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«Io, nelle prigioni di Erdogan per lesa maestà…»

Le memorie difensive dello scrittore Ahmet Altan, arrestato dopo il fallito golpe del 2016. È stato accusato di aver diffuso imprecisati “messaggi subliminali” a favore dei golpisti durante un’apparizione televisiva in un talk- show

«Il pubblico ministero non si preoccupa nemmeno del fatto che le sue bugie vengano smascherate così presto, perché per lui non è importante che le sue affermazioni siano vere o meno. Quello che è importante per lui è tenerci in galera. È convinto che tali bugie saranno sufficienti, e in effetti grazie a loro è riuscito nel suo intento. Ecco a che punto è arrivata oggi la legge in Turchia».

Le parole dello scrittore turco Ahmet Altan, arrestato insieme a migliaia di altre persone in seguito al fallito colpo di Stato in Turchia del 15 luglio 2016, si levano alte e indignate contro un sistema giudiziario malato e connivente con il governo di Recep Tayyp Erdogan, che in seguito al tentato golpe ha ulteriormente rinsaldato il proprio potere personale, divenuto pressoché illimitato dopo la vittoria del referendum del 16 aprile dell’anno scorso – che gli permise di approvare una riforma della Costituzione in senso presidenzialista – e quella al primo turno delle elezioni presidenziali con il 52,5 % dei voti, che gli assicurò un nuovo mandato fino al 2023.

La memoria difensiva dello scrittore, il suo indignato j’accuse, è raccolta nel pamphlet Tre manifesti per la libertà ( Edizioni e/ o), introdotta da una lettera aperta di 51 Premi Nobel che chiedono il rilascio dei tanti giornalisti turchi incarcerati.

Ad “un sistema giudiziario sul letto di morte”, asservito alle logiche del partito al potere e, in particolare, atto ad oscurare e strumentalizzare la verità sul colpo di Stato – «L’AKP [ Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Ndr.] e i suoi pubblici ministeri stanno approfittando del tentato golpe del 15 luglio, che Erdogan ha definito una benedizione divina» – fanno eco altri comparti della società turca, vacillanti e corrotti, come il Parlamento, l’economia, la politica estera, la pubblica istruzione, il sistema sanitario, l’esercito e l’informazione veicolata dai quotidiani filo- governativi, «elefantiache prostitute del bordello delle idee». Per chi non si allinea si schiudono le porte del carcere, come per le migliaia di magistrati, avvocati, militari e docenti universitari, oltre ai 13 deputati del partito curdo Hdp, dietro le sbarre per presunti legami con il PKK.

L’atto d’accusa analizzato da Altan si dimostra quantomai risibile: «Si ritiene che noi conoscessimo degli uomini accusati di conoscere gli uo- mini accusati di essere a capo del colpo di Stato». Ciò sulla scorta di tre articoli di giornale – il quotidiano Taraf, da lui diretto fino al 2012 – e di un’apparizione televisiva in un talk- show condotto da Nazli Ilicak e Mehmet Altan, occasioni in cui avrebbe diffuso “messaggi subliminali” in favore del colpo di Stato del 15 luglio. Particolarmente ricorrente l’imputazione di fiancheggiare il network Feto di Fethullah Gülen – ex- imam auto- esiliatosi negli Stati Uniti, considerato mandante occulto del golpe – in base, puntualizza l’autore, «alle affermazioni di un testimone inattendibile e totalmente disonesto, che già in precedenza ho smascherato come bugiardo».

A venire osteggiata è, in ultima istanza, la possibilità di una coscienza critica che si scagli con fermezza contro chi detiene il potere e ne smascheri vizi e incompetenze: «non c’è più libertà di pensiero in questo paese, – osserva amareggiato – a parte quella del pubblico ministero di raccontare bugie». Diventa quindi proibito affermare che Erdogan ha violato la Costituzione e ogni tipo di legge o asserire che quando un governo «tenta di servirsi dell’esercito per mantenere in vigore le proprie pratiche oppressive, avviene un colpo di Stato».

«Criticare un politico – argomenta – non è golpismo. Erdogan è un politico: un politico che ha compiuto di gran lunga troppi errori negli ultimi cinque anni. È ovvio che venga criticato». O almeno, così dovrebbe essere.

L’accusa che maggiormente suscita lo sdegno e il furore dello scrittore è, tuttavia, quella di aver attaccato l’operato dell’AKP sotto prescrizione altrui, di aver subordinato la propria libertà critica a condizionamenti esterni. «Ciò che mi fa infuriare – confessa – è che il publico ministero afferma che io avrei criticato l’AKP perché “qualcuno” mi aveva ordinato di farlo. Dovrebbe vergognarsi a dire una cosa del genere. Sono trentacinque anni che scrivo sui giornali di questo paese. La mia linea politica non si è mai spostata nemmeno di un millimetro. Sostengo chiunque esiga democrazia e uno stato di diritto e critico tutti coloro che si oppongono alla democrazia e allo stato di diritto».

Orlando Trinchi

da Il dubbio

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