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“Lo Stato deve dirmi perché hanno massacrato il mio Stefano”

L’incontro con Rita Cucchi: “Prima hanno ammazzato lui, poi hanno provato a fare lo stesso con noi”. “Sono stata una buona madre, rifarei tutto“. “Prima hanno ammazzato lui, poi l’hanno insultato da morto e poi hanno provato a fare lo stesso con noi, la sua famiglia“. Questa ricostruzione scarna e definitiva mi arriva addosso come un ceffone alla fine di un pomeriggio freddo, lungo e commovente trascorso a casa di Rita Cucchi.

La mamma di Stefano. Roma, Tor Pignattara, un quartiere grigio e difficile, ma non più di tanti altri, una palazzina qualunque, un pianerottolo al quarto piano, luci fioche, una casa normale e poi quella stanza. “Tutto è rimasto come l’ultima sera in cui Stefano si è seduto lì sul quel divano”. Rita, piccola, curata, sorridente, con quegli occhi trasparenti e sinceri che mi conquistano all’istante, mi mostra ogni oggetto, ogni particolare.

“Questa è la borsa della palestra così come l’aveva riportata a casa quel pomeriggio di ottobre di 9 anni fa, i suoi guantoni, quanto li amava, la sciarpa della Lazio, il suo pupazzo bianco, i suoi (pochi) libri. Non ho voluto toccare niente”.

Troppe domande senza risposta – Ed è lì, in quella stanza, avvolte da un dolore palpabile, che mi metto all’ascolto di questa donna riservata, che in questi interminabili 9 anni è sempre restata in disparte seguendo la figlia Ilaria nella sua battaglia ostinata, senza mai raccontare la sua versione. Ha deciso forse di curare così il suo dolore perché, come diceva De Andrè, una storia da non raccontare, una storia da dimenticare è una storia sbagliata. E in questa storia ha sbagliato lo Stato non ha sbagliato lei, non ha sbagliato suo figlio. Anzi no! “Stefano ha sbagliato. E io sapevo che avrebbe dovuto pagare per i suoi errori.

Quella notte quando lo portarono via ammanettato dicendomi che la mattina dopo sarebbe tornato a casa, mio marito ed io pensammo fosse giusto che pagasse per ciò che aveva fatto. Ma puoi pagare con la vita il possesso di qualche grammo di droga? Perché? Noi ci siamo fidati dello Stato. Perché lo Stato ci ha fatto questo?”. La storia di questa mamma è una storia di “perché” e di “pregiudizi”. Perché che la trafiggono giorno e notte come una lama affilata. “E io giuro che non mi fermerò fino all’ultimo perché”.

Omertà e dinieghi – È la sequenza incredibile dei perché che mi lascia senza fiato. “I carabinieri la sera dell’arresto mi hanno detto di non preoccuparmi, che Stefano sarebbe tornato a casa il giorno successivo. Dopotutto era stato fermato con poca droga, dissero. E invece è stato rinviato a giudizio. Perché? La mattina dopo il rinvio a giudizio siamo andati a Regina Coeli, in carcere, volevo portargli la borsa con qualche cambio, ma non ce l’hanno fatto vedere. Perché?

La sera dopo l’arresto ci chiamano dicendoci che era ricoverato al Pertini, corriamo, ingenuamente chiediamo “possiamo vederlo?”. Rispondono “no, assolutamente. Tornate lunedì”. Perché? Lunedì siamo lì presto, ma dopo neanche 5 minuti scende una poliziotta talmente agitata che sbaglia pure il documento di mio marito e dice che purtroppo ai medici non è arrivato il permesso di poter parlare con noi. Perché?

Mi dissero addirittura che mio figlio era tranquillo. Ma intanto al telefono qualcuno diceva che Stefano stava male, che aveva bisogno di un’ambulanza e si augurava che morisse “li mortacci sua”. Perché? A Stefano non è stata fatta la foto segnaletica, anche se è obbligatoria. Perché? Quando ci hanno detto che Stefano era morto siamo corsi a Medicina legale, volevano che autorizzassimo l’autopsia prima di vederlo. Perché? Lì abbiamo puntato i piedi. Quando siamo entrati il corpo di Stefano era circondato da vetri fissi e tutti poliziotti intorno. E lì ho capito il perché: Stefano era stato massacrato, come potevano rimandarlo a casa?”.

Umiliati e offesi – Perché che diventano dubbi spaventosi e piano piano si trasformano in certezze indicibili. Perché che investono me come madre, prima ancora che come giornalista. E ci investono tutti come cittadini ostaggio di una vergogna di Stato. Poi ci sono i pregiudizi, quelli che come una cappa nera hanno tentato di far sparire Rita, suo marito e sua figlia. “Hanno detto che avevamo abbandonato Stefano.

Hanno scritto che io, quando i carabinieri ci hanno suggerito di contattare un avvocato di fiducia, ho risposto: non spendo soldi per quel delinquente. Mai, te lo giuro, mai, neanche nei peggiori momenti di mio figlio con la droga ho detto o pensato una cosa del genere. Sono stata una buona mamma…”, è costretta a dirmi questa donna dignitosa.

Quella foto – Mi mostra un articolo del Giornale del 30 gennaio 2016. Titolo: “La madre di Cucchi: “mio figlio? Un delinquente”. E per la prima volta in quegli occhi chiari compare un’ombra di rabbia lucida. “Io piansi, piansi tanto quando lo lessi. Non potevo crederci”. E poi la domanda che tutti ci siamo fatti almeno una volta: perché i genitori sono stati così arrendevoli, perché non hanno fatto i matti per riuscire a vederlo?

Anche su questo mi risponde paziente ma ferma. “Ti assicuro che se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto. Con la forza non ottieni nulla. Sono loro che comandano e se non vogliono fartelo vedere, non te lo fanno vedere.

Solo all’obitorio abbiamo puntato i piedi. E abbiamo visto l’orrore disegnato sul suo volto. E lì abbiamo fatto quella foto. Quella foto che io, da madre, non volevo rendere pubblica, non volevo mostrare mio figlio così… Ma senza quella foto nessuno ci avrebbe creduto mai”. Quella foto che da sola è riuscita a sgretolare il muro dell’omertà e quello dei pregiudizi, quella foto che s’impone alle nostre pigre coscienze e che nelle mani tremanti di Rita continua a chiedere una risposta a tutti i perché. Fino all’ultimo.

Myrta Merlino

da Il Corriere della Sera

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