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Parigi: 29 anni di carcere nel processo simbolo del movimento contro la Loi travail

L’11 ottobre, la sentenza di primo grado nel processo per la macchina della polizia bruciata sul Quai de Valmy, a maggio 2016. In quello che è diventato un vero e proprio processo contro il movimento c’è in gioco la narrazione di mesi potenti e la legittimazione di una logica securitaria-repressiva indiscriminata.

Il 18 maggio 2016, in piena mobilitazione contro la Loi Travail del governo Valls-Hollande, un sindacato della polizia francese “prenota” Place de la Republique a Parigi per manifestare “contro l’odio anti-sbirri” che si sta esprimendo nelle manifestazioni in tutto il Paese. La piazza di Nuit Debout diventa per un giorno la piazza delle forze dell’ordine che vogliono rivendicare il monopolio della forza e la possibilità di reprimere. Alliance Populaire, questo il nome del sindacato, ha un chiaro orientamento di estrema destra e sul palco della piazza non mancheranno di presentarsi esponenti di spicco del Front National.

Alcune centinaia di manifestanti assediano la zona transennata. Tra i poliziotti in presidio e il contro-presidio, un altro cordone di persone, questa volta composto da poliziotti in servizio. Una fotografia quasi grottesca se non si intravedesse un significato più profondo, il potere messo a nudo in un suo meccanismo fondamentale, nel suo conflitto di interessi intrinseco: possono le guardie proteggerci da loro stesse? Possono farlo a maggior ragione in uno stato d’eccezione permanente [1], quando la logica della “sicurezza” diventa il paradigma politico fondamentale?

In poco tempo la manifestazione si sposta sui bordi del Canal St. Martin, dove una vettura della Police Nationale si ritrova per errore proprio sul percorso del corteo selvaggio, incastrata nel traffico sul Quai de Valmy. Uno scenario famoso al grande pubblico per le immagini del “Magico mondo di Amelie”, diventa il teatro di un assalto collettivo alla macchina, incendiata in pochi minuti.

Flash forward. Un anno e mezzo dopo, nell’ottobre 2017 si celebra il processo per quei fatti. In nove vanno alla sbarra per il processo al movimento. Sullo spettacolo di una macchina bruciata, la magistratura ribadisce e rafforza la rappresentazione mediatico-poliziesca dei mesi di mobilitazione, con l’intento di cancellare quell’assunzione collettiva, il riconoscimento della polizia come nemico comune. Da marzo a settembre, cortei, manifestazioni, occupazioni, sono sempre state caratterizzate da un continuo attacco alle forze dell’ordine e ad alcuni edifici simbolici (banche, assicurazioni, agenzie immobiliari…). Certo, è una componente specifica quella che si rende protagonista delle azioni più radicali, giovani bardati che escono dal cortège de tête (lo spezzone di testa), ma lo fanno con la sostanziale complicità di tutt*. Non c’è una divisione tra buon* e cattiv* in quei momenti e l’irriconoscibilità di chi compie le azioni è allo stesso tempo una difesa contro la legge e una rivendicazione simbolica: non sono gesti individuali, attribuibili ad un volto solo, ma azioni rese possibili da quel momento di incontro.

Il processo per i fatti del Quai de Valmy serve proprio a smontare questa risonanza comune: individuare sette colpevoli, scelti tra persone già conosciute alla polizia. Sette volti a cui appioppare pene esemplari, per far dimenticare che in quelle manifestazioni tutt* quant* percepivamo la possibilità di rifiutare il regime poliziesco.

È proprio su questo punto che la strategia accusatoria interseca perfettamente la motivazione politica del processo. L’intero procedimento si basa su riconoscimenti approssimativi degli imputati, perché in ogni immagine i partecipanti all’azione sono completamente bardati. Nonostante questo, le identità vengono assegnate nella sentenza “al di là di ogni ragionevole dubbio”, anche grazie alla testimonianza anonima di un presente sul luogo, che sostiene di non aver mai perso di vista alcuni degli accusati. Questo testimone è, ovviamente, un altro poliziotto.

Eccole allora le 7 condanne esemplari: Leandro, 1 anno; Kara, compagna trans mantenuta in isolamento in un carcere maschile, 4 anni; Ari, 5 anni; Thomas, 2 anni; Nicolas, 5 anni; Antonin, 5 anni; Joachim 7 anni.

C’è un ulteriore livello di interpretazione a questa spettacolare risposta ai fatti del 18 maggio. Si vogliono soffocare le pratiche collettive di ingovernabilità, rendere inconcepibile uno slogan come “tout le monde déteste la police”. Se gli anni della crisi sono caratterizzati da un’estensione significativa delle politiche di controllo e polizia, da parte di chi governa c’è la necessità di normalizzare e naturalizzare questo stato di cose. Lo prova, ad esempio, il fatto che il sindacato di polizia Alliance Populaire sia stato riconosciuto come parte civile (i condannati dovranno risarcirlo per 5mila euro), estremizzando la contraddizione: i poliziotti sono contemporaneamente soggetto politico, soggetto leso in un’azione civile e tutori dell’ordine in uno stato d’emergenza ancora in vigore.

Per giustificare tutto questo, il discorso egemone tende sempre più a dipingere l’azione poliziesca come esterna al dibattito politico. In tutta Europa la narrazione e la gestione della sicurezza subiscono torsioni in questo senso. In Germania si sperimentano interpretazioni legislative capaci di chiudere alcuni siti internet di movimento e si affinano strumenti di repressione tra il legale e l’illegale per le proteste del G20 di Amburgo, in una sostanziale erdoganizzazione del panorama politico; anche la situazione spagnola può essere letta in questa chiave, nella precipitazione della crisi catalana Rajoy cerca di normalizzare una repressione violentissima in nome dello “stato di diritto” e della “democrazia”: l’obbiettivo è quello di schiacciare il significato di queste parole in senso democratico-costituzionale, impedire che la stessa parola democrazia, e l’agire “democratico” della polizia, divengano un campo di battaglia.

Infine, il caso italiano. Sulla torsione autoritaria della gestione Minniti, con l’attacco alle ONG attive nel mediterraneo, gli sgomberi di spazi autogestiti e occupazioni abitative, non c’è molto da aggiungere. Risulta però interessante rileggere l’intervista con cui qualche mese fa il capo della Polizia Gabrielli ritornava sui fatti di Genova 2001. Gabrielli tratteggia una polizia moderna, che in nome della sua recuperata efficienza può puntare alla fiducia della cittadinanza. In realtà, il tentativo è proprio quello di trasformare ogni critica alla polizia in una impotente critica all’efficienza e disciplina dei poliziotti [2]. Anche quando il riferimento si fa più preciso sulla gestione delle strade genovesi, l’obbiettivo non dichiarato è l’anomalia tutta italiana della contrattazione tra forze dell’ordine (rappresentanti dello Stato) e soggetti presenti in piazza. Insomma, per rendere l’imperativo della sicurezza sempre più capillare e i dispositivi di controllo sempre più normali, è necessario il vecchio ritornello paternalista (e patriarcale) che fa della polizia un soggetto super partes, tecnico.

Nelle motivazioni della sentenza il giudice parigino ha detto senza mezzi termini: “avete attaccato i poliziotti perché sono poliziotti, un po’ come qualcuno attacca i neri perché sono neri”. Eccola allora forse l’ultima chiave di lettura di questo processo, un doppio movimento di invisibilizzazione, che nasconde allo stesso tempo il ruolo politico dei discorsi securitari e la natura sistemica della violenza contro alcuni specifici soggetti. Molte delle pratiche che vediamo da due anni generalizzate al centro delle metropoli francesi (divieto di manifestazione, violenze arbitrarie, carcerazione preventiva indiscriminata, ecc.) sono da decenni sperimentate nelle periferie, in particolari su soggetti razzializzati, originari delle ex colonie, in un Paese che si fonda su una memoria coloniale volutamente oscurata [3].

Una storia fatta di violenze ma anche di incredibili e longeve resistenze, che negli ultimi due anni, in particolare dopo l’omicidio di Adama [4], hanno riconquistato moltissima visibilità e potenza.

Nel centro città la battaglia contro le violenze poliziesche si esprime quasi unicamente nella gestualità un po’ estemporanea dei cortei selvaggi, degli scontri, senza ancora la capacità di durare e riprodursi. Nelle banlieues, invece, questa lotta sopravvive in comitati di quartiere, nell’organizzazione delle famiglie, nel supporto collettivo a chi è ingiustamente arrestato (esemplare il caso di Bagui Traoré, testimone fondamentale nel processo sulla morte di Adama, detenuto in carcere con un’accusa palesemente costruita ad hoc). Criminalizzare il movimento del 2016 allora significa anche chiudere le brecce dalle quali la periferia poteva ritrovare degli accessi al centro della metropoli e contaminarne lo spazio politico.

Per tutti questi motivi, questo processo non riguarda solo i sette condannati, solo Parigi o solo la Francia.

Giustizia per Adama, Theo e Yassine.

Liberate Bagui Traorè!

Vogliamo Leandro, Kara, Ari, Thomas, Nicolas, Antonin, Joachim, LIBER*!

Mattia Galeotti

da DinamoPress

Note:

[1] L’état d’urgence è una disposizione speciale prevista nella costituzione francese, che fornisce poteri straordinari a prefetti e forze di polizia, permette perquisizioni ed arresti senza mandato in molte situazioni, nonché la limitazione del diritto di manifestazione. In vigore dagli attentati del 13 novembre 2015, lo stato d’emergenza doveva inizialmente durare tre mesi ma è stato ininterrottamente in vigore ed il neo-presidente Macron ha dichiarato di volerlo finalmente sospendere il primo novembre 2017.

[2] Interessante osservare che ad esempio il famoso funzionario che disse “spaccategli le braccia” durante lo sgombero di Piazza Indipendenza, è stato rimosso dall’incarico (causando la tristezza dei fascisti di Libero http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/13227324/sgombero-immigrati-via-curtatone-rimosso-agente-spezzategli-gambe.html ).

[3] In questi giorni ricorre un anniversario importante. Il 17 ottobre 1961 decine di migliaia di algerini manifestavano contro il coprifuoco anti-algerino instaurato dal prefetto di Parigi, il maresciallo Papon. La repressione fu durissima, circa 80 persone morirono, molte annegate nella Senna. Un crimine ancora non riconosciuto dallo stato francese. https://twitter.com/s_assbague/status/920177957628411905

[4] Sul caso di Adama. Ma i casi di omicidio tra le mani della polizia non si sono certo fermati. Inoltre, nell’ultimo mese è emerso il caso inquietante della morte di Yassine nella periferia di Aulnay-sous-Bois, in cui la famiglia non crede alla versione della polizia ed ha ottenuto la riapertura del fascicolo

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