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La libertà di espressione non è un’opinione

salvini

A distanza di settimane dal dibattito pubblico che si è creato attorno alla libertà di espressione credo che sia quanto mai cruciale provare a fare un’analisi di questo concetto – anche se colpevolmente fuori tempo, dunque fuori dai picchi di attenzione e viralità del web. Può essere forse un’occasione per darci più tempo nell’elaborazione dei contenuti senza sottostare alla volatilità dei trending topic, sviluppando il ragionamento oltre la contingenza visto che il tema continuerà ad essere centrale nel prossimo futuro.

I termini inquietanti e grotteschi con cui sono stati approcciati il concetto e la pratica della libertà di espressione hanno preso le mosse dalla visita di Salvini a Napoli lo scorso 11 marzo. La manifestazione di protesta contro il leader della Lega Nord ha suscitato da parte della città benpensante e del mondo degli intellettuali (?), sempre dediti a fornire la loro opinione a colpi di editoriali sulle testate nazionali, un moto di paradossale difesa del politico. Come se non fosse bastata la protezione istituzionale garantita dalla mano super partes del democraticissimo Ministro Minniti, Salvini ha interpretato il ruolo della vittima, dell’escluso, del debole contro i poteri forti tanto da indurre moti di compassione. La difesa della libertà di parola del leghista si è appoggiata alle fonti giuridiche (la Costituzione), a quelle filosofiche (la carta jolly, valida in ogni occasione, di Voltaire e quella che si vuole un po’ più colta della democrazia antica della Grecia) e a quelle storico-politiche («l’antifascismo insegna che non bisogna silenziare nessuno, altrimenti riproduciamo un atteggiamento fascista»). Poco importa cosa dica il leghista, con quali mezzi e da quale posizione. In astratto, Salvini deve parlare liberamente esprimendo i contenuti e le forme a lui più congeniali. Non è democratico, dunque, contestarlo, interromperne i comizi, fare in modo che una città si mobiliti per delegittimarlo.

In un’epoca in cui i cosiddetti populismi reazionari si stanno diffondendo nella società, seppur per adesso non capaci di arrivare alla guida dei governi nazionali – con l’eccezione di Trump -, l’attenzione sui contenuti e i messaggi che circolano nei canali comunicativi non deve essere un’attività secondaria. I social network rendono pervasiva la trasmissione di informazione grazie alla connessione h 24 dei nostri smartphone, esponendoci ad un flusso di notizie iper-rapido. Sebbene una società che ha un accesso aperto all’informazione sia indubbiamente più libera, non dobbiamo dimenticarci che il web non è uno strumento neutro di cui si ha il pieno controllo. Il modo in cui vengono presentati i fatti, le emozioni che vengono associate in base al contesto storico-politico, la loro concentrazione in lassi di tempo determinati non sono fattori esterni alla notizia: ne sono in tutto e per tutto parte integrante. Pubblicare su facebook il video di una signora con un hijab che dà una borsata ad un’altra donna su un autobus mostra una serie di immagini fuori contesto che in sé direbbero poco rispetto alla vicenda. Le immagini, però, assumono un significato specifico quando a postarle è, per fare un nome a caso, un leader con un vago accento milanese di un partito dichiaratamente xenofobo e islamofobo: l’utente vi vedrà, senza aver bisogno di ulteriori argomentazioni, uno scontro tra civiltà in cui la religione musulmana dimostra la sua incompatibilità con le libertà occidentali. 

Oppure pensiamo alle cifre ed ai calcoli matematici fatti alla lavagna per descrivere il numero dei migranti arrivati sulle coste italiane, la percentuale di profughi che ottengono l’asilo e quella delle persone a cui viene rifiutato. E’ ovvio che, se non si indagano qualitativamente i numeri, ossia se non ci chiediamo le motivazioni all’origine dei dinieghi causati dalla provenienza geografica e dal meccanismo di valutazione delle commissioni territoriali, il risultato finale dirà che l’Italia è invasa da gente che non ha in assoluto il diritto di restare o di muoversi in Europa. Così come sputare odio sulle ONG, sulla scia della dichiarazione di un giudice – non di un’indagine! – fatta dopo il rapporto di Frontex, associa inevitabilmente il salvataggio di vite umane a intrecci criminali con gli scafisti. Il tutto senza considerare che Frontex è la prima responsabile, assieme alle istituzioni europee e nazionali, dei naufragi in mare, visto che gli obiettivi stessi dell’Agenzia sono il pattugliamento e la vigilanza delle frontiere esterne dell’Unione Europea e non certo i salvataggi di vite umane. Insomma, la libertà di espressione, in questo caso di Salvini ma potremmo parlare di moltissime persone “comuni” e di altri politici, viene spregiudicatamente impiegata per dare una versione dei fatti utile al proprio ragionamento politico.

Tralasciando il tema della post-verità (post-truth), credo che qualsiasi persona che si interessi un minimo di politica possa concordare sul fatto che i politici, in generale, mentano; se poi quella stessa persona ha avuto il piacere di leggersi Foucault e il pensiero post-strutturalista, capisce benissimo che da sempre la verità e la conoscenza non sono scevre dalle relazioni di potere, ma sono prodotti delle pratiche quotidiane e politiche. La verità non è dunque separata dalla percezione che produce nei suoi fruitori, i quali ne useranno i criteri per comprendere un determinato fenomeno. 

I populismi reazionari sanno muoversi benissimo tra le regole di questo gioco, approfittando della crisi valoriale delle società occidentale per proporre delle opzioni identitarie che hanno il merito di essere dei salvagente, delle ancore di certezza nel presente precario e inquieto per il futuro dei nostri istituti di cittadinanza. La diffusione dei loro messaggi carichi di significati razzisti, sessisti e fascisti diventa pervasiva e si erge a “verità pura” che resiste contro i tentativi di censura “buonista” dei “globalisti”, degli “euronomani” e delle banche. Ed è una verità a cui possono partecipare tutti, soprattutto coloro che sono stati lasciati indietro oppure che ritengono di non essere mai stati ascoltati dalla politica, grazie ai commenti su facebook che non richiedono la mediazione di un soggetto terzo per avere e discutere delle informazioni. Vi siete mai chiesti perché Salvini e tantissimi altri concludano molto spesso i post con un “voi che ne pensate”? 

In questo modo, le informazioni trasmesse – che sono sempre politiche, come detto più sopra – plasmano i soggetti a cui si rivolgono, i quali fanno vivere quella verità perché ci credono e ritengono che sia il giusto paradigma da applicare al mondo. Siccome il web virtuale non è separato dalla realtà quotidiana, anzi ne è un elemento determinante al giorno d’oggi, si capisce perchè quanto riportato sui social network si traduce in atteggiamenti intimidatori, aggressivi, discriminatori e violenti nei confronti delle cosiddette minoranze. Se la “verità” dice che i migranti ci invadono e ci vogliono rendere schiavi dell’Islam, perché non dovrei difendermi attaccandone uno o fomentando ulteriormente l’odio nei suoi confronti? Se la “verità” dice che le donne devono essere un oggetto sessuale attraente in funzione dell’uomo, perché non imporre alla mia compagna i miei stili di vita? E così via. Ben lungi dal fare una campagna anacronistica contro “l’Internet”, voglio semplicemente dare alcune sfaccettature (non esaustive, sia chiaro) di un problema attualmente irrisolto legate alle nuove tecnologie e al digitale.  

Le parole, in sintesi, hanno un effetto pratico di verità: la libertà di espressione è inseparabile dall’azione del pensiero che viene enunciato. Pertanto, non tutte le parole sono uguali. Di qui proviamo a fare alcune valutazioni, andando al di là della vulgata che definisce una libertà d’espressione general generica facendola risalire alle nostre tradizioni storiche e politiche occidentali. 

Innanzitutto, chi sostiene che i migranti vadano rispediti a casa loro, che le donne non debbano scioperare, che le persone omosessuali non debbano avere diritti va in contraddizione con l’assunto di partenza per il quale può esprimersi: la libertà di espressione che gli concede la parola esclude la voce di altri soggetti. Quando i leghisti parlano di migrazione non fanno parlare i migranti; i loro desideri e i loro bisogni, la storia della loro fuga semplicemente non sono contemplati. Sono soggetti senza parola, quindi né ora né mai cittadini. Ai grandi paladini del libero pensiero potrà apparire strano che la democrazia occidentale operi per esclusione rispetto ad alcune persone. Ma, del resto, se quegli stessi paladini approfondissero un minimo la grande storia democratica che fanno risalire all’antica Grecia, si accorgerebbero che nell’Atene del V secolo a.c. non proprio tutti potevano parlare: l’isegoria, la stessa possibilità di parlare in assemblea, era riservata ai soli cittadini autoctoni maschi e liberi. 

La difesa della libertà di espressione non è automaticamente inclusione di tutti. Anche nel secolo dei Lumi i servi, i domestici, i lavoratori giornalieri e i salariati, i coloni e le donne erano, al massimo, giudicati cittadini passivi privati della partecipazione politica diretta, con buona pace (del biografo) di Voltaire. Non per niente per rendere pubblica la voce del popolo i cittadini passivi hanno dovuto fare una cosa: prendersi le piazze, occupare l’Assemblea Generale, fare i blocchi delle strade, assaltare i luoghi ed i simboli del potere – tutto col fucile in spalla, eh! 

In secondo luogo, dobbiamo considerare la posizione del parlante, visto che il linguaggio verbale non è un qualcosa di indipendente da chi ne pronuncia i termini. Salvini, e i leader europei dei partiti della destra estrema, hanno dei mezzi di comunicazione potentissimi, ben oltre lo spazio non ancora intergenerazionale dei social network; basti pensare all’occupazione d’assalto di ogni programma televisivo, radiofonico, delle uscite mediatiche (dormire nei centri d’accoglienza, farsi i selfie di fronte al rastrellamento etnico dei migranti). La sua parola è legittimata ed entra a pieno titolo nel mondo delle opinioni e del pluralismo, fa parte della governance che deve mediare tra tutti gli interessi per quanto se ne dichiari antagonista (pensiamo a tutte le leggi destrorse approvate ultimamente dai sedicenti governi di sinistra). 

Di conseguenza, per tornare alla difesa benpensante di Salvini, non capisco come una manifestazione di dissenso e il rifiuto di ospitarlo in un luogo pubblico da parte dell’amministrazione di una città possano minare la sua libertà di espressione. Lui ha già tutto ciò che gli occorre per esprimere il suo odio e per fondare il suo partito sovranista; gli individui che invece non possono esprimersi liberamente a causa della nuova repressione urbana, oppure a causa dei mezzi molto più limitati di cui dispongono, sono proprio quelli colpiti dalla discriminazione leghista. Di fronte a questa disparità di capillarità e di diffusione del proprio pensiero, quali altri modi avrebbero potuto utilizzare gli esclusi o gli spossessati di tali mezzi, se non affermarsi con una manifestazione di dissenso? Era ed è l’unica possibilità per arrivare a sfidare un’opzione politica della portata della Lega.  

La formalità della libertà di espressione che evita di affrontare questi nodi è semplicemente uno specchio per le allodole. Certo, se tutti gli esseri umani fossero per natura uguali ed avessero gli stessi diritti, dovrebbero godere nella stessa misura della libertà di parola. Peccato che questa sia pura astrazione; a dirlo non è solo chi scrive, ma all’incirca quattrocento anni di storia europea da quando si è affacciato all’interno del nostro mondo politico il concetto di personalità astratta. Tutti siamo detentori di parola e proprietà e quindi uguali su di un piano formale di fronte alla legge, ma siamo sicuri che tutte le proprietà siano della stessa grandezza e che tutte le parole abbiano lo stesso peso? Evidentemente, per la libertà di espressione universale tutti dovremmo partire da un punto x, quando è chiaro che nella realtà c’è chi ha il privilegio di avere il suo punto di partenza a x+10 e chi invece si trova addirittura ad un valore negativo dell’incognita. 

I “sinceri democratici” che sguainano le spade per proteggere la libertà di espressione universale vorrebbero che ognuno rispetti l’opinione altrui, che ci sia un dibattito regolamentato dallo scambio orizzontale e civile a partire dall’uguaglianza di ogni pensiero. Per questo – dicono i “sinceri democratici” – dobbiamo usare dei canali che permettano il reciproco ascolto e che facciano accettare, ai fini dell’equilibrio politico, le opinioni altrui. Quando gli altri parlano, non è possibile dissentire e manifestare la propria contrarietà. C’è un problema, però, che a nessuno dei benpensanti viene in mente. Ogni volta che viene imposta un’unica modalità, incasellata in queste categorie formali, della libertà di parola, qualcuno rimarrà sempre completamente sprovvisto di diritti. Da una parte, come dicevo prima, sono proprio i populisti reazionari a contraddire, anche se ne usano tatticamente il concetto, i termini della libertà di espressione. Dall’altra, si obbliga chi non è ancora del tutto libero a sottostare alla decisione che lo vuole mantenere in questa condizione di inuguaglianza. Gli individui che occupano posizioni di potere e di privilegio, come è il caso di Salvini, possono permettersi di stare al gioco della libertà di espressione perché nessuno ne minerà mai le prerogative o lo priverà dei suoi diritti e strumenti di comunicazione, anzi. Un migrante, una donna, una persona LGBT, un attivista di un comitato ambientale ecc… saranno costretti a rispettarlo, anche se loro non hanno niente di ciò che desiderano e rimangono su di un gradino più basso. 

Lo sapeva bene Rainborough, uno tra i più radicali dei Levellers e partigiano di un ideale repubblicano, in occasione dei dibattiti di Putney del 1647 che hanno, per certi versi, fondato le istituzioni politiche moderne strenuamente difese dai paladini della libertà di pensiero. Per contrastare Ireton e Cromwell, che sostenevano la necessità di rispettare la libera espressione di tutti attraverso la rinuncia al dissenso, e dunque alla contestazione, dice Rainbourough: «Questo gentiluomo [Ireton] dice che se nessuno lo seguirà, se ne starà zitto. Crede di avere tutta la libertà di farlo; noi pensiamo di non averla. Se un uomo ha tutto ciò che desidera, può anche desiderare di starsene zitto; ma io penso di non avere niente di ciò per cui ho lottato, per questo non penso che l’argomento per il quale io debba rinunciare a parlare [in caso di dissenso] sia valido per me tanto quanto lo è per lui.» 

Se stiamo zitti e rispettiamo la libertà di espressione di un razzista, sessista, omofobo e antieuropeista, abbiamo già perso in partenza. Contestare Salvini e non legittimarne la circolazione dei suoi contenuti politici è un atto di giustizia nei confronti dei soggetti perennemente dannati dalla sua politica. Significa anche rimettere alle proprie responsabilità chi usa gli strumenti di comunicazione per fare campagne d’odio discriminatorie, facendo vedere che ad ogni azione c’è una reazione, che non si può pensare di usare il web per dire “la qualunque” senza incorrere in conseguenze. Le mobilitazioni contro di lui non fanno il suo gioco e non inseguono un fenomeno social da società dello spettacolo, ma combattono una realtà pericolosamente emergente.

Ricordiamoci sempre che la libertà di espressione non è un’opinione per cui tutti possono dire ciò che vogliono. Al contrario, deve essere lo strumento per livellare realmente le posizioni (di parola, di classe, di genere e di razza) di tutti e costruire realmente l’uguaglianza. 

Fabio Mengali

da GlobalProject

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