fatto da solo. L’antropologo Neal Keating sostiene che il saccheggio crei con la proprietá, una relazione simile a quella creata dal potlatch, una pratica collettiva diffusa tra le nazioni indigene nel Pacifico nord-occidentale. Nel potlatch, che si tiene in diverse occasioni speciali – nascite, morti, matrimoni, festivitá – le persone ricche competono per regalare quanti più beni possibili ai celebranti riuniti e fanno a gara per distruggere la ricchezza accumulata in un enorme falò. Il potlatch agisce per livellare la ricchezza all’interno della comunità, consumando le eccedenze, che altrimenti potrebbero consentire ad alcuni di sviluppare forme più permanenti di potere attraverso l’accumulo di ricchezza.

Allo stesso modo, i disordini e i saccheggi ridistribuiscono e riducono  ricchezza e surplus, livellando i differenziali del potere materiale. Il potlatch fu bandito dal governo canadese nel contesto del suo tuttora in corso genocidio delle “Prime Nazioni: il potlatch fu considerato uno degli ostacoli piú significativi al processo di “civilizzazione” e cristianizzazione di quest’ultimi. Proprio come il saccheggio, questo approccio collettivo non bianco e non mercificato alla proprietà era visto come una pericolosa minaccia al capitalismo e alla “civilizzazione”.

Anche se nessun singolo episodio di saccheggio è sufficiente a trasformare la società, ovviamente, saccheggiare – almeno quando viene fatto da neri, da poveri o da indigeni – sarà sempre strenuamente e vigorosamente sconfessato dai poteri costituiti, perché mostra e concretizza una diversa relazione con la proprietà, una contro-storia.

Ci sono stati pochi casi di saccheggi negli Stati Uniti nell’ultimo quarto di secolo; quando sono accaduti, si è trattato di brevi momenti di rivolta, senza una continuità. Ma nonostante ciò, quando nell’agosto del 2014 le fiamme sono divampate su un QuikTrip saccheggiato a Ferguson, nel Missouri, quando sono scoppiati disordini contro la polizia in seguito all’ l’omicidio di Michael Brown, i media hanno prodotto delle linee argomentative e critiche che si sarebbero potute sentire altrettanto facilmente durante i riots degli anni Sessanta. I politici e i media hanno giá a disposizione un buon numero di condanne, diffamazioni e insinuazioni ben collaudate contro i saccheggiatori.

E prima di passare alla narrazione storica del saccheggio negli Stati Uniti, vale la pena affrontare qui di seguito, queste comuni obiezioni.

“Le rivolte sono istigate da  agitatori esterni”

 Il mito degli “agitatori esterni” è usato dappertutto sia dai conservatori sia dai campioni della non-violenza per screditare la militanza.

Questa è una classica prassi da suprematista bianco, che risale fino alla schiavitù. Sotto la schiavitù, i proprietari delle piantagioni sostenevano che disordini, le ribellioni e le fughe fossero il risultato dell’influenza di “Ne(g)ri arroganti” e Yankees perniciosi venuti al Sud per illudere  gli schiavi, altrimenti compiacenti, con le loro idee di libertà e uguaglianza. Le premesse  completamente razziste alla base di questo argomento – stupidi schiavi felici indotti da nordisti cospiratori a credere di essere degli esseri umani  – definiscono ancora oggi la logica dietro l'”agitatore esterno”, una definizione entrata in voga durante il Movimento per i Diritti Civili. Martin Luther King era il prototipo dell’agitatore esterno, che viaggiava per il paese combattendo la segregazione, sebbene anche gli attivisti bianchi per i diritti civili erano spesso rappresentati in questo modo. Al giorno d’oggi si preferisce piú probabilmente indicare gli “anarchici bianchi”, George Soros e i dipendenti della sua organizzazione, gli “Antifa”, o “agenti provocatori” come gli spauracchi  che sobillano dal di fuori. Questa logica spoglia coloro che protestano del proprio potere, tramite la presunzione che le esperienze, vite e desideri di quest’ultimi non siano in realtà sufficienti a ispirare i loro atti di resistenza, inferendo dunque che non sappiano ció che fanno.

Si parte anche dal presupposto che il mondo vada bene così com’è, e quindi solo dei disturbatori nichilisti o facinorosi di professione avrebbero la pretesa di contestarlo. Ma è un’idea evidentemente razzista.

Cosa c’è che non va in un agitatore esterno? Il concetto è strutturato attorno alla logica razziale intrinseca dei confini e della cittadinanza, attraverso la quale lo status di un individuo interno/esterno è la considerazione principale che ne determina la legittimità politica. Al di fuori di cosa?
Perché non dovremmo almeno provare a prendere in considerazione idee o rivolte al di fuori dei nostri dintorni più immediati?

Non è questo in definitiva ciò che chiamiamo solidarietà?

 “I rivoltosi stanno distruggendo i loro quartieri”

Il tropo “perché distruggi i tuoi quartieri?” è ritornato con vigore negli anni sessanta durante le dozzine di rivolte nelle città di tutti gli Stati Uniti.

Assistiamo, in questo caso, una confusione intenzionale di geografia e potere. Sebbene gli edifici distrutti possano essere situati in un quartiere prevalentemente nero o proletario, le perdite ricadono su imprenditori e proprietari immobiliari bianchi e borghesi, raramente sulle persone che vivono nel circondario.

Il leader dei diritti civili Stokely Carmichael (in seguito Kwame Ture) dovette sfidare queste logiche per difendere i disordini: “In queste città non controlliamo le nostre risorse. Non controlliamo la terra, le case o i negozi. Questi sono di proprietà di bianchi che non appartengono alla  “comunità”. Il potere bianco fa le leggi e le fa rispettare con pistole e manganelli nelle mani di poliziotti razzisti bianchi e mercenari neri”. 5

Assata Shakur, combattente per la libertà nel movimento di liberazione nero nonché la fuggitiva più ricercata dal governo federale, racconta di avere avuto la stessa discussione con i colleghi bianchi, che volevano che la Shakur ammettesse che “fosse una vergogna” che i rivoltosi distruggessero i propri quartieri e pretendevano che se ne dissociasse. Ma la Shakur invece avanzó argomenti a favore della distruzione: “Non possiedono quelle case. Non possiedono quei negozi. Sono contenta che abbiano bruciato quei negozi perché quei negozi li stavano derubando per primi!”.6

Con l’emergere, dopo gli anni Sessanta, di una classe imprenditoriale nera e, più tardi, di un Presidente nero, nonché  con lo smantellamento ufficiale delle leggi Jim Crow, la logica secondo cui  i rivoltosi distruggono i loro quartieri si è solo rafforzata. Innalzatasi la percentuale (sebbene ancora troppo ridotta) di proprietari, uomini d’affari e politici dalla pelle nera, diventa ancora più facile immaginare che i saccheggi e le rivolte in qualche modo demoliscano parti delle comunità nere.

Come scrisse Tyler Reinhard sulla scia della rivolta di Ferguson: “Non sono sicuro che le persone che fanno questo ragionamento abbiano idea di come funzioni  “possedere” un quartiere, ma cercherò di spiegarlo: noi non possediamo quartieri. Le imprese nere esistono, è vero. Ma l’emancipazione delle comunità impoverite non si misura in fatturato dei negozi all’angolo. Non si misura in posti di lavoro a salario minimo”7.

Come ha detto un rivoltoso di Ferguson in un video diventato virale su Instagram: “La gente vuole raccontare che distruggiamo i nostri quartieri. Ma noi qui non possediamo niente!”. Questo si potrebbe dire della maggior parte dei quartieri a maggioranza nera in America, i quali hanno concentrazioni molto più elevate di catene di negozi e ristoranti fast food rispetto ai quartieri non neri. Come potrebbe il residente medio di Ferguson dire davvero “il nostro QuikTrip”? In effetti, per quanto lo si possa frequentare, come puó un  minimarket o un ristorante di una catena far seriamente parte del quartiere di qualcuno?

Gli stessi liberali bianchi che inveiscono contro la grande distribuzione per aver distrutto le comunità locali poi inorridiscono quando i rivoltosi portano la loro stessa critica alle sue effettive conseguenze materiali.

Solo un poliziotto, in questo caso il commissario di polizia di Baltimora Anthony Batts, nell’incriminare un piromane, durante le rivolte per Freddie Gray del 2015, poté dire e senza ironia “Raymon Carter ha bruciato un CVS – il nostro CVS – fino alle fondamenta”.

Da nessuna parte l’assurda vacuitá della retorica americana moderna è più chiara che nella pausa accorata, poi dall’appello, di un commissario di polizia: “non un CVS qualsiasi; “il nostro CVS.”

“I saccheggiatori sono opportunisti e criminali, non sono manifestanti: non hanno nulla a che fare con la lotta politica”

Quando i manifestanti dichiarano che “non tutti i manifestanti erano saccheggiatori, e anzi, la maggior parte dei saccheggiatori non faceva parte della protesta!” o altre espressioni simili, stanno cercando di contrastare la tradizione  terribilmente razzista propria della cultura americana di raffigurare i neri come ladri e rapinatori: è una posizione completamente legittima e comprensibile. Tuttavia, nel tentativo di correggere questa immagine mediatica – nel definire una netta distinzione tra manifestanti pacifici e rivoltosi cattivi, o tra praticanti etici della non violenza e presunti saccheggiatori violenti – viene riprodotta una narrazione che tipicamente criminalizza i giovani neri. In questo caso, però, le divisioni criminali e morali sono tra certi tipi di giovani neri, quelli che saccheggiano (cattivi) contro quelli che protestano (buoni).  Questo discorso produce il consolidamento di  una condizione di criminalitá permanente assegnata ai soggetti neri che producono un presunto crimine nel contesto di una protesta tutto sommato “accettabile” (anche se quei manifestanti sarebbero calunniati altrettanto rapidamente come criminali in scenari di protesta meno conflittuali). Riproduce così ideologie razziste e di supremazia bianca, ritenendo alcuni individui non meritevoli della nostra solidarietà e protezione, contrassegnandoli, sottilmente, come legittimi bersagli della violenza della polizia.

Se i rivoltosi “non fanno parte della protesta”, allora perché continuano ripetutamente ad apparire ad ogni rivolta di emancipazione? Infatti, diversi studi sociologici degli anni Settanta hanno dimostrato che, in contrasto con la narrativa  del “ senso comune”, coloro che partecipano a rivolte e saccheggi tendono ad essere i più politicamente informati e socialmente impegnati nel quartiere, mentre le persone più apatiche, distratte o alienate si rivoltano in percentuali più basse. Ciò suggerisce che saccheggiatori e rivoltosi comprendono la posta in gioco e il significato della lotta, sono stati attivi al suo interno  e vedono il saccheggio come una significativa escalation di possibilità.

“I rivoltosi danneggiano l’immagine mediatica, mettono in cattiva luce noi /le nostre istanze”

I rivoltosi sono spesso accusati di essere la causa di una dannosa rappresentazione  mediatica.

Ma questa affermazione viene sempre fatta dopo l’arrivo delle telecamere, senza cognizione del come o del perché quelle telecamere siano arrivate fin lì. Se non fosse per i rivoltosi, i media probabilmente non presterebbero alcuna attenzione alla protesta. Se i manifestanti non avessero saccheggiato e incendiato quel QuikTrip il secondo giorno di proteste, siamo davvero sicuri che gli occhi di tutto il mondo sarebbero comunque stati puntati su Ferguson? È impossibile saperlo, ma tutte le proteste non violente contro le uccisioni della polizia in tutto il paese rimaste inascoltate dai media  sembrano indicare che la risposta più verosimile sia no.

È stato il saccheggio di un Duane Reade, e non la veglia di commemorazione che l’ha preceduto, a portare una attenzione diffusa sull’omicidio di Kimani Gray a New York City nel 2013. La prassi perversa dei media ci dice che le rivolte e i saccheggi sono i metodi più efficaci se si vuole portare l’attenzione su una causa.

Ma lo scopo di una protesta, comunque, non è la visibilitá mediatica. Per dirla con l’editoriale apparso nel 1967 su The Movement, rivista del Comitato di Coordinamento Studentesco Non Violento, in merito alla copertura data dalla stampa delle rivolte urbane: “La stampa quotidiana diretta dai bianchi in America non è un interprete oggettivo e critico degli eventi. I giornali sono industrie. Sono proprietà private, non servizi pubblici. Quando i neri si ribellano alle loro condizioni, si ribellano anche contro i mezzi di comunicazione di massa; la stampa”.

Il saggio ha ricostruito e analizzato le linee guida editoriali sulla copertura di futuri casi di agitazione fornite ai giornalisti della CBS sulla scia di Watts. Tra queste, gli editori ne evidenziano una che dice: “All’inizio del disordine, i giornalisti dovranno essere inviati ai posti di comando delle forze dell’ordine, piuttosto che direttamente sulla scena, dove la loro presenza può intensificare i tumulti o interferire con gli sforzi di ristabilire il controllo. Un posto di comando con personale autorevole sarà senza dubbio in comunicazione con le scene dei disordini e sarà in grado di fornire ai giornalisti tutte le informazioni desiderate”.

Durante le rivolte di Los Angeles del 1992, i telegiornali nazionali trasmettevano senza sosta filmati, ripresi da un elicottero, del violento pestaggio del camionista bianco Reginald Denny da parte di quattro adolescenti neri. La notizia fu data senza fornire né contesto– cioè che la Guardia Nazionale aveva appena attraversato quell’incrocio, sparando colpi di arma da fuoco contro i rivoltosi, il che significava che Denny era nel posto sbagliato al momento sbagliato- né ció che ne seguí cioè che altri rivoltosi neri accorsero fuori, curarono le sue ferite e lo portarono in ospedale, salvandogli la vita, nonostante ambedue gli eventi furono ripresi dalle telecamere.

Invece, il violento pestaggio venne mostrato in loop, decontestualizzato, in tutto il paese.

Durante le rivolte nel Regno Unito nell’estate 2011, che hanno visto la gente sollevarsi in risposta all’omicidio di Mark Duggan da parte della polizia, la BBC, che si era basata principalmente su immagini riprese da elicotteri e filmati della polizia, ha intervistato dal vivo un uomo di Croydon, uno dei quartieri londinesi dove i disordini erano più intensi. Quell’uomo, Darcus Howe, era un eminente e rispettato giornalista e scrittore originario di Trinidad. Le domande del moderatore tendevano principalmente a mettere in luce quanto fossero terribili le rivolte, ma Howe definì in maniera netta e con rabbia la posta in gioco nella rivolta: “Quello di cui ero certo, ascoltando mio figlio e mio nipote, è che qualcosa di molto grave sarebbe successo in questo paese. I nostri leader non ne avevano idea. . . Ma se aveste ascoltato i giovani neri e i giovani bianchi di questo paese… sapreste che ciò che gli sta succedendo è ingiusto”. Il presentatore lo interruppe, lo insultò e lo accusò di essere lui stesso un rivoltoso. La BBC fu costretta a presentare delle scuse, ma cancellò anche i filmati dai suoi siti web e dalle programmazioni successive, preferendo evitare che questo momento accidentale di chiarezza radicale avesse un seguito. Per quanto pacifica e “aderente alle buone maniere” sia una protesta, i media dominanti continueranno sempre a promuovere i punti di vista cari alla polizia o l’agenda suprematista bianca. Anche se a volte possono essere sfruttati strategicamente, i mass media sono nemici della liberazione, e tutte le volte in cui organizzeremo le nostre azioni per conformarci alle loro opinioni o prospettive, perderemo sempre. Se ci ribelleremo, ci diffameranno.

Se ci comporteremo educatamente, pacificamente e legalmente, torneranno semplicemente a ignorarci.

“Sommosse, saccheggi e distruzione di proprietà giustificano la repressione della polizia”

Si è soliti raccomandare alla gente di non degenerare nella violenza, che solo la protesta pacifica previene il ricorso all’uso della forza da parte della  polizia nei confronti degli attivisti. Ma questo riflette un’analisi carente della violenza sistemica rispetto a ció che rappresenta esattamente l’oggetto stesso di queste rivolte: il fatto che i neri vengono uccisi semplicemente per aver camminato per strada, venduto CD o sigarette, guidato con un fanalino di coda rotto, indossato una felpa con cappuccio, etc.

Com’è possibile che pensiamo di poter scendere in piazza a protestare contro quella violenza convinti ancora che un nostro comportamento influenzi le reazioni della polizia, piuttosto che riconoscere che quest’ultima brutalizzerà chiunque voglia, quando voglia, a meno che non proviamo  a fermarla?

“I saccheggiatori sono solo “consumatori”, agiscono secondo falsa coscienza”

Molti sedicenti “rivoluzionari”criticano i rivoltosi per aver saccheggiato TV a schermo piatto o costose scarpe da ginnastica.

Queste persone spesso sostengono che, al contrario, sosterrebbero i saccheggiatori se rubassero medicine o cibo, dunque beni di prima necessità, ma poiché si appropriano di  merci costose, diventa evidente che i rivoltosi sono solo dei “consumisti” e “materialisti”.

Come ha scritto Evan Calder Williams nel suo saggio “An Open Letter to Those Who Condemn Looting”, questa analisi ha prevalso in particolare durante le rivolte nel Regno Unito del 2011. Anche durante i disordini, l’intera sinistra bianca britannica, dall’establishment dei media della sinistra-liberale ai partiti politici “rivoluzionari”, in pratica disse ai rivoltosi di piantarla. Come chiede Williams, questi rivoluzionari ci vogliono far credere che “i poveri non dovrebbero capirne dei fondamenti del valore di scambio? Che avrebbero dovuto caricare i carrelli della spesa con farina e fagioli, piuttosto che con computer che, in teoria, potevano essere venduti per un corrispettivo di gran lunga superiore a quello di farina e fagioli?”10

Il fiasco di tale ragionamento non è di natura meramente economica: chi usa questo argomento rivela un fondamentale  disprezzo per i poveri. Condivide una logica morale con i mezzibusti televisivi conservatori anti-welfare e con i politici perbenisti  affezionati alla retorica della rispettabilitá al motto di “datti una ripulita!”che affermano che i poveri sono tali solo  perché spendono i loro soldi in smartphone o vestiti eleganti.

Questi cosiddetti rivoluzionari, che sostengono il saccheggio del pane, ma non del liquore, dimostrano di essere disposti a sostenere i poveri solo nelle lotte per la nuda sopravvivenza: in altre parole, nelle lotte che li mantengono poveri.

Revocano la loro solidarietà, invece, quando il proletariato agisce sul desiderio di avere una vita più piacevole e più degna di essere vissuta. Questi reazionari non vogliono che i poveri dispongano di cose di qualitá più di quanto non lo voglia la polizia che giustizia i saccheggiatori.

Vedono le masse come oggetti feticcio nelle loro febbrili astrazioni rivoluzionarie, che non dovrebbero sollevarsi se non in una pura lotta proletaria, possibilmente alla testa di un glorioso partito.

Tutte queste differenti distorsioni concettuali della realtá contengono un filo conduttore: che i saccheggi e i riots non riguardano i veri problemi (di solito ma non sempre la violenza della polizia) che li hanno innescati. Le rivolte vengono, invece sempre minimizzate come disordini criminale, improvvisi sfoghi di “tensione”, o in qualche modo indicatori oggettivi dello stato delle relazioni razziali o della povertà. Alla base di questa critica c’è l’idea che i neri poveri o i lavoratori non sappiano quello che fanno: che quando si rivoltano e saccheggiano, agiscono al di fuori della ragione, al di fuori della “vera” lotta. A differenza degli scioperanti o dei manifestanti non violenti, coloro che si sollevano rabbiosi e si cimentano nella distruzione vengono esiliate da un riconoscimento come veri soggetti rivoluzionari, come persone. La filosofa Sylvia Wynter ha criticato duramente questa nozione nella sua analisi delle rivolte di Los Angeles:

“Costoro [i nuovi poveri], a differenza dei lavoratori della classe operaia, non possono essere considerati, all’interno della logica economica della nostra attuale organizzazione del sapere, come contributori ad un processo di produzione”.

. . . questo Nuovo Povero, anch’egli sedotto, come tutti noi, dal clamore delle pubblicità che lo spingono a consumare, affinché frustrato nei suoi obiettivi di consumo, si rivolti contro il proprio simile, mutilandosi e uccidendosi l’un l’altro, o “si rovini con alcol e droghe” convinto della propria inutilità, o in brevi episodi di escandescenza, “metta a ferro e fuoco i ghetti, scateni sommosse, saccheggi tutto ciò su cui può mettere le mani”, racconta di come gli intellettuali di oggi, pur provando ed esprimendo la propria commiserazione, si astengano dal proporre di coniugare il loro pensiero con questa particolare varietà di sofferenza umana…

Invece, continua Wynter, l’ascesa di queste masse ha creato la possibilità di pensare attraverso una nuova etica rivoluzionaria. “Lo scoppio delle rivolte…nell’area centro-meridionale di Los Angeles ha riaperto un orizzonte da cui guidare il discorso di una nuova frontiera della conoscenza in grado di spingerci verso una nuova specie umana correlata, eco-sistemica, etica.

È l’ammonimento di Wynter a sposare il nostro pensiero, l’apprendimento e la teorizzazione a questo gruppo e alle sue azioni che modellano il lavoro di questo libro.

Qualsiasi forma significativa di lotta deriva dalle comunità oppresse che hanno più bisogno di quel conflitto, non dalle menti, dalle forme o dalle teorie degli attivisti o dei rivoluzionari di maggior successo.

Al pari di tutti gli altri, i rivoltosi e i saccheggiatori sanno esattamente cosa stanno facendo. Questo libro, il pensiero e lo studio ivi condotti ed il saggio che ne è il risultato, sarebbero stati impossibili senza la rivolta di Ferguson.

I ribelli di Ferguson mi hanno insegnato più di quanto io possa mai sperare di insegnare, e questo libro è inteso come un atto di gratitudine nei loro confronti per quell’insegnamento.

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Se le rivolte sono viste come esplosioni incontrollate e insensate di rabbia e risentimento, è altrettanto pacifico che famose rivolte storiche “abbiamo dato vita” ai movimenti. I moti di Stonewall diedero vita al movimento di liberazione gay; l’assalto alla Bastiglia diede vita alla Rivoluzione francese; il Boston Tea Party alla rivoluzione americana. Ció, naturalmente, è solo da intendere come un semplificazione di un nesso di causa ed effetto, un dispositivo retorico.

Ma il concetto di nascita è in realtà un’ottima metafora per i riots e i loro rapporti con i movimenti sociali e le rivoluzioni.

Gli Homo Sapiens sono piuttosto sfortunati dal punto di vista dell’evoluzione. In quasi tutti i mammiferi, la gravidanza e la nascita sono processi sicuri e semplici: le madri gestanti praticamente non muoiono mai durante il parto. Infatti, se le risorse sono insufficienti o la gestante non è in grado di prendersi cura di un cucciolo in quel momento per qualche motivo, il feto può essere facilmente abortito. Ma negli esseri umani, la nascita è violenta e pericolosa, rischiosa sia  per la vita della gestante sia per il feto.

Con questa immagine in mente, possiamo iniziare ad analizzare le rivolte come processi di nascita. Le rivolte sono violente, estreme e sono fottutamente femme : strappano, lacerano, bruciano e distruggono per dare alla luce un nuovo mondo. Possono emergere da crescenti tensioni e portare a nulla – un aborto spontaneo – o costituire l’apice ed il punto finale di un dato movimento. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, trasformano e costruiscono un momento di nascita in un movimento: i disordini, come ci hanno mostrato le donne trans nere di Stonewall, sono una forma di nascita queer.

Come modalità di lotta, le rivolte sono segnate da molte caratteristiche tradizionalmente definite come “femminili”: piuttosto che essere condotte con argomentazioni razionali o da un dialogo politico “corretto”, sono invece guidate dal desiderio, dalle passioni, dalla rabbia e dal dolore. Appaiono disordinate, spaventose e caotiche. È importante sottolineare che anche i disordini rientrano nell’ambito della riproduzione sociale: il saccheggio facilita la vita quotidiana portando a zero il prezzo dei beni, allevia la pressione diffondendo ricchezza all’interno della comunità e rafforza i legami di solidarietà e parentela attraverso la lotta e l’azione mutualistica. Altrettanto importante è ricordare che i riots sono vissuti per la maggior parte come celebrazioni, come gioiosi e catartici sfoghi di emozioni: polizia e politici che accedono alle aree dei disordini spesso raccontano di questa atmosfera come la cosa che piú li terrorizza.

Ma le rivolte sono anche guidate da un senso di rabbia e di perdita. Emergono come una forma alternativa di cura e commemorazione di quanti la violenza patriarcale dello stato ha distrutto: sollevandosi in lutto per i figli perduti e in spregio alla sopraffazione della vita quotidiana. Possono essere brutte, sanguinanti e spaventose.

Si tratta spesso di lotte protettive e difensive, ma la posta in gioco è sempre la riproduzione di una comunità; come chiarisce lo studio delle rivolte negli Stati Uniti, uno dei principali risultati delle rivolte è un senso di unità, unione e gioia che normalmente non si sperimenta nel quartiere urbano, un’unità che porta alla fioritura di dozzine di progetti politici, sociali ed economici. Le rivolte sono comunicative, ma a differenza delle proteste, il loro discorso non é indirizzato a coloro che sono al potere, ai leader o allo Stato; al contrario, sono una forma di comunicazione diretta e di trasferimento di conoscenze tra coloro che si trovano al di fuori delle tradizionali corsie di potere. Come disse il Ministro della Difesa del Black Panther Party Huey P. Newton, “A Watts l’economia e la proprietà dell’oppressore furono distrutte ad un punto tale che non importò come l’oppressore tentò, attraverso i propri organi di stampa, di sbiancare  le attività dei fratelli neri, la vera natura e reale ragione dell’attività fu comunicata ad ogni comunità nera.”.

Concepire le rivolte come una nascita non riesce a contenere però tutto ciò che è importante o degno di essere capito su di esse: non si tratta di una metafora perfetta o totale. Ma può aiutarci a capire e analizzare il ruolo che i disordini hanno nel movimento e nella rivoluzione e il modo in cui le rivolte funzionano per i loro partecipanti e per le città in cui si verificano. Piuttosto che vedere i riots come totalmente apolitici, caotici o come ribellioni una tantum, rivolte o insurrezioni, che hanno poca interazione con le forme quotidiane di trasformazione sociale, possiamo considerarli come momenti cruciali della rivoluzione e come esperienze fondamentalmente trasformative per tutte le persone coinvolte.

Ed è proprio la posizione difesa in questo libro che abbiamo bisogno di una trasformazione totale della nostra società. La società in cui viviamo sotto il capitalismo è interamente strutturata intorno alla produzione e alla circolazione delle merci. È un sistema crudele, costruito attorno alla creazione e la reificazione delle cose, non al fiorire delle persone. Le merci non sono una cosa qualsiasi, ma un genere speciale: beni e servizi a cui può essere dato un prezzo e che possono essere venduti per un valore superiore a quello necessario per realizzarli, in modo che producano un plusvalore, un eccesso di valore: i profitti.

Sotto il capitalismo, questi profitti vanno al proprietario dei “mezzi di produzione”.

Ma il proprietario non fa e non può produrre le merci da solo; deve avere persone – lavoratori – che gestiscano la sua fabbrica, coltivino la sua terra o scavino nella sua miniera. Invece che condividere i profitti tra le persone che li hanno creati, tuttavia, il proprietario mantiene per sé più ricchezza possibile, pagando invece ai lavoratori un salario, quasi sempre il più basso con cui può farla franca, in cambio del tempo e dello sforzo dei lavoratori. In altre parole, li sfrutta.

I profitti che ottiene dal loro lavoro, li usa per vivere generosamente e per investire nella produzione di ulteriori merci, aumentando la quantità di profitti che può così accaparrarsi.

I lavoratori invece ottengono il privilegio di non morire di fame. Tutto questo è completamente naturale per noi: nella nostra vita quotidiana, non capita spesso di mettere in dubbio che un proprietario di una fabbrica o di un’attivitá sia autorizzato a rubare i profitti che creiamo col nostro lavoro o che dobbiamo invece spendere soldi per avere cose create da persone come noi. Non mettiamo in discussione il fatto di lavorare per un capo e per pagare un padrone di casa, per tenere lo stomaco pieno e un tetto sopra le nostre teste. Accettiamo che la polizia e lo stato, attraverso leggi, tribunali e azioni di violenza armata, garantiscano che i proprietari di negozi, aziende e condomini possano prendere i nostri soldi e il nostro tempo alle loro condizioni, e che il capo possa licenziarci e la polizia sfrattarci, arrestarci o persino ucciderci se cercassimo di vivere diversamente.

Ma questa società costruita intorno alle leggi “naturali” delle merci e dei profitti è sia storicamente nuova sia relativamente giovane. È anche strutturalmente ed inequivocabilmente colonialista e intrisa di suprematismo bianco.

Per trecento anni, mentre il capitalismo e la società delle merci si sviluppavano in questo emisfero, la grande ricchezza degli imperi europei fu costruita sulle merci prodotte dagli schiavi: l’argento estratto dal Perù e dal Messico, lo zucchero e il tabacco raccolti nei Caraibi, il cotone coltivato nel Sud degli Stati Uniti. Gli africani furono ridotti in schiavitú per produrre merci su terre rubate attraverso il genocidio dei popoli indigeni delle Americhe. Le due grandi forme di proprietà del Nuovo Mondo, entrambe razzializzate, erano la terra e gli schiavi.

Lo storico del colonialismo di insediamento Patrick Wolfe sostiene che, nel momento in cui furono stabiliti i concetti di merce e proprietà privata, la merce primordiale ideale era l’africano schiavizzato – esisteva esclusivamente per l’ulteriore produzione di merci e profitti – e la proprietà più pura erano le terre indigene rubate – potevano essere sfruttate, coltivate ed ampliate senza preoccuparsi di una loro funzione storica o sociale.

Fu la ricchezza del Nuovo Mondo a produrre un plusvalore sufficiente per la creazione del capitalismo. Il colonialismo razziale d’insediamento è quindi al centro di tutte le moderne nozioni di proprietà. Tutte le nostre convinzioni sulla rettitudine della proprietà, del possesso e della produzione di merci sono storicamente determinate dalla violenza anti-nera e dell’estrattivismo colonialista. Il diritto alla proprietà è intrinsecamente e strutturalmente suprematista bianco: il sostegno alla supremazia bianca comporta un vincolo con la proprietà e la produzione di merci.

Per proteggere questo sistema di proprietà e merci, per stabilizzare questa violenza razzista e il dominio patriarcale, i proprietari e le classi dominanti hanno organizzato e sviluppato stati-nazione per far prevalere la loro volontà laddove le “leggi” del mercato non bastavano. La loro intuizione particolarmente innovativa per assolvere a questo compito fu la polizia, prima burocrazia giudiziaria in tutte le città in Occidente, evolutasi a partire da pattuglie di controllo degli schiavi e da amministratori coloniali, e quindi istituita per proteggere le proprietà, controllare le folle urbane e reprimere le rivolte degli schiavi.

Il saccheggiare, soprattutto se commesso da persone razzializzate che si ribellano contro la polizia e lo Stato, colpisce dritto nel cuore di quella storia. Ciò dimostra, inoltre, che le merci possono essere prese gratuitamente se combattiamo tutti insieme e che potremmo vivere senza salario se condividessimo liberamente i prodotti della società.

Il saccheggio ignora pubblicamente e diffusamente i diritti di proprietà del proprietario del negozio e dimostra che tali diritti sono sostenuti solo dalla violenza della polizia. Ed ecco perché il saccheggio, che dopo tutto è simile ad un taccheggio di massa, viene trattato come un crimine meritevole della pena di morte: durante i disordini, la polizia spara a vista ai saccheggiatori.

La polizia esiste per impedire ai neri poveri di minacciare i diritti di proprietà dei bianchi ricchi: l’abolizione delle proprietà è un attacco diretto al loro potere.

Colpendo le leggi della merce, i saccheggiatori colpiscono anche la supremazia bianca: in una rivolta contro la polizia per la liberazione dei neri, saccheggiare quindi è una pratica efficace in modo diretto e sensata. Non c’è da stupirsi che sia un atto così disprezzato. Per sostenere le argomentazioni e le affermazioni qui riportate, per capire l’uso del saccheggio nel presente momento storico e nel futuro, questo libro prende la svolta forse apparentemente paradossale della storia, e più specificamente della storia del saccheggio, dalla schiavitù al presente.

Così facendo, seguo le orme della Tradizione Radicale Nera, come pure molti altri filoni (a volte sovrapposti) del pensiero liberatorio e rivoluzionario, dai pensatori indigeni e anti coloniali alle tradizioni rivoluzionarie anarchiche e comuniste.

Nel corso della sua vita, attraverso la sua opera, James Baldwin tornò più e più volte su un certo modo di fare i conti con la storia: “La storia … non è solo qualcosa da leggere. E non si riferisce solo, e nemmeno principalmente, al passato. Al contrario, la grande forza della storia deriva dal fatto che la portiamo dentro di noi, ne siamo controllati in molti modi e la storia è letteralmente presente in tutto ciò che facciamo”. Per Christina Sharpe, studiosa di letteratura inglese e Black Studies, la vita nera e il capitalismo razziale oggi devono essere intesi come esistenti “sulla scia” della tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico (chiamata “Middle Passage”),  nei processi in corso, nelle violenze e nelle forme sociali di anti-Blackness iniziati in quel rapimento genocida attraverso l’Atlantico e che riecheggiano nel presente. Come riflesso di questi fatti, il prigioniero politico Mumia Abu-Jamal ha detto: “La vera storia ci parla più di oggi che di ieri”.

Questa concezione della storia è conforme alla tradizione ebraica in cui sono cresciuta. Ogni anno in occasione della Pasqua ebraica (in ebraico Pesach, passaggio), una delle due festività più importanti del calendario, gli ebrei si riuniscono con la famiglia e gli amici per raccontare la storia della schiavitù ebraica e della liberazione guidata da Mosè in Egitto. Questo rituale, l’atto annuale di ricordare gli orrori della schiavitù e le gioie dell’emancipazione, è una delle tradizioni più importanti che tengono insieme un popolo diasporico da tremila anni.

Se questa è stata la lunga scia storica della schiavitù e dell’emancipazione per gli ebrei, come potremmo iniziare a capire gli effetti in corso di quattro secoli di schiavismo, conclusisi – e anche allora, solo tecnicamente – appena 150 anni fa?

Mi sembra che qualsiasi etica ebraica debba dare la priorità diretta alla liberazione nera.

Senza fare i conti con il passato diretto, vissuto, presente, nessun movimento può veramente cambiare, guarire o prendersi cura del nostro presente, figuriamoci produrre un futuro di emancipazione. E studiare la storia ha altri vantaggi: con il beneficio di una panoramica su lunghi periodi storici, l’accumulo di documenti e uno studio coerente, è in qualche modo più facile evidenziare i significati e gli effetti delle rivolte.

Studiare la storia ha anche un ruolo abolizionista vitale.

L’ideologia vorrebbe farci credere che il capitalismo, lo Stato-nazione, la polizia, le prigioni e altre forme violente di oppressione sono fatti ineluttabili e senza tempo. Se  la polizia fosse da sempre esistita di epoca in epoca, allora un mondo senza di essa non sarebbe neanche pensabile. Ma comprendendo quanto questi fatti siano recenti e tracciando strategie di resistenza, lotta e rivolta contro di essi, possiamo iniziare a immaginare un mondo diverso.

Questo libro è per lo più un’opera di storia, una storia basata sul desiderio di rompere con questo mondo e distruggere tutte le sue mostruose linee di continuità.

Ma lo studio della storia ha anche alcuni gravi problemi e limiti, problemi che si ritrovano raddoppiati nello studio dei disordini e dei saccheggi. La resistenza è costantemente sottaciuta nella documentazione storica. Coloro che hanno potere sulla produzione del discorso e sulla documentazione, coloro che hanno posto nei media, nelle università, negli uffici governativi, nelle chiese e nelle corporazioni, preferiscono non raccontare ampiamente o registrare forme di lotta militante per paura che si diffondano e ispirino altri. Se le documentano, allora le denigrano, ne sottovalutano le dimensioni o il potere, le travisano o ne esagerano le mancanze.

Nel frattempo i ribelli e i rivoluzionari sono spesso analfabeti, isolati, imprigionati, uccisi o fermati in ogni tentativo di garantire che le loro lotte finiscano tra le cronache nel modo in cui le hanno vissute. Quindi la storia deve fare affidamento su storie tramandate attraverso generazioni, resoconti e interviste con i partecipanti, e sul lavoro di archivisti, storici e accademici radicali.

Il saccheggio rende ancora più profondo il problema della mancanza di documentazione. Durante la Grande Depressione, ad esempio, i proprietari di negozi erano recalcitranti a segnalare i saccheggi persino alla polizia per paura che ciò contribuisse a diffonderli. Pochi saccheggiatori, di contro, sono disponibili a parlare della propria partecipazione al saccheggio. Raramente questi vengono invitati a parlare, si trovano solitamente di fronte a una condanna generalizzata da parte di amici e nemici – per non parlare delle gravi conseguenze legali – e quindi raramente discutono il loro caso in pubblico dopo il fatto. Io stessa non sono una storica qualificata con un profilo istituzionale. E come tale, i miei metodi sono stati in gran parte quelli di fare affidamento su fonti secondarie, archivi e video e sul lavoro di altri storici, accademici e rivoluzionari. Mi sono anche concentrata quasi interamente sul saccheggio nei cosiddetti Stati Uniti d’America, un grave difetto che solo altri studi di lunghezza pari a questo libro potrebbero correggere.

Spero che l’effetto di incontrare le storie, le teorie e i racconti che ho tracciato e raccolto possa aiutare i compagni nella lotta e ispirare gli altri a fare il lavoro, la ricerca e la critica necessariamente mancanti nel presente documento. Stiamo di nuovo vivendo tempi di trasformazione storica, in un’epoca di saccheggi, sommosse, rivolte e rivoluzioni. Questa volta ci troviamo di fronte a una  estrema destra globale in rinascita ed un apocalisse ecologica al di là della nostra comprensione. Non possiamo permetterci di lasciare la rivoluzione a metà: il pianeta semplicemente non può sopravvivere.

Ma non dobbiamo aver paura. Il futuro è nostro.

Dobbiamo solo saccheggiarlo.

 

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