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Massimo Lettieri di Ri-Maflow è libero

Lettieri fu arrestato a luglio, all’interno di un inchiesta della procura di Milano e poi condotta da diversi comandi di carabinieri tra Milano, Pavia e Lodi. Il coinvolgimento di Ri-Maflow, e del suo “presidente”, è stato fin da subito giustificato, solamente, perché la cooperativa si era appoggiata, per macchinari e per gli scarti di produzione da lavorare, ad alcune delle società coinvolte nell’indagine

Sette mesi, tra carcere e domiciliari, è durata la carcerazione di Massimo Lettieri, responsabile legale della cooperativa Ri-Maflow, nata dall’esperienza di occupazione e autogestione di una fabbrica a Trezzano sul Naviglio. Per precisione i giorni di detenzione preventiva sono stati 203.

Ieri, 15 febbraio, è finita. Massimo è tornato uomo libero anche se ora dovrà pagare con una condanna di due anni, da scontare in affidamento ai servizi sociali.

Sette mesi di misure cautelative e di assenza di libertà da innocente, libero e ai servizi sociali ora che è stato condannato. Una beffa che racconta la confusione che esiste nel nostro paese tra giustizia e pena. Ri-Maflow, il percorso collettivo nato con l’autogestione della fabbrica, festeggia a metà.

Lettieri fu arrestato a luglio, all’interno di un inchiesta della procura di Milano e poi condotta da diversi comandi di carabinieri tra Milano, Pavia e Lodi. Il coinvolgimento di Ri-Maflow, e del suo “presidente”, è stato fin da subito giustificato, solamente, perché la cooperativa si era appoggiata, per macchinari e per gli scarti di produzione da lavorare, ad alcune delle società coinvolte nell’indagine.

Immediatamente operai e operai di Ri-Maflow dichiararono che “con le ditte che ci hanno conferito macchinari e materiali con regolari documenti di trasporto non abbiamo nulla a che fare per qualsiasi altra loro attività”.

Operaie e operai felici, quindi, di riabbracciare il loro presidente ma non contenti. Già a fine processo, lunedì 11 febbraio, denunciavano “giustizia non è fatta, è invece prevalso il ricatto. Non è stato possibile infatti celebrare un giusto processo per dimostrare l’estraneità al reato associativo, accettando la condanna – scrivendo un comunicato stampa pubblicato anche sulla loro pagina Facebook – “per i reati invece rivendicati, derivanti tutti di fatto dall’occupazione della fabbrica (mancate autorizzazioni, ecc.). Avendo tutti gli imputati patteggiato, non c’erano le condizioni per fare il processo da soli”.

Rivendicando il senso delle scelte della cooperativa e nuovamente l’estraneità dai fatti ricordano come “i poveri, anche quando hanno ragione, possono solo stare in galera. Massimo dovrà quindi scontare due anni in affidamento ai servizi sociali. Si tratta della pena più bassa tra tutti gli imputati, tuttavia per noi questa non è giustizia, è comunque un’infamia!”

Andrea Cegna

da il manifesto

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