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Manifestare è un diritto: soprattutto nei momenti difficili

Da oggi le manifestazioni possono svolgersi solo in forma “statica”. È un precedente pericoloso. La salute di tutti va tutelata, ma i connessi divieti devono essere limitati allo stretto necessario e ragionevoli. Il dissenso e il conflitto sono, infatti, elementi essenziali della democrazia.

I rider che attraversano in bici le vie della città, gli studenti che sfilano muovendo dalle università e dalle scuole, i lavoratori con gli striscioni sotto la prefettura, i partecipanti dei mille movimenti sul territorio (i no TAV per tutti), i ragazzi di Fridays For Future restituiscono l’immagine di una democrazia viva.

Il diritto di manifestare in pubblico rivendicazioni, proposte, dissenso, è essenziale per la democrazia; manifestazioni e cortei sono strumenti imprescindibili per l’espressione dei conflitti che attraversano la società. La democrazia vive del pluralismo e del conflitto. L’art. 17 della Costituzione prevede che il diritto di riunione in luogo pubblico (una via, una piazza) possa essere limitato solo «per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Le limitazioni, ad hoc, e ovviamente temporanee, devono rispondere ai canoni della proporzionalità e della ragionevolezza. Il costituente insiste: predetermina le ipotesi (sicurezza e incolumità pubblica) e richiede che siano comprovati i motivi che inducono a vietare la riunione.

Il Dpcm del 24 ottobre 2020 consente solo le «manifestazioni» (alias le riunioni?) in forma statica (art. 1, c. 9, lett. i): si introduce una forma inedita di restrizione in via generale e preventiva del diritto di riunione, se pur nei limiti temporali di vigenza del decreto? Era già successo con l’avvio della “fase 2”. Allora il decreto legge n. 33 del 16 maggio 2020, aveva previsto, a decorrere dal 18 maggio, dunque in ritardo rispetto alle riaperture di molte attività produttive (disposte dal 4 maggio), lo svolgimento delle riunioni «garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro» (art. 1, c. 10) e il Dpcm del 17 maggio 2020 aveva specificato che possono svolgersi «manifestazioni pubbliche», ma aveva aggiunto che esse erano consentite solo «in forma statica» (art. 1, lett. i). Risulterebbero, dunque, vietati, allora e oggi, i cortei, in quanto riunioni «in movimento». Perché?

Qual è un bilanciamento proporzionato e ragionevole fra il diritto alla salute e il diritto di riunione?

È senza dubbio ragionevole esigere, in presenza di una virulenta epidemia, che nello svolgimento di una manifestazione, che sia statica o in movimento, siano rispettate le misure di distanziamento e di contenimento della diffusione del Covid-19, ma non pare né ragionevole né proporzionato il divieto di cortei o tout court di manifestazioni.

Al momento, fra l’altro, non è ristretta la libertà di circolazione, non sono limitate le attività produttive. Perché le manifestazioni devono essere solo statiche, quando non vietate? È ragionevole che sui mezzi di trasporto vi siano assembramenti (“riunioni casuali”), ma il corteo, in difesa, poniamo, del proprio posto di lavoro (in una Repubblica fondata sul lavoro), non sia consentito?

Precisiamo, anche nel caso in cui la libertà di circolazione sia limitata, occorre molta cautela nel restringere la possibilità di manifestare: è un bilanciamento fra diritti nel quale in questione è la salute della democrazia.

Una risposta democratica all’emergenza non può che garantire spazio al dissenso, anche e proprio per bilanciare, con il diritto di protesta, eventuali restrizioni dei diritti.

Il diritto di riunione non è un diritto minore, così come non lo è il diritto all’istruzione. Può essere necessario un bilanciamento con il diritto alla salute, ma l’irragionevolezza è evidente se si restringono spazi politici (così come se si mette in lockdown la cultura e si confina on line la scuola), mentre il peso degli interessi economici mantiene aperti i luoghi di lavoro (non a tutela, ça va sans dire, del lavoratore). Economia first: il mantra della razionalità neoliberista.

Non solo: a fronte del mantenimento delle attività produttive e, dunque, di una salvaguardia della libertà di iniziativa economica privata di cui all’art. 41 della Costituzione (senza tener conto, per inciso, che il comma 2 sancisce che essa «non può svolgersi […] in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»), la limitazione del diritto di riunione indebolisce di fatto l’espressione del conflitto sociale ex parte lavoratore (in antitesi rispetto a una Costituzione che mira a tutelarlo).

È in atto, da tempo, un percorso di delegittimazione e repressione del dissenso. Emblematici sono i provvedimenti, bipartisan, in materia di sicurezza pubblica: in ultimo, il “decreto sicurezza” salviniano (non toccato sul punto dal restyling, minimale e insufficiente, compiuto dal decreto legge del 21 ottobre), con la ri-penalizzazione del blocco stradale, l’inasprimento delle pene relative alle occupazioni di edifici, l’incremento delle ipotesi di “DASPO urbano” . Si assiste al ricorso al “diritto penale del nemico” contro i movimenti e contro i lavoratori e si espelle e ghettizza il disagio sociale: il conflitto sociale viene negato, mistificato, represso, anestetizzato . Lo stato di emergenza introduce, e sperimenta, norme e prassi che rischiano di essere normalizzate, dai rapporti di lavoro (l’home working per tutti) alla didattica a distanza a un uso disinvolto delle fonti del diritto.

In presenza del rischio di normalizzazione di misure emergenziali, dell’aumento delle diseguaglianze, strutturale rispetto al modello neoliberista ed esponenziale in presenza di una crisi economico-sociale affrontata con bonus estemporanei e ampie concessioni alle richieste confindustriali, è quanto mai essenziale che restino aperti spazi di dissenso e di protesta. Non sta andando tutto bene.

I riot che infrangono le vetrine dei centri delle città, e la loro infiltrazione da parte di frange fasciste e criminalità, denunciano le mancanze della democrazia. La rabbia sociale nasce dalle diseguaglianze, dall’egemonia del modello dell’homo oeconomicus: la risposta sta nella rimozione degli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza (art. 3 Cost.), in un progetto di emancipazione sociale che inverta la rotta, rifuggendo la tentazione di risposte autoritarie.

Il distanziamento, fisico (e non sociale), non deve traslarsi in divieto di azioni e mobilitazioni collettive, minando la libertà di manifestazione e di protesta. La nostra Costituzione muove dal riconoscimento del conflitto sociale, nella prospettiva che è la «partecipazione effettiva» ad animare la democrazia e il progetto costituzionale: il diritto di riunione non è un optional, ma è indispensabile. Quanto mai oggi, per rivendicare un futuro diverso.

Alessandra Algostino

da Volerelaluna

L’articolo è pubblicato anche su micromega-online

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