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L’orrore e il nulla

Ora una cosa è chiara: se la famiglia Halilovic non fosse stata costretta per le sue condizioni di povertà a vivere stipata in un camper della periferia di Roma e vivesse in un appartamento la tragedia non sarebbe accaduta

Orrore. È il sentimento che istintivamente prorompe alla notizia della tragica morte delle tre ragazze rom (Elizabeth, Francesca e Angelica) di cui due bambine di otto e quattro anni. Morte tragica e insensata ma vero e proprio assassinio che nelle intenzioni del perpetratore sarebbe dovuto tradursi in strage dato che in quel minuscolo camper erano stipate tredici persone. Conosco quella famiglia che frequentavo da anni. Di origine bosniaca ma tutti nati in Italia e sempre vissuti in Italia, quindi italiani di fatto anche se le nostre assurde leggi continuano a considerarli stranieri. Qualche anno fa il capofamiglia mi diceva sconsolato: “Ho ricevuto non uno ma due decreti di espulsione. Ma io sono nato in Italia, mia moglie è nata in Italia i miei otto figli (allora erano otto oggi sono undici) sono nati in Italia. E dove dovrei andare? In un Paese dove non sono mai stato? In un Paese di cui non conosco la lingua?”.

Allo stato delle indagini non si sa se il movente della tentata strage sia da ricercarsi in un regolamento di conti o in un attacco razzista. Ma i media, orientati dalla questura, già suggeriscono la pista della faida ovvero di un atto orrendo confinato all’interno di un’etnia già oggetto del disprezzo e della stigmatizzazione quasi generale. Ma ci siamo dimenticati dei numerosi atti di vero e proprio razzismo antizigano che ha costellato la recente storia italiana? Dal rogo di Opera nel milanese al pogrom di Ponticelli a Napoli? Ci vogliamo dimenticare dei pervicaci discorsi d’odio cui sono costante oggetto rom e sinti, dall’invocazione delle ruspe all’offerta del proprio forno da parte di quella consigliera comunale (non una qualunque)?

Leggo cronache e commenti e un sentimento di rassegnata impotenza mista a rabbia mi pervade. Fior di giornalisti pontificano, esprimono giudizi perentori e categorici dai quali risulta inequivocabile una costante: costoro del mondo rom non sanno nulla, con un rom in carne ed ossa non hanno mai parlato e quindi delle sue aspirazioni, del suo modo di essere non sanno nulla e si alimentano dei pregiudizi che secoli di ostracismo hanno pervicacemente accumulato.

Ora una cosa è chiara ed evidente: se la famiglia Halilovic non fosse stata costretta per le sue condizioni di povertà a vivere stipata in un camper e vivesse in un normale appartamento magari di edilizia pubblica la tragedia non sarebbe accaduta. Perché i rom e sinti sono costretti a vivere in quei luoghi di degrado che sono i cosiddetti “campi nomadi” recentemente rinominati “villaggi della solidarietà”? Un nome più accattivante certamente ma chi non li frequenta non può sapere che a quella dizione, come dire?, più gentile, corrispondono condizioni di vita largamente peggiorate, specialmente dopo l’esplosione del fenomeno criminale di mafia capitale di cui i rom sono le prime vittime di coloro che si arricchivano sulla loro pelle. Da allora abbiamo assistito a un quasi totale abbandono della tematica rom che nella sua dimensione rappresentata dai campi o villaggi si configura come una realtà di povertà estrema e quindi oggetto di intervento istituzionale. Ma quali sono le politiche di contrasto della povertà e di inclusione sociale a vantaggio dei rom e sinti?

Vorrei anche richiamare un dato che aiuta a inquadrare il fenomeno nelle sue giuste proporzioni. I rom che vivono nei campi in Italia ammontano a circa il 20 per cento del totale. L’80 per cento, quindi la grande maggioranza, vive nelle case e quindi si può ritenere che siano perfettamente integrati sia i cittadini italiani, insediati da secoli, sia quelli migrati dall’ex-Jugoslavia, dalla Romania e dalla Bulgaria negli scorsi decenni.

L’orrenda tragedia che ha registrato la commozione e la recisa condanna anche dell’ex premier Renzi come del presidente della Repubblica, Mattarella, rimanda alla questione dei campi in cui sono confinati i rom poveri. I campi sono dei luridi ghetti, veri e propri luoghi di segregazione razziale tanto che perfino un giudice nel 2005 ha emesso una sentenza in cui, attribuendo la configurazione monoetnica del campo “La Barbuta” a Roma a un evidente atto discriminatorio, ha ordinato al Comune di Roma di chiuderlo. (Naturalmente non è successo nulla. Già Dante scriveva: “Le leggi son, ma chi pon mano ad ell ?”). Va anche aggiunto che l’Italia è l’unico Paese al mondo che ha istituito i campi come luogo elettivo di insediamento delle comunità rom. Questa politica risale alle leggi regionali degli anni Ottanta che in nome del rispetto e tutela della minoranza rom finanziavano la costruzione dei “campi nomadi” rivelando un chiaro approccio intriso nello stesso tempo di autoritarismo e ignoranza. Autoritarismo perché nessuno ha chiesto ai rom se il campo corrispondesse alle loro aspirazioni e al loro stile di vita. Ignoranza perché in primo luogo i rom non sono più nomadi da generazioni e in secondo luogo perché anche i migranti dall’ex Jugoslavia e da Romania e Bulgaria abitavano in case e in gran parte aspirano tuttora a una casa come dimostrano inequivocabilmente le domande di assegnazione di alloggi popolari da loro presentate.

La colpevole inerzia delle varie amministrazioni ad affrontare in modo adeguato la questione di questa minoranza è clamorosa. Ma il sonno della ragione genera mostri. A partire dalla mancata inclusione della minoranza rom nella legge 482/1999 che, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, riconosce e tutela dodici minoranze storico-linguistiche, alla disattesa “Strategia Nazionale di inclusione di Rom, Sinti e Caminanti”.

La Strategia è un documento redatto dall’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) e approvato dal governo nel febbraio del 2012. È stata la Commissione europea a raccomandare ai ventisette Paesi aderenti a promulgare un piano d’inclusione della minoranza rom e sinta presente in tutti i paesi europei. La Strategia si fonda su quattro assi (Lavoro, Casa Istruzione e Sanità) e propone un ventaglio di interventi idonei ad agevolare l’integrazione relativamente ai quattro assi. Strumenti attuatori della Strategia sono le Regioni che dovrebbero istituire – insieme ad alcune città metropolitane tra cui ovviamente Roma – dei “tavoli” composti di rappresentanti istituzionali e associazioni rom e pro-rom. Nulla di concreto è stato fatto. Gli stessi fondi europei, accessibili su progetto, languono inerti. Il comune di Roma ha costituito il Tavolo comunale nello scorso gennaio – con cinque ani di ritardo – ma aldilà del fatto che non è prevista una partecipazione qualificata (e maggioritaria visto che del loro destino si deve decidere) dei rom, nulla è accaduto. E nel nulla, nella totale inerzia il degrado continua, la povertà e l’esclusione prosperano, il razzismo e la discriminazione crescono.

Marco Brazzoduro*

* Già docente di Politiche sociali e sanitarie alla Facoltà di Scienze statistiche dell’Università La Sapienza di Roma, da diversi anni si occupa di comunità rom, in particolare a Roma. È presidente dell’associazione Cittadinanza e minoranze

da Comune-Info

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