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Oltre al No referendario. “Paese formale” – “paese materiale”

Potremmo votare giustamente e convintamente NO in decine e decine di referendum costituzionali, ma senza un attivazione reale a difesa dello stato di diritto, del diritto di resistenza e contro l’effettivo regime di polizia che ci circonda, l’esecizio del voto rischia di trasformarsi seriamente nella foglia di fico

Venerdì 18 settembre 2020. Mancano tre giorni al referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari ma, visto da qua, l’orizzonti della democrazia e dello stato di diritto non potrebbero essere più lontani.

Sinceramente c’ha appassionato pochissimo questo referendum che sembra la riedizione aggiornata di quello del 4 dicembre di quttro anni fa voluto da Renzi, e se anche oggi come allora, ci sono mille ragioni per votare NO (OXI in greco) non possiamo fingere che quattro anni dopo il problema non abbia compiuto un salto di scala.

L’austerità e le misure di impoverimento sociale che essa comporta con disinvestimenti programmati, privatizzazioni (sostantivo che deriva dal verbo privare) e con i denari che prendono il largo verso Grandi Opere (Ponte sullo Stretto) o megaeventi imposti manu militari sulle popolazioni, devono passare da una dimensione prettamente “emergenziale” ad una “costituzionale”.

Questo scrivevamo quattro anni fa e oggi il panorama non sembra essere troppo diverso. Stessa direzione (anche se in misura assai minore sia chiaro) dei vari progetti di riforma costituzionale in salsa P2 di Licio Gelli, avanzati prima dal governo Berlusconi poi dal governo Renzi, che le urne hanno già respinto rispettivamente nel 2006 e nel 2016.

Anche a questo giro si spera che il risultato possa essere lo stesso e ci recheremo alle urne convinti che un NO sia l’esercizio minimo, gratuito, di tutela di ciò che resta dello scheletro, della carcassa di una “democrazia parlamentare” spolpata da tanti, troppi anni di decisionismo d’accatto, dal populismo penale e da un emergenzialismo che di fatto hanno instaurato una “costituzione materiale” che ha scalzato e “picconato” definitivamente quella “formale”. (Avete presente i decreti sicurezza e la loro abolizione da parte del governo della “discontinuità”?)

E sinceramente, lasciatecelo dire, ci fa quasi sorridere con amarezza tutta l’enfasi con la quale comitati e vari gruppi per il NO stanno insistendo con argomentazioni totalmente fuori rotta quali il rispetto, la difesa della Costituzione, delle istituzioni e della “democrazia” quando fuori dalla “bolla” della cosiddetta società civile non c’è nessuno che non provi oggi una profonda sfiducia nelle istituzioni repubblicane o che non veda la carta costituzionale per quello a cui è stata ridotta, un pezzo di carta, o che trovi la “democrazia” come una pia illusione in un paese in cui ingiustizia e disuguaglianza non sono mai state così vaste.

E prima o poi ci accorgeremo, si spera, che le istituzioni repubblicane sono un prodotto marcio fino al midollo e che potremmo votare giustamente e convintamente NO in decine e decine di referendum, ma senza un attivazione reale a difesa dello stato di diritto e contro l’effettivo regime di polizia che ci circonda, l’esecizio del voto rischia di trasformarsi seriamente nella foglia di fico che nasconde una democrazia già da tempo evaporata altrove. Perché un paese nel quale il semplice utilizzo di un megafono fa paura e usarlo porta a 2 anni di carcere è già un regime nel profondo.

In questo strano settembre pandemico, parallelamente all’avvicinarsi di un referendum che non potevamo sentire più lontano, nel paese reale andavano in scena, in un crescendo d’intesità e di virulenza, le solite angherie e i soliti sopprusi di un sistema politico-sociale clinicamente infetto, democraticamente morto ma ancora dannatamente nocivo.

“Ce gouvernement, je le caractérise d’un mot : la police partout, la justice nulle part.”

Victor Hugo, 8 avril 1851.

Così, lontano dalle discussioni sul taglio dei parlamentari o su quanta dose di autoritarismo contenesse o meno questa riforma costituzionale, nel silenzio più totalitario dei media, dei costituzionalisti, degli intellettuali e dei sinceri democratici che oggi gridano allarmi per lo scempio e lo svilimento delle istituzioni, succedeva questo:

A Bolzano un sostituto procuratore, tale Andrea Sacchetti, domandava a un giudice del Tribunale della città, di condannare per 338 anni di carcere – ripetiamo 338 anni di carcere complessivi – 63 manifestanti scesi in strada al passo del Brennero, il 7 maggio 2016, per opporsi al cosiddetto muro anti-migranti annunciato all’epoca dal governo di Vienna e poi mai realizzato. Pene che vanno dai 15 anni ai 4 anni di carcere a persona, diminuite di un terzo per via della scelta del rito abbreviato, mentre il reato ipotizzato sarebbe ancora una volta quello di “devatsazione e saccheggio” – non si sa bene di che cosa – già utlizzato dallo Stato italiano per vendicarsi di quanti scesero in piazza in quella che è stata definita «la più grave violazione di diritti umani in un paese democratico dal dopoguerra», Genova 2001.

Perché a quanto pare vent’anni dopo ancora lì stiamo. Anzi è pure peggio perché per “devatsazione e saccheggio” intendiamo un articolo del Codice penale risalente al 1930, dunque al fascismo e a quel codice Rocco che è tuttora una delle fonti principali del diritto penale italiano oggi vigenti e maggiormente utilizzate per reprimere il dissenso politico.

Ma spostiamoci pure e da Bolzano scendiamo fino a Lecce dove, questo 11 settembre, nell’aula bunker vicino al carcere della città, è iniziato il maxiprocesso contro il movimento NoTAP che vede imputate e imputati 92 attivisti salentini che in questi anni si sono opposti alla devastazione del loro territorio. Le accuse sono quelle di manifestazione non autorizzata, violenza privata (per il blocco del transito dei mezzi di TAP), violazione dei foglio di via (il vecchio confino fascista), invasione di terreni privati e oltraggio semplice a pubblico ufficiale. Per questo genere di “reati” un semplice cittadino può finire processato in aule bunker solitamente utilizzate per processi di mafia, come spiegato molto bene pochi giorni fa su Carmilla:

L’utilizzo delle aule bunker per i processi ai movimenti fa ormai parte di una tradizione consolidata, inaugurata nove anni or sono dalla magistratura di Torino che scelse l’aula bunker del carcere delle Vallette per il dibattimento a carico di due sindaci della Val Susa, inquisiti per una manifestazione No TAV.
Una decisione finalizzata evidentemente ad equiparare i movimenti per la difesa ambientale e sociale alla lotta armata di quasi mezzo secolo fa ed alla criminalità organizzata di ieri e di oggi, a cui l’aula in questione era destinata.
Quei sindaci vennero assolti, ma la criminalizzazione rimase. […]

La contestazione più frequente, con buona pace dei diritti costituzionali, riguarda il reato di manifestazione non preavvisata, attribuito a soggetti responsabili di aver “sventolato bandiere ed esibito striscioni con la scritta No TAP” , “usato il megafono per lanciare appelli e slogan“, “usato un fischietto per attirare l’attenzione dei passanti“.

Alcuni sono accusati di violenza per aver tentato di impedire il transito delle autovetture di TAP stendendosi sul cofano col proprio corpo, o ponendosi di fronte alle macchine.

E’ questa, dunque, la violenza, per gli esegeti del codice penale.

Fra gli imputati di domani vi sono anche i 52 che il 9 dicembre 2017, dopo un corteo contro il gasdotto, raggiunsero a piccoli gruppi attraverso le campagne uno dei cancelli posti a delimitazione dell’area di cantiere di San Basilio (Melendugno), fermandosi ad intonare dei cori di protesta.

Sulla via del ritorno vennero inseguiti nei campi dagli agenti in tenuta antisommossa, con lanci di lacrimogeni e con l’elicottero della polizia di Stato che calava bassissimo sulle loro teste.

Vennero catturati, ammanettati e costretti in ginocchio fra pietre e rovi, con i cellulari requisiti per impedire che chiamassero gli avvocati, aggrediti coi manganelli ad ogni tentativo di protesta.

Una delle ragazze inseguite dagli agenti, che era caduta rompendosi una gamba, rimase a lungo senza soccorso. L’ambulanza del 118, giunta a San Basilio su chiamata di altri manifestanti, venne infatti bloccata al varco e respinta dalle forze dell’ordine, che poi si preoccuparono di portare la compagna non all’ospedale ma alla questura di Lecce.

All’interno della questura, gran parte dei fermati vennero chiusi per ore nelle celle di sicurezza senza poter andare in bagno per molto tempo.

Le donne venivano accompagnate fin sulla soglia dei bagni da agenti di sesso maschile, e una delle compagne ha avuto modo di denunciare insulti sessisti e omofobi giunti a suo carico.

Solo dopo ore di attesa sotto la pioggia battente, gli avvocati presenti vennero informati del fatto che tutti i manifestanti sarebbero stati rilasciati, e che nei loro confronti sarebbe stata formalizzata una denuncia a piede libero per i reati di riunione non preavvisata, inosservanza dei provvedimenti dell’autorità ed accensioni pericolose2.

Con queste accuse andranno domani a processo, dovendo affrontare la violenza di un giudizio che li vede sul banco degli imputati e non su quello delle parti lese e, prevedibilmente, l’ulteriore violenza dell’impunità riservata ai loro aggressori.

Inutile dire che le loro denunce per il trattamento subito rimangono ancora “in fase di indagine e a carico di ignoti”, perché nel Belpaese – come altrove – l’obbligatorietà dell’azione penale è uguale per tutti, ma per qualcuno è più uguale che per altri.

Mentre per attivisti e attiviste il processo è iniziato nell’aula bunker in prossimità del carcere di Lecce, per i 19 imputati della società TAP AG e delle aziende esecutrici dei lavori accusate di devastazione ambientale, costruzione abusiva e violazione dei vincoli ambientali e paesaggistici, le udienze si terranno presso il “normale” Tribunale di Lecce.

Insomma per reati ambientali come la “contaminazione della falda acquifera – nell’area di Conci del cantiere di San Basilio – con sostanze pericolose, tra le quali il cromo esavalente” (fra l’altro sul banco degli imputati siede anche Michele Mario Elia, ex Country Manager di TAP e già accusato per la strage di Viareggio del 2009) si viene processati presso il Tribunale di Lecce mentre per “manifestazione non preavvisata” si finisce nell’aula bunker della città.

Ora, risaliamo per un’attimo la penisola fino a Roma, rimanendo però fermi esclusivamente a questi primi giorni di settembre per scattare un’istantanea abbastanza precisa circa le dimensioni e la schizofrenia che può assumere la repressione oggigiorno in Italia.

Due anni fa hanno cantato una parodia della celebre canzone Azzurro di Adriano Celentano e adesso rischiano di andare a processo per istigazione a delinquere. Pena prevista: da uno a cinque anni. Sembrerebbe uno scherzo, invece è tutto vero. La surreale accusa è stata mossa contro sei attivisti dei movimenti romani per il diritto all’abitare.

I fatti risalgono a una manifestazione davanti alla Regione Lazio del 13 ottobre 2018. Nel capo di imputazione il pubblico ministero Erminio Amelio afferma che «mediante l’utilizzo di microfono e di adeguato sistema di amplificazione posto su un furgone in testa al corteo di manifestanti, incitavano i presenti alla commissione di delitti e segnatamente a violazioni di domicilio ed occupazioni abusive di edifici»

Stavano cantando una parodia d’Azzurro di Adriano Celentano.

«È un processo paradossale – afferma Romeo – Attraverso un residuato del Codice Rocco, l’articolo 414 del Codice penale, si vuole reprimere una libera manifestazione del pensiero in senso ironico. Questo è il dato di fatto. La Procura ha interpretato la norma in senso regressivo. La Corte costituzionale e tutte le sentenze successive sostengono invece che per l’istigazione a delinquere ci deve essere un nesso di immediatezza tra dichiarazione e commissione di reato. Per esempio Erri De Luca disse che bisognava “sabotare la Tav” ma poi fu assolto proprio perché mancava quel nesso di immediatezza».

Ancora il Codice Rocco che ritorna e che da novant’anni – dalla dittatura – non è mai andato via, ma sicuramente la svolta autoriataria nel paese deriva esclusivamente dal taglio del numero degli yes-man che siedono oggigiorno in parlamento.

Sempre l’11 settembre – lo stesso giorno in cui a Lecce iniziavano le udienze per processo ai NoTap – a Nuoro, in Sardegna, veniva organizzato un sit-in in solidarietà al rapper Bekis Beks raggiunto da un decreto penale di condanna per aver espresso, a parole, in una sua canzone, tutta la sua contrarietà alla presenza dei poligoni militari in Sardegna: «non c’è tempo per mediazioni – indennizzi – conciliazioni – questo è un messaggio ai coloni – basta, fuori dai coglioni!».

Solo per aver espresso queste parole oggi in Italia si può essere raggiunti da un decreto penale di condanna e finire sotto processo ma difficilmente sentirete qualche politico di professione, qualche rappresentante delle istituzioni, della società civile, qualche giornalista o qualche tribuno del #bastapopulismo a casaccio parlare apertamente di repressione, perché questa solitamente colpisce soprattutto chi lotta, chi non ha altri mezzi se non la propria voce e quella dei propri compagni per farsi ascoltare, chi fa politica dal basso “per” e “a” tutela del territorio e dei più deboli ma anche chi lavora e manda avanti qutodianamente i principali ingranaggi della società e per questa (così come per il Codice Rocco o per i decreti sicurezza) non ci sarà mai nessun referendum per sancirne l’abrogazione.

Ora veniamo rapidamente al contesto che conosciamo meglio, quello a noi più vicino: Modena.

Anche a Modena, così come in Val Susa e in Salento, dove sono attivi movimenti a tutela del territorio e della popolazione che lo abita, i maxiprocessi non vengono instaurati per processare associazioni mafiose o le grandi speculazioni bensì i lavoratori che lottano per i propri diritti e per quelli di tutti gli altri.

Per avere un’idea della repressione vigente oggi in Italia, in questo mese di settembre, delle sue dimensioni, e del suo carattere profondamente unilaterale nella sola Modena:

Sono 458 i procedimenti penali imbastiti a Modena dal 2017 ad oggi contro i Si Cobas. Oltre a 12 fogli di via e al blocco delle pratiche di cittadinanza per decine di operai che hanno protestato.

Mentre solo per le vertenze Italpizza e Alcar Uno (azienda alla quale, nel marzo scorso, la Guardia di Finanza ha contestato una maxievasione da 80 milioni di euro!) si conteranno più imputati fra i lavoratori dell’inchiesta Aemilia, il più grande processo contro l’Ndrangheta del Nord Italia. Come descritto magistralmente da Giovanni Iozzoli ancora una volta su Carmilla:

C’è l’Italia, in quelle carte della Procura di Modena. L’Italia che non compare mai nei tiggi, l’Italia profonda, della provincia estrema, dove sembra che non accade mai niente e invece sta succedendo tutto. Tante volte la lettura delle carte giudiziarie ha raccontato questo paese, meglio di giornalisti e scrittori; basti ricordare proprio gli atti del processo Milani, in cui poche intercettazioni fulminanti, finite sui giornali, spiegavano senza equivoci che tipo di rapporto intercorre tra i vertici delle aziende e quelli di certe questure italiane. Raccontare in modo spietato e dolente il presente di un paese mai così livido, cupo, diviso: siamo sicuri che i maxiprocessi di Modena assolveranno egregiamente a questa funzione.

Tra cent’anni, gli storici del futuro rileggeranno questi “avvisi di fine indagine” e cercheranno di capire quale pericolo criminale incombesse nella terra dei motori e del lambrusco, per organizzare processi così maniacalmente persecutori; si chiederanno chi fossero queste centinaia di imputati, perché meritassero tante attenzioni, quale pericolo sociale incarnassero, a quale scandalo avessero dato corpo, per meritare un simile sforzo delle legittime autorità. Sì, quale scandalo? Vallo a raccontare ai posteri. La colpa di quei reprobi è stata quella di aver dato visibilità alla condizione operaia oggi; l’aver reso pubblico quello che tutti – ispettorati, sindacati complici, amministratori, magistrati, economisti – sapevano e fingevano di ignorare. Con la loro iniziativa, hanno rivelato che nei primi vent’anni del Ventunesimo secolo, il miracolo del manifatturiero emiliano – arrambante ed esportatore – ha prodotto dipendenti precari, poveri, ricattati, nell’illusione che la “competitività” si potesse fare ormai solo giocando sulla condizione e i costi della forza lavoro.

Lo scandalo è aver scoperchiato un pentolone di cui nessuno voleva sentire l’odore; perché gli insaccati sono saporiti ma guai a guardarci troppo dentro: agli ingredienti come ai rapporti di lavoro.

Non a caso di tutto questo in città non si parla, al massimo lo si sussurra nei trafiletti della Gazzetta ben infilati lontani dalle prime pagine e nascosti il più possibile per non turbare o catturare la vista del lettore.

Un po’ come lo spazio riservato alla richiesta d’archiviazione (oltre a un decreto penale di condanna per il denunciante) della Procura della città circa la denuncia per tortura presentata poco tempo fa da un sindacalista del SiCobas in seguito al suo arresto e all’irruzione della polizia dentro a una sede sindacale della città avvenuta il 28 maggio scorso.

Una vicenda estremamente inquietante della quale si erano interessate direttamente anche due deputate modenesi (sempre a proposito del taglio dei parlamentari e perché è suggeribile andare a votare No) che viene liquidato con un trafiletto a piè di pagina sul principale organo d’informazione cittadino.

D’altronde la Val Susa insegna e documenta: “centinaia di denunce e procedimenti penali avviati nei confronti di attivisti e simpatizzanti del Movimento Notav, anche e soprattutto per reati bagatellari, trovano immancabile sbocco in processi e sentenze, mentre le decine di querele, denunce ed esposti per gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine, anche gravemente lesivi dei diritti e dell’incolumità dei manifestanti, non sono mai giunti al vaglio di un processo.”

Il documentario “ARCHIVIATO. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa” affronta dunque il delicato tema della tutela giudiziaria delle persone offese dai reati commessi dagli agenti e dai funzionari appartenenti alle varie forze dell’ordine e per farlo si avvale di immagini e documenti, per lo più inediti.

Perché, a quanto pare, in città così come in Val Susa o a San Foca di Meledugno, chi lotta per la giustizia non ha diritto ad essere difeso mentre chi sfrutta o devasta il territorio attraverso il denaro si trasforma in parte lesa.

E che dire della recente decisione della Questura di Modena di vietare, ancora una volta (era già successo nel febbraio 2017 e si è ripetuto anche quest’annoa Prato), la piazza per la manifestazione nazionale del 3 ottobre contro la repressione indetta dal sindacato SiCobas proprio in città? In Italia sembra che ormai possano manifestare “legalmente” solo i Salvini, i fascisti a lui vicini, gli esponenti del governo e la polizia.

Forse dunque oltre al referendum, se veramente si hanno a cuore le sorti della democrazia e dello stato di diritto in questo paese, occorrerebbe anche scendere in piazza senza indugi il 3 ottobre a Modena, sincronizzando la necessaria solidarietà agli imputati con una forte richiesta sia di depenalizzazione delle forme più basilari di partecipazione politica e democratica sia di depotenziare quei dispositivi polizieschi e repressivi che in Italia, così come ovunque, stanno assumendo sempre più le dimesioni di un vero e proprio regime.

Ancora una volta proviamo ad importare ed apprezzare quanto di buono arriva da oltreoceano…

#abolishthepolice

da Militantduquotidien

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