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L’interlocutore libico: tra venditori di schiavi e partner istituzionali

Gli attori libici nel panorama delle migrazioni nel Mediterraneo sono fondamentali, così come la loro rappresentazione mediatica. Gli eventi degli ultimi giorni li vedono protagonisti e offrono interessanti spunti di riflessione, sul piano della politica e della comunicazione.

Lo scorso 6 novembre, durante un’operazione di soccorso in acque internazionali, un’imbarcazione della Ong tedesca Sea Watch si scontra con la “guardia costiera” libica. L’“incidente” ha un bilancio di 5 morti accertate e 50 persone disperse. Non si tratta di un caso isolato, la “guardia costiera” libica aveva già avuto in diverse occasioni atteggiamenti ostili nei confronti di altre imbarcazioni in acque internazionali. Uno dei primi episodi noti risale alla fine dello scorso maggio, quando sparò contro una motovedetta italiana “scambiata per un barcone dei migranti”. Spontaneo chiedersi: se fosse stato un barcone di migranti, sarebbe stato corretto sparagli? Nel mondo dell’informazione la notizia passò sotto silenzio con poche eccezioni, tra cui un articolo pubblicato su l’Avvenire.

Siamo ora di fronte ad un’inversione di tendenza sul piano comunicativo: mentre prima si cercava di non dare rilievo mediatico a questi avvenimenti, dei fatti del 6 novembre si è data grande diffusione, utilizzando una narrazione di attacco nei confronti di chi provava a salvare delle vite in mare. Vengono riportate le testimonianze dirette degli attori libici in campo: “capitani”, “ufficiali della guardia costiera”, “colonnelli”. La loro versione dei fatti è opposta a quella fornita dalla Ong tedesca e viene accostata dai cronisti a quest’ultima come una semplice altra voce, come la testimonianza della controparte.

In questo caso, anche di fronte all’evidenza del video che mostra la “guardia costiera” libica agire in modo ostile e violento, senza alcun riguardo verso la vita dei migranti si mettono sullo stesso piano organizzazioni umanitarie e miliziani.

Chi viene pagato dalla politica, fondamentalmente con fondi europei, per incarcerare i migranti, con chi raccoglie donazioni da parte della società civile per salvargli la vita: stessa autorevolezza.

Un nuovo tassello si aggiunge così alla campagna denigratoria nei confronti delle organizzazioni della società civile operanti nel Mediterraneo, colpevoli di impedire il lavoro delle “forze istituzionali”. L’attacco ha una connotazione indiretta rispetto alla campagna mediatica delle Ong com “taxi del mare”, ma si pone in continuità con questa. Alcuni esempi relativi al caso del 6 novembre si trovano sulle pagine di Il Messaggero, Secolo d’Italia e, dulcis in fundo, Il Giornale. Non stupisce che la legittimazione dell’interlocutore libico sia evidente su queste testate, ma è una tendenza da stigmatizzare, che difficilmente rimarrà circoscritta. Il Giornale ha parlato per primo di “taxi del mare” lo scorso febbraio e le conseguene non hanno investito soltanto i suo lettori.

L’apertura di questo scandalo mediatico è stata contemporanea, sul piano politico, alla stipula del Memorandum of Understanding con la Libia – sottoscritto lo scorso 2 febbraio da Paola Gentiloni, in quanto Presidente del Consiglio per la parte italiana, e da Fayez al-Serraj, presidente del Governo di unità nazionale per la parte libica. Nel giro di un mese, nel marzo 2017, il complottismo mediatico raggiunge rapidamente l’apice: se i migranti si mettono in viaggio è colpa delle Ong. La maggiore nota di veridicità dell’intera faccenda ha le sue radici nel rapporto Risk Analysis 2017 dell’agenzia europea Frontex: nelle sue 64 pagine, il termine pull factor – fulcro dell’accusa rivolta alle Ong – ricorre solo 4 volte ed è sempre accostato alla considerazione dei push factors dei flussi migratori. Poco importano i fatti, il sospetto della collusione delle Ong con i trafficanti comincia a essere presente nella narrazione mediatica e diventa così imponente da sovvertire l’opinione comune sulle operazioni SAR (search and rescue): salvare una vita non ha più valore positivo di per sé. Il sospetto è diventato prova, giudizio finale, lo evidenzia con un’argomentazione puntuale e dettagliata il report Navigare a vista. Il racconto delle operazioni di ricerca e soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale, a cura di Osservatorio di Pavia, Cospe, Associazione Carta di Roma.

Lo scenario è ora diverso, la narrazione mediatica dei fatti ricerca la legittimazione pubblica dell’accordo Italia-Libia di fronte all’evidenza dell’inumanità del trattamento a cui sono sottoposti i migranti. Di questo gioco, a discapito del buon senso, fa parte l’intermittente testimonianza degli interlocutori libici.

Il 14 novembre, l’emittente statunitense CNN diffonde un video in cui i migranti in Libia sono venduti: un’asta di esseri umani, un contemporaneo mercato degli schiavi, una nota di orrore che si aggiunge ai dati già noti sui lager libici, ora non più trascurabili. Lo stesso giorno, l’Onu critica pesantemente le scelte europee in materia di migrazioni, definendo com disumana la collaborazione tra UE e Libia. Le accuse sono indirizzate in primis all’Italia per la stipula del Memorandum of Understanding. Di conseguenza, il 15 novembre tutti i giornali riportano le dichiarazioni del Ministro dell’Interno Marco Minniti, in risposta alle accuse dell’Onu: «i diritti umani in Libia restano irrinunciabili» e «La tutela dei diritti umani nei centri libici è la nostra ossessione». Nessuno riporta, però, né nomi né virgolettati dei funzionari o miliziani libici, come se questi non ricoprissero più il ruolo di nostri “partner istituzionali”: gli schiavisti e aguzzini vengono ora fatti tacere.

Emerge una piccola parte di contestualizzazione dei fatti, si prendono le distanze dal “governo” libico relativizzandone il potere (alcuni esempi si trovano sulle pagine di Avvenire o Il Messaggero). Gli interlocutori libici vengono rimessi in luce solo dopo giorni, dopo che il 21 novembre la messa in onda della puntata di Report Ipocrisea offre nuovo materiale da strumentalizzare. Arriva la voce del “governo” pronto a punire i colpevoli, che questa volta viene affiancata da alcune considerazioni sulla scarsa capacità di controllo del “governo libico di unità nazionale” – la dicitura corretta, che non compare quasi mai.

È evidente come la mancanza della dovuta contestualizzazione rappresenti uno stratagemma comunicativo mirato alla pubblica legittimazione di determinate scelte politiche. Mettere in relazione gli elementi dati con le verità di fatto note è un’operazione indispensabile alla comprensione dei fatti.

In questo caso: la Libia è teatro di conflitto da circa sei anni; lo Stato libico non è tra i firmatari della Convezione di Ginevra; il “governo” non ha il controllo dell’intero territorio né dell’area della Tripolitania; le varie milizie, i trafficanti, la “guardia costiera” rappresentano un insieme difficilmente districabile. L’economia libica si tiene in piedi grazie ad una grande fonte di denaro: il traffico di esseri umani. Un business da 35 miliardi di dollari l’anno, di cui la maggior parte concentrati nel Mediterraneo, secondo le stime dell’OIM. Questa è la realtà, scenario di ogni dichiarazione.

Anna Dotti da DinamoPress

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