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La nuova “resistenza” per un carcere più giusto e aperto al mondo esterno

Viaggio negli istituti penitenziari della Penisola: tra strutture obsolete e affettività negata, il racconto della solitudine di chi ci vive e ci lavora

Come lo immagini il carcere tra vent’anni? È questa la domanda che è stata posta alla chiusura delle interviste, nelle tappe del mio tour attraverso le carceri. A viaggio terminato, io invece mi chiedo cosa penseranno di noi le persone tra vent’anni.

A Lamezia Terme Sandra Berardi, dell’associazione Yairaiha, è convinta che le attuali condizioni detentive possano essere paragonate a dei moderni campi di concentramento. Il confronto, ovviamente, è azzardato, ma rende bene il senso di oppressione, ingiustizia e solitudine che avverte chi dietro le sbarre ci vive o ci lavora quotidianamente. L’articolo 27 della nostra Costituzione nasce dalle atroci sofferenze anche di chi, internato nei lager, si era ripromesso che nessuno avrebbe mai più dovuto subire quegli orrori e che quindi le pene non potessero consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Ma se penso a Poggioreale, così come lo descrive Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli, non sono certo che questo principio venga rispettato: sovraffollamento e strutture fatiscenti offendono la ratio dell’articolo 27.

In queste condizioni, la rieducazione del condannato, pur prevista dalla nostra Carta, resta una chimera. E l’alto tasso di recidiva non fa che confermarlo. Don Vincenzo Russo, Cappellano del carcere di Sollicciano, sostiene che il condannato si senta in credito nei confronti della società per tutto ciò che subisce durante la detenzione e che alla fine non ne esca una persona migliore.

E come potrebbe riabilitarsi, ad esempio, chi ha subito il carcere duro? Può il 41 bis non essere considerato un trattamento contrario al senso di umanità? Roberto Cavalieri, garante dei detenuti a Parma, ci racconta le rigide regole che scandiscono la vita dei reclusi nella sezione speciale. Se l’intento del legislatore, figlio di una stagione emergenziale, era recidere le ramificazioni mafiose all’interno delle carceri, mi chiedo oggi quale sia la ragione per la quale le persone soggette a tale regime non possano leggere un quotidiano o guardare la televisione o augurarsi buon pranzo.

Qual è il ruolo dello Stato? Il braccio vendicatore o il difensore della Costituzione? Carmelo Musumeci, in carcere per la maggior parte della sua vita, è convinto che un comportamento vendicativo da parte delle istituzioni nei confronti dei mafiosi non faccia che crearne il mito.

Non sarebbe allora il caso di ripensare drasticamente un concetto ormai obsoleto del carcere? La Costituzione parla di pene al plurale. E invece, come sostiene Samuele Ciambriello, garante dei detenuti per la Campania, in Italia la pena è una sola: la prigione. In periodo di Covid molti magistrati di sorveglianza, applicando le norme dello Stato, hanno accelerato l’iter per l’ammissione a pene alternative a circa 400 persone. Per gran parte dei media la semplificazione è la scorciatoia più efficace e il messaggio che passa è: “Covid libera tutti. In galera non ci va mai nessuno”. Eppure, sono talmente “pochi” i detenuti in Italia, che la Cedu fa un copia incolla ogni anno per scrivere la sentenza con cui ci condanna al pagamento di una sanzione per il sovraffollamento.

Il carcere deve essere l’estrema ratio, anche per Bernardina Di Mario, direttrice del penitenziario di Perugia. Attraverso l’organizzazione di eventi aperti ai familiari dei detenuti e alla cittadinanza, Di Mario si adopera affinché le galere non siano percepite come monadi isolate, ma come reti interconnesse con la “vita di fuori”. Ne è fermamente convinta anche Fiammetta Borsellino, a cui viene in mente una sola parola: apertura. Apertura all’esterno, apertura mentale della società civile per favorire percorsi di incontro e reinserimento sociale.

Ma il carcere non è solo obsoleto come concetto, anche le strutture cadono a pezzi. Davanti a Regina Coeli, chiacchierando con Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, scopro che originariamente la costruzione ospitava un monastero e solo successivamente venne trasformato in carcere. L’architettura e la disposizione degli spazi interni stride con la visione futuristica di Alessandro De Rossi, vice presidente del Centro Europeo Studi Penitenziari, che pone l’accento sull’importanza dell’affettività dietro le sbarre, per non privare di questo diritto anche i familiari dei detenuti che non hanno commesso alcun reato. La stanza dell’amore, però, resta un’utopia per il sistema penitenziario italiano.

L’amore non oltrepassa le spesse pareti degli istituti. Anzi, il carcere quasi sempre è un luogo invisibile, dove rinchiudere emarginazione e devianza. Paola Cigarini, volontaria a Modena, lo descrive come collettore di ogni disagio: dalla tossicodipendenza al disturbo psichico. Un contenitore chiuso che, come una pentola a pressione, può scoppiare da un momento all’altro. Come purtroppo è successo a marzo, quando durante le rivolte alcuni tossicodipendenti sono riusciti a entrare in possesso del metadone e ne hanno abusato, per qualcuno l’overdose è stata fatale.
Tossicodipendenti, migranti, persone con disturbi psichici. È questo il grosso della popolazione carceraria. E nella maggior parte dei casi, in cella ci finisce chi non ha subito alcuna condanna, vittima di un uso disinvolto delle misure cautelari: la percentuale di detenuti in attesa di giudizio è troppo alta per un Paese civile.

A volte lo sprone per le carcerazioni preventive è dato dai pregiudizi: sei calabrese allora sei mafioso. È il caso di Platì, dove in una notte del 2003 migliaia di uomini in divisa cingono d’assedio il paese nell’ambito dell’operazione “Marine”: oltre cento gli arresti e alla fine solo otto le condanne. Tra questi anche l’ex sindaco, che nel cuore della notte viene svegliato e tratto in arresto. Verrà rimesso in libertà dopo 15 giorni in sede di convalida del Tribunale del riesame. Ma il calvario giudiziario durerà anni. La colpa più grave? Essere nati a Platì.

Più grave ancora, il caso di Gaetano Santangelo, arrestato sedicenne con l’accusa di omicidio e assolto dopo 37 anni, passati tra detenzione e latitanza. Una vita distrutta da una giustizia iniqua e persecutoria.

Nel corso del mio viaggio ho incontrato persone con cui sono entrato immediatamente in sintonia. Donne e uomini che, azzardando un paragone, possono essere considerati la moderna “resistenza”: quotidianamente impegnati per rendere più dignitosa la vita di migliaia di detenuti. E così fra 20 anni a chi mi chiederà cosa ho fatto per arginare questa vergogna, potrò rispondere: ho pedalato.

Roberto Sensi

da il dubbio

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