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Migranti e diritti umani, i buchi neri degli hotspot

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Presentato al Senato il rapporto sui centri di identificazione ed espulsione

È l’approccio hotspot, introdotto dall’Agenda europea sulle migrazioni, al centro del Rapporto sui centri di identificazione ed espulsione della Commissione diritti umani del Senato, presentato ieri dai senatori Manconi e Mazzoni e dal Vice Ministro dell’interno Bubbico.

Sono passati cinque mesi dall’apertura dell’hotspot di Lampedusa — ora sono attivi anche quelli di Pozzallo e Trapani — e sono proprio le nuove procedure di registrazione e identificazione delle persone sbarcate, verificate dalla Commissione nel corso di una visita a Lampedusa, a destare preoccupazione.

Subito dopo lo sbarco, infatti, i migranti vengono sottoposti a una pre-identificazione: chi non presenta richiesta di protezione internazionale, viene considerato «migrante economico» e va rimpatriato.

Questo passaggio delicatissimo, così come avviene oggi, in molti casi non è altro che un esame superficiale, che si svolge quando i profughi sono ancora sotto shock per il viaggio. Il rischio è che si proceda a una cernita sommaria di chi può o non può fare ingresso in Europa, basata su automatismi più che su attente valutazioni delle singole storie, limitando di fatto il diritto all’asilo.

Altro punto sollevato: cosa succede a chi rifiuta di farsi identificare? Si prevede che chi non è stato identificato non possa allontanarsi dall’hotspot, né possa fare richiesta d’asilo in Italia o accedere al ricollocamento.

Come già accaduto, si viene trattenuti nel centro per giorni e settimane, senza la necessaria convalida del giudice. Formalmente questi centri sono dunque centri di prima accoglienza impropriamente «chiusi» o di fatto Cie, unica struttura dove si può essere trattenuti e comunque sempre in seguito a convalida del giudice?

Anche l’analisi dei dati presentati nel Rapporto pone in luce una serie di limiti del piano europeo.

In cinque mesi a Lampedusa sono arrivati 4.597 stranieri e ne sono stati identificati 3.234. Al ricollocamento hanno avuto accesso 563 persone, che corrispondono a circa il 12%. Si tratta di eritrei soprattutto, insieme a siriani e iracheni. Altre 502 persone, circa il 10%, hanno manifestato la volontà di chiedere asilo e sono entrati nel circuito dell’accoglienza. Tra quelli considerati migranti economici, 74 sono stati trasferiti nei Cie in tutta Italia, mentre 775 hanno ricevuto un provvedimento di respingimento differito, con l’ordine di lasciare l’Italia entro sette giorni, e sono complessivamente più del 18% del totale. Di fatto, sono persone destinate a rimanere irregolarmente nel territorio italiano.

Come confermato anche dai dati sui rimpatri: nel 2015 sono transitati complessivamente nei Cie 5.242 persone di cui 2.746 effettivamente rimpatriate (52%) e su 34.107 stranieri sottoposti a un provvedimento di espulsione, ne sono stati effettivamente allontanati 15.979.

Quindi, si è sì riusciti a identificare quasi l’80% delle persone sbarcate, come chiedeva minacciosa l’Ue, ma non sono altrettanto positivi i numeri delle persone ricollocate e di quelle rimpatriate.

Inoltre, il flusso verso l’Italia è ormai cambiato: non ci sono più siriani, sono sempre meno gli eritrei e arrivano ormai quasi esclusivamente «migranti economici» dall’Africa sub-sahariana che di fatto si fermano qui senza avere la possibilità di regolarizzarsi.

Valentina Brinis, Liana Vita da il manifesto

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