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Morire in Irlanda per mano della polizia

L’uccisione di George Nkencho e il dibattito sul razzismo istituzionale

George Nkencho è morto a 27 anni sulla porta di casa, il 30 dicembre 2020. A ucciderlo sono stati sei colpi di pistola sparati da un membro dell’unità speciale di supporto armata della polizia irlandese (ASU). Il tutto è accaduto a Blanchardstown, grosso centro della periferia ovest di Dublino, sede di alcune delle multinazionali che hanno alimentato il boom della Tigre Celtica, quali eBay e Paypal. Blanchardstown è anche l’area a maggiore densità di stranieri nella Repubblica d’Irlanda.

Le circostanze della morte di George Nkencho hanno sollevato proteste tra le comunità di origine africana a Dublino e nel resto del paese. Per diversi giorni ci sono stati sit-in davanti alla locale stazione di polizia, e veglie notturne (pur nel rispetto delle normative anti-Covid). Ma il tragico evento ha anche riaperto un dibattito, mai risolto, sul razzismo istituzionale nella Repubblica d’Irlanda, e sul discorso pubblico attorno all’immigrazione. Ovviamente, si tratta di questioni non esclusive dell’isola, ma di problemi che attraversano tutte le società occidentali, e particolarmente quelle europee. Tuttavia, in quella che fu la prima colonia dell’impero britannico, e il centro di una lunga battaglia anti-imperialista che ha attraversato il ventesimo secolo, la questione del razzismo assume toni speciali, forse unici.

Una premessa. Questa è, anche, una storia personale, legata un periodo significativo della mia vita. Tra il 2008 e il 2012 ho vissuto in Irlanda, dove ho completato un dottorato in media e studi interculturali. Ho conosciuto George. Ho trascorso molto tempo con lui e i suoi amici, tutti membri di una squadra di calcio composta solo da ragazzi immigrati, Insaka AFC. Le riflessioni che seguono intrecciano osservazioni dirette della mia ricerca etnografica a considerazioni sui processi di razzializzazione delle comunità immigrate, soprattutto i giovani, e particolarmente i giovani con la pelle scura.

Dopo aver lasciato l’Irlanda alla fine del mio dottorato, sono rimasto in contatto con alcuni di questi ragazzi. Tra il 2017 e il 2018 sono tornato ad incontrarli per raccogliere delle testimonianze a posteriori su quel periodo della loro vita che avevo in qualche modo accompagnato da osservatore/partecipante. Nel 2019 ho pubblicato un libro che raccoglie i due tempi della mia ricerca, Youth Sport, Migration and Culture: Two Football Teams and the Changing Face of Ireland.

Al tempo del mio ritorno in Irlanda, la vita di George aveva seguito una direzione diversa da quelle dei suoi amici e compagni. Mentre alcuni riprendevano la via dell’emigrazione, spostandosi a Londra, in Canada, o in Belgio (alcuni seguendo le famiglie o da soli, appena raggiunta la maggiore età), e altri mettevano su famiglia, George entrava in un tunnel interiore dall’uscita incerta, improbabile. Un viaggio solitario che lo allontanava da tutti. Al momento della sua morte, George era una persona con disturbi psichiatrici, già noto ai servizi sociali e sanitari. È questo uno dei fatti che hanno scosso molte persone, e fatto riflettere parte dell’opinione pubblica irlandese. Come è possibile che un corpo di polizia notoriamente disarmato, che allerta le unità speciali solo in situazioni ad alto rischio, possa mobilitare una dozzina di poliziotti per un uomo solo, un uomo malato, e finire per ucciderlo a colpi di pistola sull’ingresso di casa sua?

Quello che sappiamo è basato sulle dichiarazioni della polizia e sui resoconti dei mezzi di informazione. Quel giorno George, un uomo corpulento, alto un metro e ottantacinque, si era recato nel supermercato a dieci minuti da casa sua. Qui aveva avuto un diverbio con il manager dell’Eurospar, un uomo irlandese bianco, che aveva spinto facendolo cadere. Quest’ultimo aveva chiamato la polizia, che era arrivata poco dopo. In quel frangente, George aveva in mano un coltello, un coltello che teneva con sé per difendersi, per paura di essere attaccato, come era successo in passato a lui e ad altri ragazzi neri di Dublino.

Alla vista dei poliziotti, George si incammina rapidamente verso casa. I poliziotti lo seguono a distanza, alcuni a piedi, altri in auto. Nel frattempo allertano l’unità speciale. George raggiunge la casa dove vive con i genitori, due sorelle e un fratello minori. Bussa alla porta, gli apre una sorella. Alla vista di tanti poliziotti lei urla: “Aspettate, lasciatelo stare, è malato”. I poliziotti le intimano di chiudere la porta e, secondo quanto riportato da varie fonti, provano a sedarlo con il taser e lo spray, ma senza successo. Qui il racconto si fa incerto, e un video ripreso dal telefonino di un passante aggiunge più ombre che luci. Quanti minuti passano prima degli spari? Pare che due poliziotti abbiano avvicinato nuovamente George per disarmarlo, e che lui abbia reagito tentando di aggredirli. Poi sono partiti i colpi. Appena 20 minuti trascorrono dal momento in cui la polizia riceve la chiamata del manager dell’Eurospar alla morte di George Nkencho.

Perché si è arrivati a questo? Non si poteva gestire la cosa diversamente, viste le condizioni mentali del giovane uomo e la presenza dei familiari? C’entra qualcosa il fatto che George fosse nero, un immigrato africano? Queste ed altre domande sono ora sul tavolo di una commissione indipendente, chiamata a chiarire l’accaduto. Le uccisioni da parte della polizia sono rarissime in Irlanda (6 negli ultimi 22 anni) e da più parti si solleva la questione della formazione inadeguata del personale e del pregiudizio razziale.

In memoria di Toyosi, giugno 2011 (Max Mauro)

In Pelle nera, maschere bianche Frantz Fanon riflette sulla condizione di salute mentale in paesi coloniali e post-coloniali, evidenziando l’incapacità, o la non-disponibilità, della maggioranza dominante di comprendere e riconoscere il disagio delle parti oppresse. Le sue analisi non sono fuori luogo in questo caso. Secondo Lucy Michael, sociologa irlandese componente della Human Rights and Equality Commission, il pregiudizio razziale (racial profiling) è un fattore chiave da considerare nella morte di George Nkencho.

La tragedia è diventata presto un caso nazionale, ma non, almeno al principio, per le ragioni suddette. Le prime pagine dei giornali parlavano di un malvivente (thug) immigrato che aveva tentato di derubare un supermercato e accoltellato una guardia. Sui social media il coltello è diventato un machete, e il giovane incensurato è stato presentato come un criminale con una lunga sfilza di reati. L’odio razzista online, un odio senza confini, che nell’anonimato delle piattaforme trova il terreno più fertile, ha creato un vortice di bugie che ha reso ancora più tesa la situazione.

George era un ragazzo taciturno, forse più timido o sensibile della maggioranza dei suoi compagni di squadra all’Insaka AFC. Come quasi tutti loro, era arrivato in Irlanda da bambino, ricongiungendosi con i genitori immigrati in precedenza, nel suo caso dalla Nigeria. I genitori di alcuni suoi amici, e anche qualche membro della squadra, erano passati per i “Direct Provision Centre”, il vituperato sistema di accoglienza dove i richiedenti asilo trascorrono anni (in media quattro, secondo uno studio del 2016) in attesa che la loro richiesta venga valutata, senza poter lavorare e integrarsi nella società. I partecipanti alla mia ricerca erano i primi figli di immigrati ad entrare nello sport giovanile irlandese, in un paese in cui fino al 1991 solo l’1.1 per cento della popolazione era nato all’estero.

Insaka AFC era stata creata per iniziativa di Ken McCue, tra i fondatori di Sports Against Racism Ireland (SARI), e di due ex calciatori professionisti nigeriani, James Igwilo e Zubi Ufho. La squadra era aperta a tutti, ma attraeva soprattutto ragazzi immigrati. Al momento della mia ricerca, l’Insaka AFC era composta da ragazzi tra i 15 e i 18 anni originari di sette paesi africani, e di quattro paesi dell’Europa orientale. Era una squadra multietnica e multirazziale, ma composta solo da immigrati (nessuno dei giovani era nato in Irlanda, nessuno possedeva la cittadinanza). Per George e i suoi amici, bianchi e neri, Insaka AFC era più di una squadra: era un rifugio. Qui non eri considerato diverso, perché eri tra “diversi”. C’era chi parlava apertamente di razzismo subito in altre squadre locali, ma George era cauto, riflessivo.

Ho seguito il percorso di Insaka AFC per due stagioni. Allenamenti, partite, incontri amichevoli, viaggi in auto e mezzi pubblici, lunghe sedute al locale ristorante nigeriano con gli allenatori. Ho osservato e documentato le sconfitte e le vittorie. Soprattutto, però, ho imparato a comprendere come funzionano i meccanismi di razzializzazione. Les Back, sociologo inglese autore di The Art of Listening, mette in dubbio l’abilità dei ricercatori bianchi di capire a fondo ed empatizzare con le esperienze nere di razzismo. Tuttavia, essi si misurano con la trasmissione di idee e prassi razziste, alle quali non possono rimanere indifferenti.

Con la sua stessa esistenza, Insaka AFC era una forma di resistenza civile, resistenza attiva a diverse forme di razzismo presenti nella società. Nel calcio, i ragazzi trovavano uno spazio di socializzazione più libero e gratificante della scuola e di altri ambiti sociali. Ma l’esistenza della squadra era oltremodo precaria.

Insaka AFC non aveva un proprio campo di allenamento, quello delle partite lo affittava dalla municipalità. Il luogo in cui si allenavano era uno spazio “altro”. Era un campo da calcio in materiale sintetico rimasto incompleto (mancavano le porte e ogni tipo di supporto) con la brusca fine della bolla immobiliare seguita alla crisi economica del 2008. Poco distante c’era un grande “ghost estate”, un intervento immobiliare incompiuto. I ragazzi si erano appropriati del campetto senza porte e, tra rifiuti di vario tipo e segni di roghi giocavano, giocavano a ogni ora.

L’ingresso del campo di allenamento di Insaka, settembre 2010 (Max Mauro)

Il mio incontro con George e i ragazzi di Insaka AFC avvenne nei giorni successivi alla morte di Toyosi Shittabey, il 3 aprile 2010. La data segna un evento che ha cambiato la loro vita. E, molto probabilmente, nella morte di Toyosi va ricercata la ragione del disagio di George. È a Toyosi che i giocatori di Insaka AFC dedicarono la vittoria dell’unico trofeo conquistato nella breve esistenza della squadra.

Toyosi aveva quindici anni quando venne ucciso a coltellate da due adulti irlandesi bianchi (di 23 e 38 anni). Il fatto avvenne in strada, a Blanchardstown, di fronte ad un gruppo di amici del ragazzo, tra cui alcuni giocatori dell’Insaka AFC. L’omicidio di Toyosi è rimasto impunito. Il maggiore dei due fratelli, in passato già condannato per un assalto razzista avvenuto a Dublino, è deceduto il giorno prima dell’inizio del processo. Il fratello minore è stato assolto “per assenza di prove”.

Per George e gli altri ragazzi di origine africana la morte di Toyosi è rimasta una ferita aperta, impossibile da cicatrizzare. Per la società e la politica, la morte di Toyosi è stata come un secchio di acqua gelida gettata in faccia a un’Irlanda che voleva credersi diversa. Un popolo che ha subito il razzismo e il colonialismo non poteva riconoscersi a sua volta razzista. Gli irlandesi, che negli USA erano faticosamente “diventati bianchi”, e che in Inghilterra negli anni ’50 venivano discriminati alla pari dei neri, dovevano affrontare lo stesso problema in casa loro, ma dal versante opposto. Rammentare che prima degli immigrati africani erano stati i Travellers ad essere razzializzati in Irlanda, appare ai più un esercizio sofistico.

Manifestazione in memoria di Toyosi Shittabey, Dublino, Aprile 2010 (www.indymedia.ie)

Vari studiosi, tra cui Ronit Lentin and Steve Loyal, hanno utilizzato la definizione di “stato razziale” (racial state) per la Repubblica d’Irlanda. Con questa definizione viene evidenziato lo sforzo dello stato-nazione di delimitare, attraverso meccanismi istituzionali e culturali, l’appartenenza alla comunità nazionale. Uno sforzo ritenuto necessario dai fondatori della Repubblica all’interno dello scontro con l’impero, ma divenuto oltremodo problematico nella realtà odierna. L’ultimo censimento ha registrato più di duecento nazionalità residenti nel paese. Qui come altrove, gli immigrati sono indispensabili all’economia neoliberista, ma dispensabili per la società, alcuni più di altri.

La morte di George Nkencho rilancia in faccia alla società lo stesso secchio di Toyosi, ma invece di acqua gelida oggi il secchio non contiene nulla: è vuoto. Nessuno può sorprendersi del fatto che le persone di pelle scura, di origine africana, vengano razzializzate e discriminate in Irlanda. Diversi studi e rapporti lo evidenziano, non è un segreto per nessuno. Come non è un segreto che l’estrema destra, fino a qualche anno fa assente dalla scena politica, non ha ora paura a palesarsi, e non solo sulle reti digitali.

Max Mauro

da Lavoroculturale

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