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«Le mie due ore di libertà dopo quarant’anni in cella»

Mario Trudi, condannnato all’ ergastolano racconta lo stupore di rivedere il mondo

Era il 9 gennaio, quando presentai la richiesta di permesso di necessità. Era morto mio cognato Marchioni Pietro, marito di mia sorella Trudu Raffaela.

Il giorno dopo verso le 13,30 mi annunciarono che il permesso mi era stato concesso e che circa mezz’ora dopo mi avrebbero accompagnato. Puntuali, dopo un po’ partimmo per Arzana, il paese in cui ero nato e dove vivono i miei cari.

Salimmo su un blindato molto diverso da tutti gli altri che avevo conosciuto e usato in una vita intera, i miei ultimi 40 anni. Diverso nel senso che, anche se dalla distanza di sicurezza a cui ero costretto, riuscivo a vedere attraverso il parabrezza venirmi incontro tanta bellezza, mentre sugli altri blindati venivo collocato dentro una piccolissima scatola occupata solo dal buio più totale, dove per evitare le peggiori sensazioni chiudevo gli occhi, e se avessi potuto in quei momenti avrei spento anche il mio cervello, ed io di viaggi immerso nel nulla ne ho fatti tanti.

Uscito dal carcere dopo poche decine di metri imbucammo la SS131 direzione Nuoro – Sassari, e vedere tutta quella campagna e leggere tutti quei cartelli stradali che mi venivano incontro, mi procurava una strana sensazione, come se tutto mi ricordasse qualcosa, ma non capivo cosa… La mia memoria in questi ultimi anni è andata scemando, sicuramente gli effetti distruttivi del carcere a cui sono stato costretto per così lungo tempo. Sì, è vero, ho perso la memoria, ma sappiate che almeno a me è rimasta la dignità.

Attraversi quel deserto sconosciuto, attraversai dei tunnel, cunicoli scavati sottoterra con una miriade di lucine che lampeggiavano dentro i miei occhi come degli spiedi infuocati che mi bruciavano, e mi davano anche la sensazione di trovarmi in piena campagna in una notte buia al massimo, rischiarata solo dalle lucciole.

All’uscita di uno di questi antri bui, comparve davanti ai miei occhi Preda Leana, monumentale pietra collocata sul Gennargentu al limitare dei territori di Arzana, Gairo e Seui. La punta più alta del Gennargentu ( Predas Carpias) era tutta innevata, c’era tanta neve, e se per qualche motivo si apriva lo sportello della macchia entrava un freddo cane. La temperatura doveva essere molto vicina allo zero, se non sotto.

Arrivati al bivio Carmine prendemmo la strada per Arzana.

Tutto era cambiato. Se pur luoghi da me frequentati in un lontano tempo, non mi riusciva di riconoscere con certezza quei posti.

Svoltata una curva a gomito ( prima de su paris de istancas) davanti ai miei occhi si presentò un vasto panorama, bellissimi luoghi che conoscevo. Mi sarebbe piaciuto dire ai miei accompagnatori di fermare un po’ la macchia per ammirare tanta straordinaria bellezza, ma non dissi niente. Chissà come avrebbero interpretato la mia richiesta, magari avrebbero potuto pensare che avevo un piano per la fuga, ma… ahi me! il tempo delle fughe, alla mia età, è volato via insieme alla tanta galera e non tornerà mai più.

Arrivati al ponte de su Molina, imbucarono una strada nuova che io non conoscevo… ( e come avrei potuto! La strada era stata aperta una decina di anni dopo la mia forzata assenza) e in un attimo fummo al cimitero, proprio nel momento in cui seppellivano mio cognato Pietro.

Mi fecero scendere dalla macchina davanti all’entrata del cimitero, luogo di pace e di tanti misteri, e credo anche di tante paure, sapendo che un giorno quel luogo desolatamente solo sarà la nostra casa per l’eternità.

C’erano tante macchine parcheggiate e tantissima gente, che scrutavo e mi scrutava senza che ci conoscessimo. Entrai dentro questo enorme parcheggio incontrando i miei familiari e tante altre persone. Ci abbracciamo con i miei e raccolsi le condoglianze di tutti gli altri. Prima che finisse la funzione della tumulazione, fui scortato a casa di mia sorella in attesa che gli altri rientrassero dal cimitero.

Percorremmo la strada in discesa fino al ponte de Niedha e prendemmo sulla sinistra imboccando la strada del corso, e fatte poche decine di metri svoltammo a destra percorrendo un tratto della via M. Virgilio, arrivati di fronte alla casa di zio Giovanni Nieddu detto ( cara niedda), svoltammo a destra passando davanti alla casa di zio Giuseppe Arzu ( scorgia molentes), un po’ più avanti c’era la casa di zia Beatrice Tascedda ( vedova Mereu), al suo fianco c’era la casa di Antonio Doa detto ( meurrone), lì appresso la casa di Cesare Stochino ( maceto), Cecilia Usai ( pringiutu), Giuseppe Pirarba ( su re Orodas), Angelo Doa ( casta mala) e parcheggiamo nel cortile della nostra vecchia casa dove io e le mie sorelle con mio fratello Danilo venimmo al mondo.

Vedere quelle vecchie rovine mi riportò indietro nel tempo, quando giocavamo spensierati e felici con gli altri bambini del vicinato, e provai un dolore tremendo.

Entrai in casa di mia sorella Raffaela accompagnato dalle mie bellissime pronipoti, Roberta e Federica. Se non fosse stato per loro, confuso come ero, credo che non avrei trovato nemmeno la porta di casa. Ci abbracciamo

tutti. Erano presenti anche i figli e la moglie di mio nipote Adriano morto da vari anni. Si avvicinò la figlia maggiore, Anita. Ma io le dissi: “Ciao Samuè”. E lei: “Guarda che io sono Anita, Samuela è mia madre”.

Che confusione avevo fatto! Samuela mi era rimasta impressa nella memoria come l’avevo vista la prima volta che la incontrai, e la figlia Anita era identica alla madre quando aveva la sua età.

Stessa confusione feci con mia nipote Martina che non avevo mai incontrato… scambiai il marito per il fratello… Questo per dirvi quanto possono essere distruttivi 40 anni di carcere. Il tempo è corso via mentre io sono stato sempre fermo, eppure sono stato sempre convinto che stavo affrontando bene la situazione, convinto di camminare a passo con il tempo. Che illusione la mia! Forse ho pensato di poter fermare il tempo e di riprendermelo al mio risveglio dal coma. Tutto sbagliato. E per questo dico a tutte le persone in difficoltà: non lasciatevi ingannare, state al passo con il tempo, meglio anticiparlo che rimanere indietro, cercate di vivere tutto, ogni cosa nel momento in cui accade. Non lasciatevi scavalcare dal tempo come ho fatto io, o vivrete nel passato senza vedere il presente, che è la cosa che serve di più. Senza il presente non si vive, anzi è invisibile il vivere.

Di confusioni ne ho fatte tante quel giorno… con i nomi, i volti, le parentele… Spero mi abbiano capito, e perdonato per tanta confusione. Ma dovete sapere che i miei vuoti di memoria non sono stati causati solo dal tempo che mi ha allontanato sempre di più dal tempo della vita. La causa di tanta rovina in me è anche e soprattutto la compressione senza limiti che mi ha imposto questo stato. Dopo circa un’ora e mezza ci rimettemmo nuovamente in viaggio. Destinazione nuovamente il ricovero di animali abbandonati in cui vivo da “secoli”.

Attraversammo tutto il paese e vi dico che ho vissuto minuti di vera paura. Tutte le strade ero convinto che si fossero ristrette, che le case che le affiancavano volessero franarmi addosso. Tutto mi percuoteva la vista venendomi incontro a velocità sostenuta, come punte aguzze che volevano piantarsi nel mio petto.

Io penso che quelle strade mi apparissero così strette a causa dei miei ricordi ( lontani 40 anni), molto diversi, forse anche perché non si vedeva altro che macchine parcheggiate. La carreggiate erano invase da macchine, che erano d’intralcio non solo ai mezzi come quello su cui viaggiavo io, ma sarebbe stato difficoltoso anche per un pedone muoversi fra tanta “civiltà”.

Credo che se non fosse per le persone incontrate a casa di mia sorella, avrei pensato che il mio amato paese fosse abitato solo da macchine, mostri di ferro. Persone in giro non se ne vedeva una. Certo secoli fa, quando ancora appartenevo al mondo dei vivi, di macchine non se ne vedevano tante.

Ecco, in quei pochi minuti serviti per attraversare il paese, vedendo tutti quei disastrosi cambiamenti, tutte quelle case diroccate, per me è stato come attraversare tanti secoli. Tutto quel cambiamento non poteva essere avvenuto nei soli 40 anni della mia assenza. Penso che sicuramente è passato molto più tempo. Sono solo io a essermi fermato senza capire bene da quanto sono parcheggiato in questi musei statali dell’orrore.

Che effetti disastrosi, direi quasi allucinanti, fanno vivere 40 anni di prigione!

E che notte da incubo quando, al rientro, dopo aver cenato andai a letto.

In quell’agitato sonno mi sono trovato nuovamente in paese dove io ero l’unico sopravvissuto, anzi io e un branco di cani agguerriti. Tutto il resto erano macerie, delle case che conoscevo fin da ragazzo non ne era rimasta una in piedi, non c’erano più macchine, ciò che rimaneva di loro era un ammasso di lamiere accartocciate Per tutta la notte sono stato assalito da quei cani e io a cercare di difendermi con un bastone, ma loro non mollavano, vedevano in me un lauto pasto, e mi costringevano a indietreggiare, finché dopo ore di terrore non sono finito in un buco che si era formato fra le macerie. Lì era talmente buio che anche i cani avevano paura a entrarci e mollarono la loro preda, e menomale che in quel momento mi sono svegliato da quell’incubo, se no chissà cos’altro avrei dovuto affrontare.

Già le cose d’affrontare non mi mancano, per esempio la galera, questa vendetta di uno stato orbo, e incubo peggiore non esiste. Ma se ho potuto superare quella notte terribile, sono certo che continuerò a superare l’incubo in cui sono costretto da 40 anni.

Mario Trudu

da il dubbio

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Il ragazzo sardo in cella dal ’ 79 senza mai un minuto di libertà

Mario Trudu era un pastore, poi entrò a far parte dell’anonima sequestri condannato per due rapimenti: per il primo si è sempre dichiarato innocente, mentre si è assunto la responsabilità del sequestro dell’ingegner Gazzotti ( morto in uno scontro a fuoco poco prima che venisse rilasciato) è stato condannato all’ergastolo ostativo e non ha mai fatto i nomi dei suoi complici

Dopo 40 anni di carcere, senza poter uscire mai, ha potuto finalmente usufruire di un permesso per un’ora e mezza. È un permesso di necessità che ha chiesto alla magistratura di sorveglianza il 9 gennaio scorso per la morte del marito di sua sorella. Ci tiene a specificare che gli agenti penitenziari sono stati gentili con lui, perché l’hanno accompagnato in borghese e senza manette.

Parliamo di Mario Trudu, nato l’undici marzo del 1950 ad Arzana, in Sardegna. Si trova in carcere dal maggio del 1979 con una condanna all’ergastolo, quello ostativo. Trudu è un dei tanti ergastolani che non hanno la certezza della pena ( la costituzione non contempla la pena perpetua), ma la certezza di morire in carcere. Una certezza perfino retroattiva.

La norma dell’art. 4 bis ( che nega i benefici penitenziari se il condannato non decide di collaborare mettendo un’altra persona al posto suo) è stata introdotta nel 1992, dopo le stragi di mafia che dilaniarono con il tritolo Falcone e Borsellino. Una norma che però è stata resa retroattiva e applicata, come nel caso di Trudu, a reati commessi diversi lustri prima.

Trudu faceva il pastore, ma ha anche fatto parte della famosa Anonima sequestri. Infatti venne condannato per due sequestri di persona. Del primo si dichiara da sempre innocente, e tramite il suo libro edito da stampalibera “Totu sa beridadi, tutta la verità, storia di un sequestro” – tiene molto a sottolineare che se non fosse stato per quella prima ingiusta condanna ( 30 anni, ha scritto, sono davvero troppi per un reato non commesso) non avrebbe architettato il rapimento poi compiuto fuggendo da Ustica, dove era al confino in attesa della sentenza di Cassazione. Non per giustificarsi, sottolinea sempre, ma per spiegare quali sono stati i meccanismi dell’odio e della rabbia.

È in carcere, come detto, da 40 anni, destinato a morirvi perché, assumendosi in pieno la responsabilità del sequestro dell’ingegner Gazzotti ( morto in uno scontro a fuoco poco prima che venisse rilasciato), non ha mai fatto i nomi dei suoi complici.

Trudu, con il suo libro, ha aperto uno squarcio sulla storia, ancora piena di ombre, della Sardegna dei sequestri, il processo all’Anonima che tanto ha occupato le cronache a cavallo degli anni 70 e 80, e la figura del “giudice sceriffo”, il giudice Lombardini, suicidatosi dopo l’inchiesta aperta dalla magistratura sul suo ruolo nella fase delle trattative per la liberazione di Silvia Melis. Tra i rapimenti più noti dell’anonima sequestri ci furono quello di Fabrizio De André e Dori Ghezzi nel 1979. De Andrè venne rilasciato, dopo che il padre pagò un riscatto di oltre 550 milioni, il 22 dicembre del 1979 alle due del mattino, a 24 ore dalla liberazione di Dori. Fedele alla sua fama di cantore di umili e diseredati, Fabrizio si costituì parte civile soltanto nei confronti dei mandanti, «le cui condizioni economiche non consentono trovare per essi alcuna giustificazione», ma non nei confronti dei suoi carcerieri che li andò anche a trovare in

carcere. Dopo quella vicenda De André compose “Hotel Supramonte”.

Ma ritorniamo a Mario Trudu. Per decenni è stato in carcere lontano dalla Sardegna, prima al carcere di Spoleto, in Umbria e poi a quello di San Gimignano, in Toscana. Solo nel 2017, dopo tanto che lo chiedeva, è stato trasferito in un carcere della sua terra, a Oristano, dove almeno può con una certa frequenza ricevere la visita dei familiari.

Trudu, però, ha anche dei problemi di salute. Una patologia gravissima e lui desidera semplicemente potersi curare, visto che la struttura carceraria non può essere compatibile. L’avvocato Monica Murru del foro di Nuoro che lo assiste, ha spiegato a Il Dubbio che lunedì scorso c’è stata l’udienza per chiedere i domiciliari per motivi di salute, perché è affetto da grave sclerodermia con interstizione polmonare. Secondo la perizia presentata dal difensore a sostegno dell’istanza, la malattia è stata dichiarata incompatibile con il regime carcerario. Il perito della ASL, invece, non lo ha detto esplicitamente, ma, confermando la diagnosi del medico legale di parte, ha scritto che la terapia per questa malattia – la quale è ingravescente e dagli esiti imprevedibilmente catastrofici – è da considerarsi di difficile attuazione in un laboratorio, e quindi va da se pensare che lo sia ancor di più in un carcere.

L’ istanza è stata discussa martedì. La Procura Generale ne ha chiesto il rigetto, mentre il difensore, parlando invece più a lungo, ha fatto notare che la situazione del detenuto è molto grave e vi ha trascorso praticamente tutta la vita in carcere.

Trudu ha anche rilasciato una dichiarazione in occasione dell’udienza: «Non vi sto chiedendo di farmi uscire, ma di farmi curare». È da ricordare, osserva a Il Dubbio l’avvocata Murru, che non è uscito dall’ergastolo ostativo, perché «ritengono che la sua collaborazione potrebbe in astratto essere ancora possibile». Aggiunge infine: «Tra pochi giorni Mario compirà 69 anni e ha passato quasi tutta la vita in carcere. Ho fatto una miriade di istanze di permesso di necessità, anche legati a progetti, ma non sono mai riuscita a ottenere nulla».

Damiano Aliprandi

da il dubbio

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