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Milano si barrica, note e prospettive per la lotta sulla casa

Riceviamo e pubblichiamo una riflessione da parte delle compagne/i di Autonomia Diffusa Ovunque  di Milano a riguardo la recente stagione di lotta per la casa e resistenza agli sgomberi nei quartieri popolari di Milano.  

 

L’autentica crisi dell’abitare

1. Dopo l’annuncio da parte delle istituzioni di 200 sgomberi, la lotta per la casa ha conosciuto un’accelerazione inaspettata nei quartieri periferici di Milano. L’emergenza immobiliare e a maggior ragione la crisi dell’abitare non sono tuttavia mere conseguenze della cattiva gestione del problema da parte degli attori locali – ALER, Regione, Comune – o della politica del governo. Le difficoltà che tanti milanesi devono affrontare per abitare la propria città e le lotte che ne derivano vanno inseriti all’interno di una sequenza storica mondiale. Il capitalismo produce strutturalmente l’inabitabile, distrugge i mondi trasformando tutto in prodotto, merce, proprietà, devastando non solo la terra ma anche la possibilità di abitarci pienamente.

2. Nel 2008 la cosiddetta “crisi dei subprimes” negli Stati Uniti fu il punto di partenza di una serie di disastri economici e finanziari il cui prezzo viene pagato oggi dalle classi subalterne tramite disoccupazione, precarietà, maggiore sfruttamento, sfratti e miseria. I creditisubprimes erano dei mutui per comprarsi la casa aperti ai redditi molto bassi con poche garanzie di estinzione. Le banche statunitensi hanno così incoraggiato la popolazione povera, principalmente nera o ispanica, ad indebitarsi con dei tassi di interesse insostenibili. Il controvalore di questo indebitamento a vita era un miraggio: l’illusione di possedere un pezzettino di terreno, quattro mura, qualcosa da trasmettere ai figli, un luogo finalmenteproprio. Banche e governo erano consapevoli di creare una bolla che prima o poi sarebbe esplosa, sapendo che a pagarne le conseguenze sarebbero stati gli stessi poveri a cui si vendevano questi mutui-truffe. Dal 2008 milioni di case sono state pignorate, il numero di persone senza tetto è aumentato in maniera esponenziale mentre tendopoli e baraccopoli sono fiorite nelle periferie di tutte le città del paese più ricco del mondo. La questione della casa è stato il punto di partenza di questa crisi e continua ad essere uno dei terreni in cui il capitalismo conduce la sua guerra contro la terra e i suoi abitanti con maggior cruenza.

3. La maggior parte delle vittime del sistema dei subprimes sono discendenti di schiavi o immigrati arrivati da poco. Per gli schiavi, che non potevano possedere nulla, neanche il corpo era proprio. Ai loro discendenti viene ricordato quasi quotidianamente che la loro vita non vale niente, che può essere annientata da una scarica di proiettili, come a Ferguson, o da uno strangolamento, come a Staten Island, anche senza motivo, anche se hai le mani alzate. Black lives don’t matter. Estirpati dalle loro terre e dalle loro comunità, i poveri di tutto il mondo passano la loro esistenza intera nell’inabitabile, nella precarietà più assoluta, lontani da ogni focolare. I banchieri che proponevano crediti tossici vendevano l’abbaglio di un tetto, di una casa propria, una porzione pure infime di territorio in cui sentirsi meno esposti, in cui ricostruire un embrione di vita comune.

4. Una società di proprietari, ecco il sogno della democrazia. “La società” moderna, dai trattati dei filosofi dell’Illuminismo ai discorsi di Reagan, Thatcher e Berlusconi, si riduce ad una somma di individui, ognuno con le sue proprietà, nel suo recinto, con la sua piccola libertà che finisce dove inizia quella degli altri. Piccoli proprietari, piccoli imprenditori di sé stessi, soggetti perfetti di un potere che si propone di riconnettere tutte questi atomi con le astrazioni della nazione, della società civile o del bene comune. I dati sulla proprietà in Italia oggi rispecchiano bene questo sogno, nascondendo l’altra faccia della medaglia. Più del 75% delle famiglie italiane sono proprietarie di casa, ma il 15% deve ancora pagare un mutuo. Il 25% che resta paga l’affitto in case popolari o di privati. Tutte le leggi sulla casa in Italia negli ultimi trent’anni hanno avuto come unici scopi il sostegno della rendita immobiliare, la svendita del patrimonio pubblico e l’accesso alla proprietà costringendo le famiglie più povere a vincolarsi a mutui soffocanti.

5. Nell’epoca del Welfare State, le case popolari, ideate dall’inizio del Novecento ma diventate realtà per milioni di famiglie sotto il fascismo e nel secondo dopoguerra, hanno permesso di parcheggiare nei quartieri dormitori delle periferie tutta la manodopera che doveva alimentare l’esercito produttivo del capitalismo costretta ad emigrare da Sud a Nord e dalle campagne verso le grandi città. Gli abitanti di questi quartieri, oggi lasciati all’abbandono, sono ormai trattati dal mercato e dalle istituzioni politiche come un surplus, una spesa inutile, una realtà da allontanare se non da eliminare. L’assessore alla casa della Regione Lombardia ha richiesto la presenza dell’esercito nei quartieri popolari. Ma come può venire in mente ad un assessore alla casa – il cui compito ufficiale sarebbe la risoluzione dell’emergenza abitativa – di mandare nei quartieri i soldati – il cui compito è di controllare la popolazione e in ultima istanza di ammazzare nemici? Perché a Ferguson la polizia pattuglia le strade in tuta mimetica con fucili semiautomatici a bordo di carri armati e veicoli antimine? Perché in ogni articolo di Gianni Santucci (Corriere della Sera) sui quartieri di Corvetto, Giambellino o San Siro si possono trovare parole come guerraguerriglia, assalto, zone franche come se si stesse parlando dell’Afghanistan?

6. Tutte le inchieste ben documentate dimostrano che l’obiettivo principale delle politiche comunali, regionali o statali rispetto alle case popolari è la svendita degli immobili per cancellare il debito e favorire il mercato privato. Aumentare canoni e spese dell’immobiliare pubblico, ristrutturare e vendere ai privati i palazzi meno rovinati, abbattere il resto e costruire residence per la piccola borghesia, spingendo sempre più lontano dal centro i poveri per rendere invisibili gli indesiderabili. Ecco l’evidenza che può permettere di superare tutte le divisioni fra occupanti, morosi e affittuari, fra immigrati e italiani, fra ragazzi e anziani: vogliono distruggere, smantellare, svendere i nostri quartieri e mandarci via tutti. Il passaggio dalla gestione statale a quella comunale e regionale per le case popolari, la creazione di enti come ALER e la loro gestione mafiosa, le case lasciate vuote (9700 a Milano), le campagne mediatiche contro gli occupanti, la descrizione sistematica dei nostri luoghi di vita come terre di nessuno, regni del degrado e della violenza: tutte queste cose che a prima vista sembrano assurde o scandalose prendono senso se le si legge come parti di una grande operazione di ristrutturazione. Ancora una volta non c’è nessuna cattiva gestione locale da rimproverare, nessuna icompetenza da parte del politico di turno, ma una logica all’opera in tutto il mondo, dalle foreste del Brasile ai quartieri di Milano, dalla Valle di Susa alla periferia di Saint-Louis: estrazione di risorse e profitto, espropriazione della terra e degli abitanti. Volente o nolente questa dura realtà significa anche che non esiste nessuna via d’uscita attraverso la via istituzionale: che senso ha chiedere diritti a qualcuno che dichiara apertamente di essere in guerra contro di te?

7. La pratica dell’occupazione delle case non è di certo nuova a Milano. Ma nella nostra città, come nel resto della penisola e nei paesi del sud dell’Europa i numeri sono sempre più alti e il profilo degli occupanti sempre più variegato. Lavoratori e disoccupati, studenti e pensionati, immigrati e italiani, famiglie e gruppi di giovani amici: ecco chi sono gli occupanti delle case oggi. L’occupazione è il primo gesto che restituisce a quelli a cui viene negata ogni abitazione la possibilità di abitare la città. Più di 9000 case popolari riscaldate rimangono vuote a Milano. Insieme ad altri solidali si può aprire la porta quando c’è, montarla se non c’è e realizzare le ristrutturazioni che l’ALER rifiuta di fare per rendere agevole la casa. Ma nell’occupare c’è molto di più della semplice risposta a un bisogno immediato. Occupare le case, cioè trasformare dei luoghi inabitabili – palazzi fatiscenti, capannoni in disuso, uffici abbandonati, appartamenti minuscoli – in luoghi di vita comune, di solidarietà, di aiuto reciproco è già un’indicazione su cosa possa voler dire abitare un luogo, non avendone la proprietà ma facendone uso. L’occupazione non è solo un mezzo ma contiene già in sé, sia pure in piccolo, i germogli di un altro rapporto possibile con i luoghi, i territori, le città e il mondo che non sia quello della proprietà. L’occupazione non è mera appropriazione, e lo si è visto in questa stagione di lotta: la casa che occupi non è solo tua, può esistere e resistere solo se un intero quartiere è pronto a difenderla. Le occupazioni si rafforzano a vicenda. L’ALER mente dicendo che occupando una casa si cancella il diritto di qualcun altro. Succede esattamente l’opposto: occupando una casa in più in un quartiere che viene abbandonato, si riporta un po’ di vita, un po’ di solidarietà e si combatte il degrado voluto e organizzato dall’ALER.

8. Le virtù potenzialmente rivoluzionarie della pratica dell’occupazione non valgono solo per le case: si vedono nelle piazze occupate, nelle strade barricate, nei parchi in cui si costruiscono capanne sugli alberi, nei boschi e perfino in cima alle montagne. Là dove il capitalismo distrugge o rende impossibile l’abitare, trasformando il mondo sensibile in un arido cumulo di risorse da sfruttare e merci da vendere, non si tratta di proporre altre forme di proprietà ma di inventare nuove forme di vita, riscoprendo altri rapporti con la terra o con la città che si sottraggano alla grande appropriazione capitalista. Non è un caso se una parte del movimento mondiale di resistenza al capitalismo che sta nascendo in questo nuovo secolo si sia dato il nome occupy, trasformando le piazze più inabitabili delle metropoli in luoghi di vita comune. Non è un caso se le cosiddette lotte locali, legate ad un territorio e alla questione dell’uso della terra, sono le lotte più forti oggi nel mondo. La bandiera No TAV che sventola al fianco di quella che recita “Stop Sfratti e Sgomberi” ci ricorda che nessuna lotta rivoluzionaria ha come scopo la difesa di ciò che è proprio.

9. La difesa delle occupazioni e la resistenza agli sfratti e agli sgomberi non può essere l’unico scopo della lotta per la casa. Ha bisogno di prospettive e di orizzonti se vuole durare, estendersi e passare all’attacco. Storicamente, la rivendicazione, pur parziale, dava un primo orizzonte alle lotte, proponeva uno sbocco alle battaglie. Ancora oggi nei comitati di lotta e nei cortili dei palazzi, si parla di sanatoria delle occupazioni, di garanzia del diritto alla casa, di assegnazione delle case imposta dal basso. Rinchiudere la lotta in una logica rivendicativa, anche se è sostenuta da un conflitto reale, di questi tempi può rivelarsi una trappola. Si rischia di mettere al centro della lotta delle illusioni, degli scopi per natura irraggiungibili, perché il nemico non è disposto a trattare, a riconoscere, ad includere le ragioni di quelli che vengono descritti come indesiderabili, inutili, pericolosi. Questo rifiuto da parte delle istituzioni è strutturale, e di certo non legato al colore della bandiera del partito temporaneamente in carica. Se le istituzioni fossero disposte a trattare, a sanare le occupazioni, ad assegnare le case, lo farebbero ad una condizione, terribile per tutti quelli che lottano: dividere fra chi merita di essere incluso e chi deve essere trattato come uno scarto umano. Dividere fra italiani e migranti, fra chi ha il permesso di soggiorno e chi non ce l’ha, chi ha figli e chi no, in base al lavoro, al reddito, ai precedenti penali, all’attività politica o altri criteri decisi da chi concederà due briciole in cambio della pace sociale. Uscire dalla precarietà, poter svegliarsi la mattina senza la paura di uno sgombero, vedere le case vuote riempite da chi ne ha più bisogno è l’obiettivo. La lotta quotidiana, la costruzione di quartieri resistenti, il rafforzamento del movimento delle occupazioni e in prospettiva la rivoluzione sono dei mezzi per arrivarci cento volte più efficaci, più realistici, più ragionevoli di una qualsiasi rivendicazione di diritti. Questa considerazione è di ordine pratico e non ideologico, si basa sull’esperienza passata, l’analisi delle condizioni odierne, la sensibilità storica. La retorica idealista contro i piccoli passi, l’oltranzismo a parole senza pratica concreta, il rifiuto di immergersi nella complessità delle situazioni di lotta per purezza ideologica sono almeno altrettanto ingenui e inutili quanto la richiesta di diritti e garanzie allo Stato.

10. In queste settimane a Milano le donne sono spesso state al primo piano nelle battaglie contro gli sgomberi e per la difesa dei quartieri contro la polizia. La lotta per la casa ha sempre visto protagoniste le donne perché la casa con tutte le sue funzioni “riproduttive” – dalla cucina all’educazione dei figli – sono state storicamente compito delle donne nella divisione di genere delle attività umane imposta dal capitalismo patriarcale. Nella lotta molte donne rimettono direttamente in questione questa divisione. Sono state le prime ad erigere barricate, organizzare assemblee, resistere alla polizia, spazzando via vecchi modi maschilisti di “fare politica” con capetti, gerarchie, concorrenza fra gruppetti, discorsi retorici e ridicole attitudini pseudo-guerriere. Gli altri grandi attori di queste giornate sono stati i migranti. Lo slogan “uniti si vince” non significa un granché di per sé ma quando lo cantano insieme marocchini, peruviani, senegalesi, rom, siciliani, pugliesi, uomini e donne, bambini ed anziani di fronte a un cordone di poliziotti vestiti tutti uguali è come se un immagine ci arrivasse dal futuro per ridarci coraggio e fiducia. La lotta rovescia le gerarchie: le periferie hanno fatto tremare il centro, le donne incazzate hanno fatto paura ai poliziotti più grossi e imbruttiti, i migranti in lotta hanno ridato dignità e coraggio a questo vecchio paese.

 

Dal focolare domestico ai fuochi delle barricate

Sgomberooo!!! Come una sirena l’allarme sgombero inizia a risuonare tra i muri delle case, nei bar, alle fermate degli autobus. Le reazioni sono differenti: c’è chi prepara le valigie e inscatola le cose preziose, chi rinforza la porta, si trasferisce in strada per fare la guardia, accende bidoni di legna per scaldarsi o semplicemente incontra i propri vicini per capire cosa fare. Difendere la casa non significa solo proteggere quel poco che si possiede, il focolare domestico dove ci si scalda dopo una giornata di lavoro, quel pezzetto di vita privata, privata nel senso soprattutto della privazione, della rinuncia alla gioia di stare insieme. C’è qualcosa in più che si nasconde in questa pur strenua resistenza: il desiderio nascosto di unirsi per diventare una forza, prendersi una rivincita. Lo si è visto agli angoli delle strade, tra le risate e i balli improvvisati sotto la pioggia, dietro i cassonetti ribaltati, nei pezzi di marciapiedi volati sugli scudi della celere.

Se ciò che viene attaccato è la propria casa la reazione non è la trincea ma l’avanzamento, non è la chiusura a riccio ma un movimento concentrico. La paura di perdere quella piccola certezza del focolare domestico fa guardare oltre le quattro mura, allargare lo spazio abitabile, fare proprio tutto il caseggiato fino all’intero quartiere. È così che luoghi prima abbandonati alla solitudine della periferia tornano ad essere popolati. Il bar all’angolo del bianchino della disperazione diventa spazio in cui incontrarsi, per condividere ansie e preoccupazioni ma anche per far girare notizie sulle ultime mosse della questura. Il parchetto o la piazzetta sotto casa non fanno più paura perché diventano luoghi vissuti, in cui ci si fa colazione e si può buttare un occhio a tutti gli angoli per avvertire l’arrivo dei blindati.

I quartieri di periferia riscattano il triste ruolo a cui sono condannati: luoghi di emarginazione, di abbandono, zone di transito verso tangenziali e centri commerciali. A scapito di tutti gli intenti di urbanisti e cartografi è la lotta a trasformare in modo significativo la geografia di Milano. Piazze prima sconosciute diventano centrali. Attraversarle, nominarle, ripeterle enfaticamente danno loro un’aura quasi mitica. Piazza Ferrara, via Vespri Siciliani, via Salomone, via Tracia. Da lì sono partite le prime fiaccolate contro gli sgomberi, lì ci si è ritrovati dopo le prime cariche e lacrimogeni.

La capacità di trasformare il senso dei luoghi appartiene alla storia delle lotte. La Val Susa, da area periferica, è divenuta centro dell’immaginario di resistenza. La lotta per difendere la casa dagli sgomberi e il proprio quartiere dalla speculazione come la lotta contro la costruzione di una grande infrastruttura nel proprio territorio combattono la manifestazione spaziale del capitalismo avanzato: la metropoli.

Con la fine della città e l’avvento dello spazio metropolitano i confini si sono dilazionati, persi tra gli svincoli autostradali e i campi ad agricoltura intensiva. Gli stessi concetti di centro e periferia perdono la loro accezione originaria e di conseguenza zone che sulle mappe vengono ritratte come periferiche hanno in realtà un ruolo centrale nel funzionamento del capitalismo perché sono luoghi di attraversamento dei flussi, dove vengono smistate le merci o dove transitano ogni mattina migliaia di automobili dirette al lavoro. Ma ancora una volta è la lotta a cambiare le cose di segno, così la circolazione invece che favorire il perfetto funzionamento dell’ordine pubblico può incepparlo.

Sgombero alla Trecca, sgombero in Vespri Siciliani, sgombero in via Ravenna, sgombero in via Tracia: qualche minuto per fare mente locale ed è chiaro come arrivare. 90 e 95 sono le due linee delle circonvallazioni esterne di Milano. Gli autobus dei senza biglietto, dei senza casa che dormono da un capolinea all’altro, degli scaricatori dei mercati. È su questi mezzi che i vari solidali sono accorsi da un quartiere all’altro per dare manforte contro gli sgomberi. È la forma circolare di Milano a permettere il veloce collegamento tra quartieri periferici lungo le circonvallazioni. Sotto lo stimolo della paura si fanno cose che sembrerebbero impensabili in condizioni normali, così recita un proverbio azzeccatissimo: la paura fa novanta, o addirittura novantacinque.

 

Quartieri popolari: storie di migranti e di resistenza

In Australia, in Argentina, in Brasile, negli Stati Uniti i nostri avi hanno dovuto vendere cara la pelle per qualche soldo che permettesse loro di costruire un futuro diverso rispetto a quello che si erano lasciati in Italia. Sulle navi, nei cantieri edili, nelle case sovraffollate gli emigrati italiani hanno conosciuto il volto oscuro e duro della migrazione. Dal profondo sud si guardava al nord e soprattutto al triangolo industriale con gli stessi occhi con cui gli italiani alla fine dell’ottocento guardavano all’America. L’avvento della tv e il rafforzamento delle vie di comunicazione stradali spinsero i cosiddetti “terroni” ad assaltare i treni e ad emigrare verso la nuova terra promessa.

Dove manca la vita, manca anche l’esperienza e la memoria e i ricordi sono solo delle pillole da inghiottire per fare finta che in qualche modo esistiamo. Per questo i “terroni” hanno dovuto perire le stesse sofferenze e difficoltà che gli emigrati italiani hanno vissuto decenni prima. I quartieri popolari di Milano si sono trasformati in dormitori di manodopera meridionale a basso costo. Gli immigrati hanno portato le proprie tradizioni, così come fecero i loro sfruttatori nelle periferie di New York trenta anni prima. La geografia delle città cambia e la metropoli avanza grazie al sudore e allo sfruttamento dei nuovi migranti.

I giorni nostri dal punto di vista del fenomeno migratorio non sono diversi rispetto a quelli del Bronx nel 1905 o quelli di Quarto Oggiaro del 1960. Il signor Rossi si trasforma nel signor Esposito. Il signor Esposito si trasforma nel signor Rodriguez. I quartieri si modificano ancora, unendo culture, abitudini e lingue diverse. I terroni di allora diventano i razzisti di oggi. Frasi del tipo “Anch’io sono immigrata a Milano negli anni 50 e ho dovuto vivere in condizioni precarie , ma mi comportavo bene, mica come gli stranieri di oggi” sono all’ordine del giorno. Non dovrebbe sorprenderci se prima o poi lo slogan “Prima gli italiani”, col tempo si trasformi in “prima gli immigrati qui da tanto tempo, poi tutti gli altri”. Se la solidarietà è inesistente, davanti all’abbandono e alle ingiustizie la memoria diventa una farsa.

Quando i quartieri popolari del centro di Milano dopo la seconda guerra mondiale furono distrutti, un’intera generazione di giovani fu costretta a ricostruire le proprie relazioni da zero. La vita in quelle strade, nelle cantine, nei bar non c’era più o almeno non era più la stessa. Nelle periferie iniziavano ad ergersi caseggiati ed edifici che col tempo accolsero la massa di migranti arrivati dal sud. Questi giovani erano temuti perché il loro modo di stare al mondo non era compatibile con la Milano che iniziava a profilarsi. Venivano chiamati Teddy Boys e giravano per la città lasciando il segno della loro esistenza ad ogni passaggio. I Teddy Boys di oggi hanno un abbigliamento diverso e parlano lingue diverse, ma si muovono anche loro in gruppo e sono alla ricerca di un posto nel mondo dopo che la migrazione ha sconvolto la propria geografia relazionale ed affettiva. Le gang di latinos e filippini si muovono nella metropoli abitando a modo loro luoghi e spazi, scontrandosi tra bande diverse e segnando il territorio con codici e linguaggi figli di una cultura che nasce nelle strade. La polizia li teme e li reprime, non a caso una grossa percentuale della popolazione carceraria è composta da appartenenti a queste bande.

In Lombardia il 13% della popolazione non è Italiana. La maggior parte vive al di fuori del cerchio della circonvallazione, cioè nei quartieri popolari milanesi. I bar storici di quartieri come il Giambellino ora sono gestiti dai cinesi e a fare concorrenza al macellaio calabrese ora c’è il macellaio arabo. Le case popolari sono piene di famiglie migranti, tante di loro occupanti. Sono state protagoniste della rivolta contro gli sgomberi degli ultimi mesi, così come negli anni 60 e 70 lo furono le famiglie arrivate dal meridione.

La migrazione in Italia è giovane, è per questo che le seconde generazioni ancora non sono diventate casi di cronaca quotidiana come è successo in altri paesi europei. Al posto delle solite associazioni di carattere legalitario che rivendicano diritti e cittadinanza, iniziano a formarsi i primi gruppi di ragazzi che si muovono a livello artistico e musicale in alcune periferie di Milano. Questi ragazzi frequentano i club e non i centri sociali e odiano la polizia perché hanno imparato da piccoli nelle piazze chi sono veramente questi personaggi in divisa. La particolarità delle seconde generazioni sta nel fatto che vivono in mezzo a due culture: quella dei propri genitori (tante volte lontana e incomprensibile), e quella del paese in cui sono nati. Crescono insieme ai propri coetanei italiani condividendo sogni e aspettative, ma la realtà di tutti i giorni li divide.

Le rivolte delle banlieues francesi, delle periferie di Stoccolma e di Londra hanno come protagonisti questi giovani che crescono nelle periferie e imparano da piccoli a difendersi da un mondo che li ha sempre voluti ai margini e che in qualche modo li ha sfruttati come i loro genitori. Ciò che può sembrare per i perbenisti di sinistra una semplice esplosione di rabbia sono invece degli eventi pieni di significato politico e carichi di una prospettiva rivoluzionaria capace di stravolgere la geografia politica di una città.

 

Gli unici stranieri gli sbirri nei quartieri

In queste settimane sono stati protagonisti anche altri attori. Sono stati gli sbirri, quelli che entrano prepotentemente nei quartieri con caschi in testa e manganelli in mano, a sgomberare e a fare da veri e propri soldati nella guerra contro i poveri. Qualcuno potrebbe dire: “alla fine sono poveri come noi, che colpa hanno?” La miglior risposta viene da data da un’abitante del Corvetto a un giornalista che gli chiedeva cosa ne pensava dei ragazzi sgomberati in quartiere, i cosiddetti “centri sociali”: “Il mio nemico è la polizia. Nessun odio ideologico, sia chiaro. Ma la polizia è la faccia dello Stato cui siamo abituati. Per noi l’istituzione è un muro di poliziotti in assetto anti sommossa che ci invade il quartiere. È l’unico frangente in cui ci rendiamo conto che esiste un Comune. Per questo oggi abbiamo difeso gli autonomi. Sono gli unici che qui ci danno una mano, ci sostengono quando manifestiamo e provano a difenderci dalla celere”.

La polizia è dunque il vero e proprio volto di questa campagna di sgomberi, poiché rappresenta l’essenza stessa del governo della metropoli e di conseguenza viene vista con assoluta inimicizia da sempre più larghe fette di popolazione. Dai pestaggi in caserma, nelle carceri, nelle manifestazioni e dai più vari tipi di abusi e violenze, l’odio per la polizia non può che svilupparsi, e molte volte diventa un vero e proprio fattore di rivolta. Dagli Stati Uniti, al Messico, alla Francia e all’ Italia, la polizia uccide e la rabbia esplode. I volti dei celerini diventano così di giorno in giorno più segnati da sconforto, poiché si fa largo la consapevolezza di non essere benvenuti da nessuna parte. Ogni quartiere in cui intervengono non può che manifestargli ostilità. Le divise e le visiere restano dunque sporche delle uova o della terra volata addosso un giorno prima, e nella frenesia di sgomberare non hanno nemmeno il tempo di lavarle. Tutti quanti odiano la polizia, cantano le piazze francesi e, con le dovute proporzioni, probabilmente questa frase non è stata mai così vera come adesso.

 

E così la vita si riversa nelle strade

In questi giorni in cui gli eventi ci hanno superato, dove ciò che non ci si aspettava è diventato quotidianità, per ogni rivoluzionario esserci significa comprendere che il centro dell’universo non siamo noi, le nostre identità o le nostre parrocchie, ma tutto ciò che ci circonda: la metropoli con le sue contraddizioni, gli ultimi con le loro ambiguità e la loro rabbia.

I fatti di Tor Sapienza, così come l’esperienza greca di Alba Dorata insegnano che dove non ci sono i compagni, la strada per i fascisti è spianata. Per questo il lavoro quotidiano nei quartieri è fondamentale. In questi luoghi le nostre convinzioni ideologiche devono misurarsi con la realtà di chi è stato messo ai margini della città vetrina e guarda da lontano lo spettacolo miserevole della Milano legalitaria, finanziaria e borghese. Questa realtà produce rabbia e isolamento. E’ qui che si gioca tutto, nella capacità di fare della solidarietà un’arma che seppellisca la solitudine e nell’indirizzare questa rabbia contro i veri colpevoli, non contro gli immigrati o il vicino di casa.

Hanno cercato di fomentare la guerra tra poveri dividendoci tra italiani e stranieri, tra abusivi e regolari, ma esserci ha determinato che questa rabbia non avesse colore di pelle e che l’unica divisione possibile fosse quella tra poveri e ricchi, tra chi sgombera e chi vuole resistere.

Non ci sono solo persone che si organizzano per difendere le proprie case e quelle degli altri. Nei quartieri popolari centinaia di persone scendono ogni giorno in strada, abitanti che non si sono mai parlati diventano complici: c’è chi porta da mangiare alle colazioni anti sgomberi, chi si occupa di preparare il pranzo. Alcuni portano le sedie e i tavoli da casa propria, dalla finestra si passa il sale per la pasta, dai balconi arrivano gli ombrelli per gli occupanti che bloccano una via sotto la pioggia.

E così la vita si riversa nelle strade, quella vita che i giornalisti e i politici non vedono e che chiamano degrado. Su quel degrado gli abitanti dei quartieri popolari costruiscono le proprie vite, le proprie storie e prendono un posto nel mondo. C’è molta più vita tra le vie del Giambellino che tra i grattacieli della Milano di Expo.

Al bar, in edicola, al kebbabaro, alle poste non si parla d’altro. Qualcosa è cambiato, a fronteggiare la polizia accanto a noi oltre che ai nostri compagni c’è una signora mai vista o dei ragazzi che prima stavano tutto il giorno al parco a fumarsi gli spinelli e a parlare dell’ultima giornata di campionato senza mai venire a contatto con le iniziative del quartiere. A lanciare i sassi in prima fila in alcuni casi ci sono pure i bambini.

Chi si organizza in questi giorni non sono solo le “realtà di movimento” ma i quartieri con i loro abitanti. Durante le assemblee non ci sono silenzi imbarazzanti o interventi noiosi di qualche autoproclamato “rappresentante”, ma la sincerità e a volte anche l’innocenza e ingenuità di chi si trova per la prima volta a fare un’assemblea per decidere se bloccare una strada o fare un corteo la sera. Le persone prendono posizione, ci si trova e le decisioni prese valgono più di qualsiasi compromesso di movimento. Organizzarsi tra quartieri anche nell’ottica del divenire, i fatti di Can Vies a Barcellona insegnano. Quando i quartieri sono organizzati la geografia politica e conflittuale di una città viene stravolta e non c’è dispositivo poliziesco che tenga.

Non c’è bisogno di fare l’elogio dello scontro, ciò sta già avvenendo, è tutta una questione di mezzi e contesto. Capire quando e come fare qualcosa, se quel qualcosa ci da potenza o semplicemente riproduce la nostra triste identità. Con ogni mezzo necessario sì, ma ogni contesto ha i suoi ritmi, i suoi tempi e la propria forma. Per chi vuole vincere e non ha più voglia di aspettare il metro di misura non è l’ideologia ma la lotta, è la lotta che detta le condizioni materiali perché qualcosa avvenga e nelle lotte bisogna esserci per creare queste condizioni.

Finalmente la plebe ci supera e i calcoli politici si fottono, chi spinge se stesso e per chi sa quali equilibri non si sporca le mani, rimarrà immortalato negli albi d’oro del movimento. I giochi di egemonia finiscono dal momento in cui non c’è nessuno da rappresentare, ma una massa di gente con cui contaminarsi.

Esserci per sognare ancora, esserci per vivere ogni secondo di questi giorni che non si vedevano d’anni e che non devono ridursi a una fiammata fugace ma prendere consistenza in un divenire rivoluzionario.

 

autonomiadiffusa@inventati.org

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