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“L’opposto del distanziamento sociale”: un anno di Covid nella carceri italiane

L’arrivo del virus nei penitenziari italiani ha portato allo scoperto tutte le problematiche che già affliggevano il sistema carcerario: se la seconda ondata è stata gestita un poco meglio rispetto alla prima, è ancora troppo poco

A un anno dall’inizio dell’emergenza pandemica appare ancora lontano il momento in cui sarà possibile tornare alla normalità. Questa condizione di precarietà ha portato molte persone a sperimentare l’angoscia di un isolamento prolungato e la quotidiana assenza di orizzonti: sensazioni solitamente più consone a chi vive in uno stato di libertà assente o parziale, come ha riconosciuto anche la storica associazione Antigone lo scorso maggio, parlando nel consueto rapporto annuale di «detenzione coatta domiciliare universale». Il lockdown e le successive restrizioni più drastiche (le cosiddette zone rosse e arancioni) hanno costretto la popolazione a confrontarsi con una situazione esistenziale che i detenuti già conoscono bene. Nel frattempo il virus è arrivato anche in carcere, portando alla luce problematiche strutturali per cui l’Europa ha, più volte, condannato l’Italia.

Prima è arrivata la paura e con essa le rivolte. «Buona parte delle violenze dello scorso marzo, durante la prima ondata, sono derivate dal fatto che, quasi da un giorno all’altro, l’amministrazione aveva comunicato che si sarebbero bloccate tutte le visite e tutti i colloqui coi familiari», spiega Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone. La situazione è andata poi migliorando con il passare del tempo: «Per utilizzare una metafora idraulica, durante la pandemia è aumentato il flusso del rubinetto di uscita e sono stati molto rallentati i rubinetti d’entrata, quindi i i nuovi ingressi».

 

Paradossalmente il virus ha costretto dunque le amministrazioni penitenziarie a mettere mano ai molti problemi già presenti nelle carceri italiane.

 

«C’è stato anche un fatto molto rilevante», continua Miravalle: «Il procuratore generale della Corte di cassazione ha chiesto alle procure italiane di arrestare meno, di mandare meno gente in custodia cautelare in carcere. Questo a causa della pandemia». Così, dopo le scene pazzesche di marzo e aprile, che hanno portato alla morte di quattordici detenuti, la situazione nei penitenziari italiani è leggermente migliorata. «Nella seconda ondata c’è stata un po’ più di preparazione, se non altro sul fronte della gestione delle misure restrittive», conferma Miravalle: «I colloqui in presenza non sono mai ripartiti del tutto, dunque la popolazione detenuta era più preparata. Inoltre l’uso delle tecnologie per continuare a comunicare con l’esterno non è mai stato interdetto e questo ha permesso, per esempio, un abbassamento della tensione».

Le note positive si fermano però qui: neanche l’emergenziale abbassamento del numero di ingressi ha infatti risolto i problemi di sovraffollamento. «Una situazione che permane e che non permette di gestire meglio le situazioni di criticità durante la pandemia», prosegue Miravalle: «Se c’è la necessità di fare un isolamento per motivi sanitari di un presunto positivo e non hai spazio perché tutte le celle sono già piene, quell’isolamento non si può fare e quindi c’è il rischio di far circolare il virus molto più velocemente». Questo è dovuto anche al fatto che in Italia continua a prevalere una forte mentalità giustizialista: anche le normative legate al virus hanno dovuto fronteggiare questo atteggiamento, risentendone. Sottolinea ancora Miravalle: «Abbiamo assistito a uno scontro tra il populismo penale, così come chiamiamo la cultura del buttar via la chiave, e una cultura che invece sostiene che, soprattutto nei momenti di emergenza, dobbiamo anteporre i ragionamenti sul diritto alla salute rispetto ai ragionamenti securitari».

 

D’altronde in Italia ormai quasi nessuno crede più al valore riabilitativo della pena: addirittura un sondaggio dello scorso dicembre riportava che il 43% degli italiani è favorevole alla pena di morte.

 

«La pena è anzitutto difesa sociale», ammette anche Miravalle: «È chiudere dentro un recinto chiamato carcere le persone che possono recare una qualche sorta di pericolo alla società. Forse oggi il paese è più interessato agli aspetti della sicurezza rispetto agli aspetti rieducativi: in questo modo però sottovaluta l’impatto che effettivi percorsi rieducativi potrebbero avere anche sulla sicurezza. Se non si fa un lavoro di reinserimento con le persone, e questo è dimostrato dagli altissimi tassi di recidiva, una volta uscite dal carcere queste tornano a delinquere: alla fine la sicurezza non è stata garantita per nulla».

Un altro tema che spaventa l’associazione Antigone riguarda in parte proprio la funzione riabilitativa della pena. Il vigente ordinamento penitenziario prevede infatti che «Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro». La pandemia ha però interrotto tutte quelle attività che i detenuti potevano svolgere all’esterno della casa circondariale. «Il crollo delle attività lavorative è a tutti gli effetti una delle conseguenze più palesi e temiamo possa durare molto più a lungo della pandemia», dichiara Miravalle.

 

Anche in un’ottica di ripresa delle attività lavorative dei detenuti appare quanto mai necessario che la popolazione carceraria tutta abbia accesso quanto prima ai vaccini.

 

«Grazie anche alle proposte da parte di Antigone, del Garante nazionale e di varie associazioni che chiedevano d’inserire la popolazione detenuta tra le fasce con accesso prioritario alla vaccinazione, si è riusciti a inserire detenuti e operatori alla terza fase, mentre prima erano proprio ultimi», ci dice Miravalle, pur con una punta di malcelata diffidenza. Ed è stata la regione Lazio la prima a intervenire sul tema, rimarcando le troppe differenze nell’amministrazione delle istituzioni carcerarie: una problematica che Antigone denuncia da anni. «L’amministrazione penitenziaria è sì molto gerarchica, ma anche estremamente frammentata», dichiara Miravalle: «Quindi c’è profonda differenza a livello di approcci, di modelli di intervento tra carceri che magari sono di regioni confinanti e distano pochi chilometri».

Per tutti questi motivi è anche complesso tracciare un quadro preciso degli effetti del virus nei penitenziari italiani: «La sanità della regione Lazio in generale ha avuto un approccio migliore rispetto alla sanità lombarda o piemontese», ribadisce Miravalle: «Le regioni del nord invece sono state zona rossa anche dal punto di vista carcerario. Tra gli esempi negativi sicuramente il Piemonte, dove la gestione è stata molto problematica con anche strategie proprio sbagliate. Ma è molto difficile commentare la situazione carceri e Covid a livello nazionale».

Nicolò Arpinati

da DINAMOPress

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