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Morte a Trieste

Valutazione del rischio, infermità mentale e altre questioni che bisognerebbe affrontare con grande serietà

Come per i morti sul lavoro, anche in situazioni drammatiche come quella di Trieste (si tratta anche in questo caso di morire sul lavoro) la reazione delle istituzioni è la solita: si va dal “cordoglio” più o meno sincero alla promessa “mai più”. Abbiamo già visto che oltre all’ormai consueta dose di insulti, di luoghi comuni o magari di “vendette” rimane quasi nulla.

La violenza è una delle possibili condotte umane; tentare di inquadrarla in stereotipi serve solo a strumentalizzazioni politiche. Chi come noi si è formato alla scuola di Giulio Maccacaro, Franco Basaglia o Giorgio Antonucci ha riflettuto a lungo sul nesso fra violenza e cosiddetta “malattia mentale”. Uno dei testi su cui ci siamo formati è «Per infermità mentale» di Thomas Scheff (uscì da Feltrinelli in una collana che non a caso si chiamava Medicina e potere). In sintesi: la condotta violenta non è peculiare del “paziente psichiatrico”; la violenza che il paziente psichiatrico agisce più frequentemente è solo quella auto diretta. Detto questo, è ovvio, sarebbe un errore ricadere nello stereotipo opposto e pensare che il “paziente psichiatrico” viceversa non possa mai commettere gesti violenti. Il problema è dunque , per i lavoratori della polizia, la corretta “valutazione del rischio”.

A seguito della morte a Trieste degli agenti Pierluigi Rotta e Matteo Demenego abbiamo sentito parlare di problemi molto gravi: sistemi si sicurezza inadeguati e mancata fornitura di giubbotti anti-proiettile. Sarebbe come non fornire maschere antigas agli operai chimici. Queste lacune – se verranno confermate – si configurano come vere e proprie omissioni di misure di sicurezza da parte del datore di lavoro.

Sono decenni che tentiamo di fare arrivare un messaggio ai lavoratori della polizia penitenziaria (i due giovani deceduti a Trieste appartengono a un altro corpo ma il discorso non cambia): la valutazione dei rischi e delle misure di prevenzione deve essere affidato a un organismo autonomo dal datore di lavoro ma con poteri di disposizione e prescrizione !

Almeno questa volta e almeno con il sindacato Siulp (ma va bene con tutti) riusciremo a parlarci? Non ci siamo riusciti a Bologna nel 2017, quando si verificò un “suicidio” in questura che tuttavia mostrò lacune enormi nel sistema di prevenzione: proviamoci adesso.

Per evitare che le contraddizioni e i conflitti nel nostro Paese finiscano in stragi e sparatorie (oltre a Trieste dobbiamo pensare a quella di Genova nel corso di un Tso, dove un “paziente” fu ucciso con 6 colpi di pistola ) occorrono confronto, dialogo e tanta formazione in un Paese i cui ancora sopravvivono suggestioni lobrosiane, soprattutto servono valutazione del rischio, intelligenza critica e senso di umanità.

Io considero l’evento di Trieste un vero lutto per tutti; due giovani trentenni morti (le cronache dicono che uno di loro aveva da poco salvato un’adolescente da un proposito di suicidio) e un ferito, numerose famiglie devastate e distrutte. Sono addolorato ma la mia commozione non deriva solo da quello che Pasolini disse dei “poliziotti”. Mi deriva dal ricordare decine di giovani del mio paese d’origine – più sfortunati di me perché di famiglie più povere – scegliere (per la verità non tanto entusiasticamente) carriere in divisa, sfidare rischi e pericoli non potendo accedere a professioni più gratificanti e più remunerate.

Parliamone: i fiori, anche quelli “sinceri” non bastano mai.

Vito Totire  psichiatria e medico del lavoro

da La bottega del Barbieri

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