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Quando l’esercito entra nelle scuole per promuovere l’identità nazionale

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“Oggi come ieri quando lo Stato è pronto a uccidere si fa chiamare Patria”

Quest’anno ricorre il centenario della prima guerra mondiale e molte sono state le iniziative, celebrazioni e incontri tra militari e studenti promosse dall’Esercito italiano.

Quando l’esercito entra nelle scuole sarebbe opportuno fare qualche riflessione al riguardo.

Bisognerebbe chiedersi che cosa significa “promuovere tra i giovani il valore dell’identità nazionale”. Parole che lasciano più di una perplessità, per non dire più di un fremito di disgusto. Perché la scuola non dovrebbe consentire che l’esercito entri nelle aule a fare propaganda e retorica militare sulle virtù dell’obbedienza e del buon cittadino servitore della Patria, sul sacrificio e la devozione verso lo Stato.

Gli stessi militari che hanno partecipato alle “missioni umanitarie”, “missioni di pace”, insomma tutti questi nomi per non dire che si va a portare la guerra, in Libano, Kosovo,  Iraq, Afghanistan, gli stessi militari impiegati nell’operazione strade sicure che vediamo scorrazzare con le camionette per le vie dei centri urbani.

Sarebbe opportuno domandarsi il messaggio che viene trasmesso quando militari e studenti si riuniscono per la celebrazione dell’alzabandiera intonando l’inno nazionale. Quest’anno ricorre il centenario della prima guerra mondiale e molte sono state le iniziative di questo genere proposte dall’Esercito italiano nelle scuole. Si legge che si vuole “ricordare quei giovani di allora che dall’Isonzo alle Dolomiti, dal Carso al Piave fino al Monte Grappa, contribuirono in maniera determinante all’unità nazionale.” Giovani che, non abbiamo dubbi, adesso farebbero volentieri a meno di andare a morire per la patria.

Quando poi qualcuno decide di dare il benvenuto all’esercito italiano ricordandogli la sua vera natura (“quando lo stato è pronto a uccidere si fa chiamare patria”) con una scritta fuori dalla scuola non può non imbattersi nella stigmatizzazione e criminalizzazione da parte di chi fa propria la retorica del dio patria famiglia, dirigenti, docenti, personale scolastico.

Chiediamoci allora quale sia il piano della discussione: il problema è una scritta sulla facciata di una scuola o il fatto  che venga celebrata la guerra come onore di una nazione, che vengano svolti comizi col retrogusto del ventennio dove i miltiari incontrano gli studenti per inculcargli i presunti valori dell’identità nazionale, dell’obbedienza verso lo Stato e la cultura della legalità?

La stessa identità nazionale in nome della quale si costruiscono frontiere e si lasciano morire persone in mare o si massacrano di botte perché hanno un colore della pelle diverso dal tuo. Lo stesso Stato che ha stipulato accordi disumani con la Libia sulla pelle dei migranti. E la stessa legalità per cui si sgombera un edificio occupato da famiglie in emergenza abitativa preferendo lasciarle dormire in strada.

Chiediamoci a quali valori  debba davvero educare la scuola e quali siano le priorità: 64 milioni di euro al giorno in spese militari o mettere a norma l’edilizia scolastica? Investire fondi nell’acquisto di cacciabombardieri F35 o nelle scuole e nella creazione di un’alternativa allo sfruttamento-alternanza scuola-lavoro?
Ma soprattutto ricordiamoci che l’obbedienza non è mai stata e non sarà mai una virtù.

"Io fui il primo frutto della battaglia di Missionary Ridge. 
 Quando sentii la pallottola entrarmi nel cuore
 mi pentii di non essere rimasto a casa e finito in galera  
 per quel furto di porci a Curl Trenary,
 invece di correre ad arruolarmi nell’esercito.
 Mille volte meglio la galera 
 che stare sotto questa figura di marmo alata,
 e questo blocco di granito 
 con le parole Pro patria.
 Ma poi, che vogliono dire?" 
(Edgar Lee Master, Antologia di Spoon River)

 

 

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