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La pena, che spettacolo! Da Luigi XV a Battisti (e ritorno)

La spettacolarizzazione dell’arresto di Cesare Battisti sembra riportare a una concezione pre-moderna della pena e della partecipazione del popolo alla sua comminazione che però rischia di produrre nuova sudditanza. Il tutto nella post-modernità dei social

La vicenda relativa alla cattura di Cesare Battisti e la sua enfasi mediatica è culminata, come molti sapranno, nel famigerato video che immortala dettagliatamente l’arrivo dello stesso Battisti all’aeroporto di Ciampino. Un video non rubato o girato di nascosto, ma ufficiale, reso pienamente istituzionale attraverso la diffusione e promozione social sul profilo facebook del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il video, ancor più surreale per la straniante colonna sonora, ha suscitato sdegno e indignazione in molti autorevoli commentatori, che hanno evidenziato come lo stesso abbia leso precetti costituzionali ed etici, aspetti connessi all’umanità e alla finalità della pena, principi di dignità e prestigio istituzionale. C’è un altro aspetto sul quale vale la pena operare qualche breve considerazione, ed è la spettacolarizzazione dell’evento, da considerare tuttavia non in una prospettiva morale o peggio moralistica, ma dal punto di vista della funzione insita nella sua medesima teatralità.

Lo splendore dei supplizi

Chiamiamo in soccorso, per tentare una così impegnativa decodifica, il filosofo Michel Foucault col libro che, probabilmente più di tutti, ha contribuito ad attivare riflessioni e stimolare paralleli sul senso della pena e sulla sua trasformazione in epoca moderna, vale a dire Sorvegliare e punire. [1] Nei passaggi iniziali di tale opera è ripercorso analiticamente il supplizio di Robert-François Damiens, attentatore del Re Luigi XV nel 1757 che, dopo una serie di atroci torture, viene giustiziato tramite squartamento per mezzo di sei cavalli. La descrizione del truce evento ci introduce ad una pratica di giustizia, sin lì piuttosto diffusa, la cui premessa fondamentale è secondo Foucault quella di una produzione di senso assolutamente non assimilabileall’estremismo di una rabbia senza legge”. Perché nel supplizio giocano un ruolo di primo piano criteri precisi, quali la estrema calibrazione delle sofferenze in rapporto alla gravità del crimine, alla persona del criminale, al rango delle vittime; la esaltazione della giustizia attraverso un cerimoniale in cui la verità del crimine commesso si inscrive nel corpo stesso del suppliziato; infine, la spettacolarizzazione sproporzionata, esaltata, ostentata della liturgia punitiva, perché il supplizio, di questo si tratta, è soprattutto spettacolo.

Ma in tale esercizio, si chiede il filosofo, qual è il ruolo del popolo? Esso non è solo passivo testimone: si inserisce insultando il condannato, umiliandolo a propria volta, in un gioco nel quale la crudele manifestazione del potere del sovrano diviene fruizione collettiva, temporanea partecipazione a quello stesso potere punitivo, una partecipazione tanto più tollerata quanto più volta a riaffermare stabile soggezione (e non a creare nuova soggettività).

La moderna disciplina dei corpi (e delle anime)

Con l’arrivo dell’illuminismo gli scenari della punizione si fanno socialmente e politicamente più ampi e complessi.All’interno di tale contesto, grande impatto ha avuto Cesare Beccaria col saggio Dei delitti e delle pene, del 1764. Beccaria getta le basi della penalità moderna, rifiutando decisamente l’idea stessa della pena di morte e criticando duramente un sistema giuridico che faceva sistematico ricorso alla tortura ed al supplizio, confondendo sovente reato e peccato.Per Beccaria i delitti e le corrispondenti pene, commisurate al delitto commesso, dovevano essere codificati prima della loro commissione, sia come forma di garanzia nei confronti del reo, sia per un principio di proporzione rispetto all’entità della rottura del patto sociale. Ma è soprattutto la funzione della pena a venire del tutto ribaltata, divenendo rieducativa e dissuasiva rispetto alla commissione di nuovi delitti. Insomma, il pre-moderno splendore dei supplizi appare ormai lontano e superato.Le tecnologie di controllo e sorveglianza carceraria della modernità, come il panopticon [2] (il cui focus poggia nella visione di controllo che il sorvegliante, all’interno dell’edificio, può esercitare sui reclusi senza essere visto, costringendo gli stessi, con tale consapevolezza, ad un comportamento conforme alle regole) implementano un’idea di potere punitivo non più fisicamente efferato ma efficacemente incorporeo, non più spettacolare ma discreto, non più dispendioso di grandi energie o risorse ma parsimonioso. Gli sguardi avidi della folla sul corpo del condannato sono stati sostituiti da un’osservazione attenta e qualificata, i cui obiettivi rieducativi e disciplinari rappresentano un efficace viatico verso l’affermazione delle strutture totalizzanti quali appunto il carcere, ma anche il manicomio, l’ospedale e, per molti versi la fabbrica.

L’arido controllo postmoderno

La lunga fase di successo storico e politico del controllo moderno in funzione etico-disciplinare è qualcosa di difficilmente negabile, e non solo all’interno delle istituzioni aventi finalità penali o correttive, ma anche all’interno di quelle produttive (per Foucault dovremmo considerare le une propedeutiche alle altre). Ma l’innovazione tecnologica e soprattutto l’eccedenza postfordista del tardo ventesimo secolo non sono scevri di conseguenze: il passaggio a un regime in cui la disoccupazione rappresenta un fatto strutturale, che penalizza la produzione materiale a favore dell’informazione e dell’immaterialità, che sostituisce la centralità della classe operaia con una forza lavoro globale e indefinita [3] produce da un lato mutamenti socioeconomici profondi che conducono allo smantellamento di apparati sociali, politici e industriali, dall’altro esercita una forte influenza anche sul senso e sull’esercizio della penalità [4].

La post-modernità del ventunesimo secolo raccoglie e ridefinisce ulteriormente tali frutti, erodendo e distorcendo il significato e lo scopo della “costruzione” di corpi ed anime docili: nel governo dell’eccedenza, rieducare penalmente diviene una pratica disfunzionale, un lusso superfluo, mentre diviene essenziale anticipare la disciplinarità, ponendola all’interno di pratiche di vita quotidiana, quali l’ambito del lavoro (o per meglio dire dei lavori, vista l’infinita tipologia regolativa che li contraddistingue) o l’accesso a quello che rimane del welfare state [5].

La filiera disciplinare “classica” appare scompaginata: se essa ha rappresentato, almeno secondo Foucault, il punto nodale della tecnologia (anche sociale) funzionale allo sviluppo della modernità e del capitalismo, la perpetua visibilità elettronica, biometrica, digitale alla quale tutti siamo (seppur a diverso titolo) sottoposti, racchiude in sé il senso di una regolazione sociale spietata e a-morale, che si riferisce agli individui solo nei termini della valutazione del rischio che essi possono costituire, o del pericolo che possono produrre. La presenza coattiva del soggetto colpevole/pericoloso/indesiderabile in quel determinato spazio carcerario, o la sua esclusione da altri spazi riservati ai normali e integrati, diviene mezzo e al tempo stesso finalità: nel momento che non ha più senso risocializzare, o per meglio dire, reinserire, diventa molto più pratico, efficace e diretto il contenere, l’escludere, il reprimere, l’incapacitare. In questo senso la visibilità del condannato, in particolare nel cosiddetto mondo occidentale, compie un ulteriore passo: dopo essere passata dalla fase spettacolare premoderna a quella tecnico-analitica individualizzata della modernità, ora sembra essere divenuta un mero flusso di controllo e sorveglianza, scevro da implicazioni morali e esaminabile solo in termini quantitativi e attuariali [6].

Il rovesciamento della prospettiva

Ma un simile approccio non appare del tutto esaustivo, perché la sorveglianza ed il controllo, anche nella fase di massima espansione, non possono essere visti solo in chiave unidirezionale e panottica. C’è chi, difatti, assume una chiave di lettura in qualche modo antitetica e speculare, quella cioè del synopticon [7]: in altre parole, quella delle moltitudini che osservano i pochi. Il presupposto è che in fondo non sarebbe mai venuta del tutto meno la caratteristica di comunicazione spettacolare del potere e la sua modalità di acquisizione del controllo e del consenso, essa si sarebbe semplicemente evoluta, e avrebbe assunto una funzione veramente rilevante proprio a partire dalla modernità, manifestandosi in modo progressivamente sempre più accentuato insieme allo sviluppo dei media e della comunicazione tecnologica di massa: in ordine cronologico prima la stampa, poi il cinema, quindi la radio e, dulcis in fundo, la televisione hanno garantito ad un numero sempre maggiore di “molti” di conoscere, ascoltare, quindi vedere quello che dicono e fanno quei “pochi”, eletti a promuovere determinati modelli, stili di vita, messaggi politici e di politica penale in particolare. All’interno di questo processo, è sin troppo semplice evidenziare che proprio il criminale, il suo corpo e la sua mente, già “oggetti” per eccellenza dello sguardo panottico, siano divenuti poi, con l’evoluzione e l’ampliamento della comunicazione di massa, il principale centro d’interesse dell’approccio synottico: si pensi alla progressiva espansione dei generi crime, noire e poliziesco, alla presenza di trasmissioni televisive di approfondimento integralmente dedicate, alle ricostruzioni ormai sistematiche, coi loro corollari di stereotipi e panico sociale, di fatti di cronaca nera. Potremmo allora, su questi presupposti, iniziare a riflettere sul fatto che la visione del corpo del soggetto colpevole/condannato/pericoloso vada affrontata da piani differenti e con la consapevolezza della compresenza di strumenti non esclusivi, ma complementari. Un allargamento, se non addirittura spostamento di prospettiva, ancor più amplificato dall’espansione vertiginosa dei nuovi media, coi loro elementi di impatto sociale, di libertà comunicativa e di controllo occulto ancora in divenire.

Quale obiettivo?

È su questi presupposti che si tenta di analizzare il video che vede Battisti come protagonista (suo malgrado). Chiedendosi in primo luogo quanto abbia inciso e incida sull’orientamento della collettività una certa costruzione mediatica, ormai dominante, del crimine e del criminale, rispetto ai principi costituzionali vigenti. Inserendo quindi, su questo substrato già imponente, l’enorme impatto comunicativo e di costruzione consensuale dei nuovi media. In tale cornice, il corpo di Battisti entra in uno spazio dimostrativo e ci riporta, fatte le necessarie e debite proporzioni sulle differenze in termini di crudeltà dei trattamenti, ad una spettacolarità pre-moderna e a un archetipo di partecipazione popolare al potere punitivo statuale (sovrano?) che sembrava in un certo senso superato e dimenticato. La post-modernità viene invece garantita dalla diffusione del video in uno spazio virtuale, e non fisico: non ci sono folle oceaniche ad accogliere il condannato all’aeroporto, è il social network che crea il profilo di evento di massa e ne costruisce i fondamenti consensuali. La post-modernità viene inoltre ribadita dal destino esclusivamente punitivo-escludente-contenitivo riservato al corpo del condannato. È una saldatura, dati i presupposti politici, socioeconomici e culturali del periodo, solo apparentemente singolare: è volta a creare un consenso ampio, collettivo, anche se non è ancora chiaro ove esso conduca e se sia in grado di creare nuove soggettività, e quali. Quello che invece risulta evidente è che tale saldatura riesce a bypassare in un sol colpo buona parte della modernità penale, con i suoi vizi e le sue virtù, con la sua eterogenesi dei fini e i suoi tentativi, spesso confusi, di umanizzazione degli stessi.

Ed è un ministro della nostra Repubblica l’artefice diretto, probabilmente inconsapevole, di tale saldatura. La sua difesa candida e un po’ impacciata rispetto ai numerosi rilievi circa le possibili violazioni normative e costituzionali insite nel video e nella sua diffusione vale più di mille esempi: “È un video postato su facebook, non lede nessuna dignità e mi sembra abbastanza assurdo che nelle 48 ore successive alla cattura di Battisti, il mio video diventi il tema principale”.

È solo un video su facebook, bellezza.

Avanti con un altro.

Gian Paolo Di Loreto –  giurista, specializzato in criminologia clinica presso l’Università di Genova, si occupa in ambito istituzionale di questioni attinenti a minorenni e giovani adulti, devianza, salute mentale e dipendenze. Seguendo un’impostazione basata sull’approccio criminologico critico, ha pubblicato diversi articoli in riviste specializzate privilegiando la tematica del controllo sociale.

In copertina, “Il supplizio di Damiens”

NOTE

[1]

FOUCAULT, M. (1993): Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Einaudi, Torino (ediz. originale Parigi 1975, trad. it. Einaudi, Torino, 1976)

[2]

La parola Panopticon deriva dal greco ed è una composizione di pan, che vuole significare il tutto, ed opticon, che si riferisce all’attività visiva. Esso fu ideato da J. Bentham. BENTHAM J. (1787): Panopticon, in The Works of Jeremy Bentham, vol. IV, New York, ed. 1962

[3]

DE GIORGI A. (2002): Il governo dell’eccedenza, Ombre Corte, Verona

[4]

GARLAND D. (2004): La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano. SANTORO E. (2002): “Le politiche penali dell’era della globalizzazione”, Rassegna penitenziaria e criminologica, 3/2002, pp. 75-97

[5]

WACQUANT L. (2006): Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, DeriveApprodi, Roma

[6]

ROSE N. (2000): “Government and control ”, British journal of criminology, Vol. 40, pp. 321-339

[7]

Anche la parola Synopticon deriva dal greco ed è una composizione di syn, che vuole significare “insieme”, o “allo stesso tempo”, ed opticon, che si riferisce ancora all’attività visiva. V. MATHIESEN T. (1997): “The viewer society: Michel Foucault’s ‘Panopticon’ revisited”, Theoretical Criminology, Vol. 1, n° 2, pp.215-234

BREVE BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

BECCARIA C. (1765): Dei delitti e delle pene, Livorno, Marco Coltellini

BENTHAM J. (1787): Panopticon, in The Works of Jeremy Bentham, vol. IV, New York, ed. 1962

DE GIORGI A. (2002): Il governo dell’eccedenza, Ombre Corte, Verona

FOUCAULT, M. (1993): Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino (ediz. originale Parigi 1975, trad. it. Einaudi, Torino, 1976)

GARLAND D. (2004): La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano.

LYON D (2002): La società sorvegliata, Feltrinelli, Milano

MATHIESEN T. (1997): “The viewer society: Michel Foucault’s ‘Panopticon’ revisited”, Theoretical Criminology, Vol. 1, n° 2, pp.215-234

ORWELL G. (1950): 1984, Mondadori, Milano

ROSE N. (2000): “Government and control ”, British journal of criminology, Vol. 40, pp. 321-339

SANTORO E. (2002): “Le politiche penali dell’era della globalizzazione”, Rassegna penitenziaria e criminologica, 3/2002, pp. 75-97

WACQUANT L. (2006): Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, DeriveApprodi, Roma

da Shockmag

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