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No, “abbellire” i Decreti Sicurezza non basta a lavarci la coscienza da questi anni di disumanità

Il 5 ottobre il Consiglio dei Ministri ha emanato il nuovo Decreto sull’Immigrazione che è stato accolto in modo trionfale come una sconfitta del Decreto Sicurezza voluto dall’ex-ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, ha infatti affermato: “Approvato ora in Consiglio dei Ministri il decreto immigrazione. I decreti propaganda/Salvini non ci sono più. Vogliamo un’Italia più umana e sicura. Un’Europa più protagonista”. Tuttavia, parlare di abolizione o di sconfitta del Decreto Sicurezza è fuorviante perché, di fatto, si è trattata semplicemente di una modifica a quest’ultimo: se da un lato alcuni cambiamenti e delle modifiche del Decreto possono sembrare passi avanti, dall’altro bisogna tener presente che attualmente la questione migratoria è ben lontana sia dall’essere risolta che dal poter essere considerata all’altezza del rispetto dei diritti umani.

Tra le modifiche più importanti in materia di richiesta di asilo ci sono quelle inerenti all’introduzione della protezione speciale, simile a quella umanitaria, e all’iscrizione anagrafica. Nel primo Decreto Sicurezza, la protezione umanitaria era stata cancellata, portando i cittadini stranieri che ne avevano fatto richiesta – o che ne avrebbero avuto diritto – a vivere nell’irregolarità e nella marginalità sociale. Infatti, restringendo i casi per cui è possibile concedere la protezione umanitaria – che si otteneva per “seri motivi” di salute o di età, carestie e disastri ambientali o naturali, assenza di legami familiari nel Paese d’origine, essere vittime di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza o di insufficiente rispetto dei diritti umani – un gran numero di migranti non poteva regolarizzare il proprio soggiorno in Italia. Con la nuova protezione speciale, non solo viene ribadita l’importanza del rispetto del principio di non-refoulement (di non respingimento) nei confronti di chi rischia di subire trattamenti inumani o degradanti, o di chi rischia la vita nel proprio Paese di origine (sancito dall’Articolo 33 della Convenzione di Ginevra) ma anche “nei casi in cui il rimpatrio determini il rischio di una violazione del diritto alla vita privata e familiare”. L’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo è un altro elemento che era stato precedentemente cancellato dal primo Decreto Sicurezza – successivamente giudicato incostituzionale dalla Corte Costituzionale – e che è stato ripristinato dal nuovo decreto. La mancata iscrizione anagrafica, infatti, portava i richiedenti asilo a non avere alcun tipo di accesso ai servizi – causando quindi un’incostituzionale disparità di trattamento.

Se da un lato questi cambiamenti sembrano enormi passi avanti, in realtà si è semplicemente tornati alla situazione pre-Decreto Sicurezza e in sostanza per le persone migranti, e per la  mobilità internazionale tutta, poco cambia. Il problema si trova a monte: sebbene sia importante garantire diverse fattispecie di protezione per garantire il permesso di soggiorno a chi ha diritto all’asilo, è anche vero che le Commissioni Territoriali che si occupano di tali procedure tendono soprattutto a rigettare le richieste perché, se ci sono persone che cercano di allontanarsi da situazioni di instabilità politica, torture o trattamenti inumani e degradanti, dall’altra – ed è una grossa fetta di persone di cui non ci si occupa affatto – ci sono anche persone che vogliono semplicemente godere del diritto alla libertà di movimento. Le fattispecie per cui le Commissioni Territoriali possono concedere la protezione sono restrittive e spesso passano sotto esame persone costrette a fare richiesta di asilo, non necessariamente perché perseguitate o vittime di guerra, ma perché non vi è altro metodo legale per entrare in Italia, e in ultima analisi in Europa. La conseguenza è che le probabilità di rigetto sono alte.

Nel 2018, ad esempio, il diritto di asilo è stato negato a sei migranti su dieci. Il problema è che si pensa di risolvere la questione focalizzandosi sulla gestione interna dell’immigrazione con un approccio securitario più che puntare a leggi che rispettino i diritti e le libertà degli individui. Come spiega il giornalista olandese Maite Vermeulen, che si occupa di migrazioni per De Correspondent, facendo un esempio su un caso di richiedenti asilo nigeriani “[…] Dei 40mila nigeriani che hanno presentato richiesta di asilo nel 2017, il 91% è stato rifiutato. In pratica non hanno possibilità. Ma i nigeriani continuano a fare richiesta di asilo, per il semplice fatto che non hanno altra scelta. Non esistono visti di lavoro che possono richiedere. Così rischiano la vita in una traversata pericolosa e tentano la fortuna, finendo per sovraccaricare il sistema. E i nigeriani non sono certo gli unici: da anni, ormai, più della metà delle richieste di asilo in Europa viene respinta”.

Come sappiamo, se si è nati nei Paesi dell’Unione Europea o negli Stati dell’America del Nord, per fare due esempi, si ha un passaporto potente che permette di spostarsi ovunque nel mondo. Se si proviene dai Paesi del Sud non è propriamente la stessa cosa – come viene riportato chiaramente nella ricerca Henley Passport Index and Global Mobility Report. Viviamo in un mondo in cui le disuguaglianze globali si riflettono proprio nella possibilità o meno di potersi spostare: uno dei problemi principali – come viene ampiamente spiegato, tramite le voci degli stessi migranti, dal rapportoScaling Fences” del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) – è la chiusura dei canali legali per entrare in Europa, che continua ad apparire sempre più come una fortezza che costruisce frontiere e hotspot ai suoi confini, in cui le persone vivono in condizioni disumane, come nel caso di Moria, in attesa probabilmente di un diniego di accesso e magari dello spostamento in qualche centro di detenzione.

Secondo la ricercaCan regular replace irregular migration across the Mediterranean?” – effettuata dal Centre for European Policy Studies (CEPS) – ai cittadini africani, da parte degli Stati membri dell’Unione, tra il 2010 e il 2011 sono stati dati 60mila permessi in meno per lavoro e per studio; tra il 2010 e il 2016 la concessione di permessi è stata ridotta di 90mila unità. Questo è il circolo vizioso che poi porta molte persone a tentare di spostarsi per altre vie, mentre assistiamo all’ennesimo capovolgimento di un gommone. Senza contare, tra le altre cose, che al contrario di come viene influenzata la nostra percezione da chi urla all’invasione, secondo una ricerca effettuata dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), meno del 3% della popolazione del continente africano vive in un Paese che non sia quello di origine.

A ciò si aggiunge che il nuovo Patto sull’Immigrazione emanato dalla Commissione Europea non tocca nemmeno questo tema, anzi, introduce una nuova tecnica che fortifica questo metodo securitario, la return sponsorship: se uno Stato membro  decide di non contribuire al ricollocamento di migranti sul proprio territorio, può contribuire economicamente al rimpatrio di questi ultimi. Un approccio completamente disumanizzante che non solo inquadra i e le migranti come semplici “pacchi” da ricollocare o da spedire da qualche altra parte, ma che, di nuovo, non è lungimirante nell’approccio con le migrazioni. Si tratta di una solidarietà di facciata, basata sui respingimenti invece che sulla condivisione di responsabilità e sul rispetto dei diritti umani. Un esempio lampante di tutto questo è l’esternalizzazione delle frontiere tramite gli accordi – che vedono come protagonista proprio l’Italia – con Paesi terzi come la Libia, per cui si preferisce trattare con autorità che torturano migranti in centri di detenzione, purché contengano i flussi migratori verso l’Europa.

L’entusiasmo di chi ha fatto salti di gioia per il “Decreto Sicurezza che non esiste più” – cosa non vera, ribadiamo, poiché ne rimane l’impianto – si inserisce in questo contesto in cui, in Italia, abbiamo ancora il Decreto Minniti e la legge Bossi-Fini. Il primo condanna chi migra nei centri di detenzione in Libia, la seconda chi migra, o chi si trova già in Italia come cittadino straniero, a vivere nel limbo dell’irregolarità, con presunte sanatorie che di fatto non funzionano, rischiando peraltro di finire nel circolo vizioso dello sfruttamento. Infine, con il nuovo Decreto sull’Immigrazione non si parla neanche di eliminare il sistema dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR): “la novità” è che i tempi massimi di trattenimento passano da 180 a 90 giorni, ma poco cambia per i detenuti che si trovano in quelle che sono vere e proprie carceri per il solo fatto di non essere in possesso di documenti. Di recente è stato aperto un nuovo CPR a Milano, in Via Corelli, nonostante le ripetute denunce di violazioni dei diritti umani che puntualmente avvengono da parte delle forze dell’ordine: che nel 2011 perfino la Corte di Giustizia Europea abbia stabilito che è vietato trattenere una persona per irregolarità o che l’Articolo 13 della Costituzione vieti la detenzione e la restrizione della libertà personale in assenza di un atto giudiziario motivato, poco importa. Inoltre, rimane la criminalizzazione delle ong e per l’ottenimento della cittadinanza per residenza o matrimonio nulla cambia. Anche in questo caso, la novità risulta essere una beffa: se con il Decreto Sicurezza precedente i tempi per concludere le pratiche – trascorsi almeno 10 anni di residenza – erano aumentati da due a quattro, ora sono passati da quattro a tre. A ciò si aggiunge il fatto che “il nuovo termine si applica solo alle domande presentate dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto. Non è quindi retroattivo”, come spiega la giornalista Eleonora Camilli su Redattore Sociale.

In tutto questo entusiasmo che sa di ipocrisia, Abou Dakite, un ragazzino di origine ivoriana di 15 anni è deceduto all’ospedale di Palermo dopo aver trascorso quindici giorni sulla nave-quarantena Allegra (una delle tante navi-quarantena di cui sono già state ampiamente denunciate le condizioni di permanenza). Tutto questo a causa del rispetto, improvvisamente accurato, delle norme anti-Covid, nonostante il ragazzo fosse visibilmente già in gravi condizioni e avesse sul corpo segni di tortura. La sua tutrice, Alessandra Puccio, afferma che dimostrava gravi sintomi di disidratazione e denutrizione dovuti al viaggio, ed è proprio questo il punto: una persona non deve essere costretta ad affrontare viaggi del genere perché non ha possibilità di scelta o per un visto negato. Il Decreto Sicurezza va abolito, non abbellito, così come vanno abolite le leggi disumane che mantengono intatta una struttura classista basata sul principio della libertà solo per pochi.

Oiza Q. Obasuyi

da The Vision

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