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La forza di legge senza legge e l’esigenza di un movimento antipenale

Intervento di Anubi D’Avossa Lussurgiu come contributo al dibattito per la costruzione di un movimento antipenale

“Una sorta di mescolanza spettrale”. Così scrive Walter Benjamin dello stato di polizia nella sua Critica della Violenza. Opera del 1921, in Germania l’anno seguente al tentato putsch protonazista dei Freikorps di Kapp e due anni dopo l’eccidio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht tra migliaia di altri nella repressione socialdemocratica per mezzo degli stessi Freikorps. Con quella figura, Benjamin si riferisce allo statuto stesso della polizia quale forza di legge messa in opera: nella sua azione, articola, “la separazione tra violenza che fonda la legge e violenza che preserva la legge è cancellata”.

Come altrimenti si presenta la messa-in-scena della cattura e della reclusione del condannato Cesare Battisti, quella o-scena parodia distruttiva di tutte le certezze apparentemente acquisite su un diritto che abbia corpo nella persona detenuta, cartina di tornasole del diritto che afferma avere corpo ugualmente in tutte le persone?

Sorta di spettrale mescolanza di un prendere corpo della sola sentenza di diritto (dell’emergenza) e di completa cancellazione del solco che l‘habeas corpus del giudicato traccia tra il diritto e il potere originario di scempio sul corpo, sulla vita stessa del nemico della proprietà e dello Stato, della città, della polis – o sulla vita fatta ad essi estranea, straniera.

Sorta di spettrale mescolanza che rende sinonimi tra loro governo della polizia e governo della legge, ministro degli Interni e ministro Guardasigilli fattisi sinonimi alla polizia medesima: fino all’identico rituale estetico di vestizione della divisa. E che, nello scempio identico dei videomontaggi della coercizione sul corpo del catturato, identifica tra loro Guardasigilli e corpo di polizia penitenziaria.

Sorta di spettrale mescolanza nella quale infine la legge e la vendetta stesse si presentano sinonime, laddove la forza di legge esercitata dalla polizia corrisponde all’esigenza di vendetta privata fatta discendere da una vittima nella voce del sangue famigliare. Così come all’habeas corpus del condannato corrisponde esclusivamente la solenne dannazione a un inferno in terra. Nel luogo decisivo, quello del linguaggio: “sconterà le condanne all’ergastolo fino alla fine dei suoi giorni”, “marcirà in galera”, “l’infame” significativamente nominato tale in una affermazione di forza ovvero di violenza assoluta dello stato – restituita al suo archetipo mitico di colonna dell’ordine sovrano istituito nella comunità dalla celebrazione di una ordalia.

Benjamin nella sua Critica muoveva la riflessione dalla situazione linguistica della stessa parola “violenza”: in tedesco Gewalt, dall’alto germanico “waltan“, essere forte, dominare, padroneggiare. Come annota Étienne Balibar, “il termine Gewalt contiene una intrinseca ambiguità: esso si riferisce, allo stesso tempo, alla negazione della legge o della giustizia e alla loro realizzazione o all’assunzione di responsabilità per esse da parte di una istituzione (generalmente lo stato)”. Infatti in tedesco moderno Gewalt è femminile, come violenza, e maschile, come potere. Sami Khatib,  esegesi del testo benjaminiano, sottolinea a sua volta che ancora la vigente Legge Fondamentale (costituzione) della Repubblica Federale di Germania all’articolo 20 recita: “Alle Staatsgewalt geht vom Volke aus”, ogni autorità dello stato deriva dal popolo.

Vi è insomma una omonimia dell’autorità, che esige di manifestarsi in forza di legge, alla violenza stessa che le è presupposta quale negazione. Questa intuizione viene sviluppata da Benjamin in una definizione della violenza come concetto esclusivamente relazionale e nella evocazione della violenza rivoluzionaria quale sinonimo di violenza divina ossia esterna e ultranea alla legge: in opposizione alla violenza mitica dove fondazione della legge e suo esercizio si ritrovano appunto omonimi.

Si tratta, come hanno ampiamente articolato Giorgio Agamben e Jacques Derrida, di una irriducibilità semantica, una situazione di aporia, di incertezza, continuamente presente alla legittimazione giuridica del potere pubblico e al governo della sua crisi.

Il richiamo di Benjamin alla questione della violenza, o meglio al suo non detto, implica un passaggio decisivo e celebre di distinzione definitiva tra diritto e giustizia. Nei giovanili Appunti per un lavoro sulla categoria di giustizia raccolti dall’amico Gershom Sholem nel 1916 vengono disinstallate d’un colpo la concezione distributiva della giustizia fissata da Aristotele nell’Etica e la derivazione retributiva e inscindibile dal diritto pervenuta alla modernità per la mediazione giuridica di Ulpiano nella Roma imperiale. Benjamin definisce la giustizia come “categoria etica dell’esistente” e “desiderio di fare del mondo il sommo bene”. E chiosa: “Giustizia è il lato etico della lotta”. Di contro poi a una ulteriore situazione di omonimia nella lingua tedesca, stavolta tra diritto e giustizia, laddove diritto è reso con Recht e giustizia è resa con Gerechtigkeit, il filosofo rileva che in latino, greco antico ed ebraico compaiono invece distinzioni nette: ius e fas, thémis e dìke, mishpat e zedek. Benjamin enuncia: “L’incolmabile baratro che dal punto di vista della sostanza si apre tra diritto e giustizia, ha lasciato il segno in altre lingue”. Incolmabile baratro.

In italiano come nelle altre lingue romanze e in inglese il termine giustizia ha radice nel latino ius che per i Romani indicava il diritto e, al plurale, le leggi. A sua volta la radice di ius è ju, legare: da dove jugum, giogo, e jurare, legarsi con giuramento, come pure jubere, comandare, obbligare a fare.

Risalendo la pista benjaminiana Agamben ha scandagliato nello iustitium, uno dei due istituti giuridici speciali romani insieme alla dittatura, l’esperienza sottesa alla categoria moderna dell’eccezione: diversamente dalla dittatura lo iustitium non implicava la legittimazione di una nuova magistratura bensì prevedeva, di fronte a un tumultus, la possibilità di stabilire una situazione di completa anomia, di disattivazione dell’ordine giuridico, di svincolamento dell’azione dell’autorità dello stato e in suo nome da qualsiasi vincolo di legge. Di qui per Agamben si rivela la fictio iuris, la finzione di diritto, implicata dallo stato di eccezione.

Benjamin nell’ottava delle sue testamentarie Tesi sul concetto di storia, scritte nel gennaio 1940 e pubblicate postume al suicidio con il quale nel settembre delle stesso anno concluse la fuga dalla Francia di Vichy e dalla Gestapo, torna a fare presa su quella situazione di aporia, sul “qualcosa di marcio nella legge”, nella regola del diritto – e sulla sua demistificazione nell’anomia della violenza rivoluzionaria. Benjamin vi risale esplicitamente per rovesciare la teoria della sovranità e dello stato di eccezione che Carl Schmitt aveva formulato proprio nell’esigenza di annettere l’anomia al potere statale senza deporne lo statuto giuridico: “La tradizione degli oppressi – dice la Tesi VIII – ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo arrivare a un corrispondente concetto di storia. Allora ci confronteremo con il nostro compito specifico di creare il reale stato d’eccezione. Così migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo”.

Nel caso italiano non può non saltare agli occhi come l’epilogo spettacolarizzato del caso Battisti richiami precisamente la vigenza di un sostrato eccezionale. Un sostrato mantenuto nel corpo dell’ordinamento penale trattenendo da qualsiasi soluzione e dunque perpetuando oltre ogni limite – all’opposto di come fece la Repubblica stessa al momento della sua istituzione – il luogo mitico per eccellenza di legittimazione di uno stabilimento di leggi per eccezione alla legge, di uno stato di eccezione di fatto: l’esperienza di una guerra civile.

Già a monte dei dispositivi di stato di emergenza convocati all’intera latitudine globalizzata dello stato di diritto europeo dalla guerra globale, come ha ben indicato Judith Butler sul modello di Guantanamo, nell’ordinamento penale italiano l’eccezione pare vigere sempre presente a partire dall’evento di una guerra civile interna: combattuta quarant’anni fa e sospesa tuttora in una legislazione emergenziale non solo mai espunta dall’ordinamento stesso ma reificata biologicamente nei corpi di sconfitti tenuti prigionieri ed espulsi dalla vita comune ab aeterno – fino a estendersi alla varietà dei regimi speciali di sicurezza vigenti nelle carceri per le più difformi fattispecie di eccezione, che hanno alimentato il corso del giustizialismo penale nella storia politica recente della Repubblica.

Ancora Agamben ha condotto in maniera intimamente simile a quella di Benjamin sulla Gewalt una ricerca a partire dal termine greco antico stasis che designa tanto la stabilità – derivatane etimologicamente così come lo stabilire, per esempio una norma, un diritto – quanto invece il rivolgimento. Il radicale di stasis è lo stesso dei moderni stato e istituzione: ma nella Grecia antica con stasis si nominava la guerra civile come un conflitto politicamente necessario, così da indurre la formulazione di una regola, quella di farne seguire una pacificazione dei risentimenti, sospesi non già in una rimozione bensì in una intesa di dimenticanza, l’amnistia.

Si potrebbe ben arguire che la situazione italiana di codifica delle leggi di emergenza, le quali sole hanno condannato Battisti all’ergastolo consacrato dalla messa-in-scena di un’ordalia sulla sua persona catturata, si presenta come una sorta di prototipo localmente eponimo di quella stasis illimitata, denegatrice di ogni amnistia, alla quale il potere contemporaneo esige di dare forma globalmente. La guerra civile come esigenza assoluta e permanente di articolazione e disarticolazione del corpo politico, del Leviatano che deve oggi contenere la vita intera messa al lavoro e insieme farla scomparire nella proliferazione di zone di eccezione affidate al potere di polizia; e che fa agire lo stato penale come un kafkiano automa carnefice posto a guardia, per dirla con Foucault, della microfisica del potere economico contro ogni continua molecolare emergenza di nuda vita. Una esigenza che prende la forma politica della dottrina del Security State, dello stato di sicurezza.

Nel presente politico, considerando il caso Battisti non in sé né solo in rapporto alla quarantennale sospensione del diritto sul sostrato di una guerra civile, ma per come il potere pubblico in Italia ha voluto trarne occasione per richiamarsi spettacolarmente a quella sospensione, dovrebbe risultare lampante la sequenza con l’atteso abbattimento legislativo dell’istituto di garanzia della prescrizione della pena; proprio mentre la parte governamentale più sperimentata dell’opposizione democratica s’incontra con quella attuale del partito del ministro degli Interni insieme agli esponenti nazionali del capitalismo di predazione, all’insegna del “garantismo” nei riguardi della libertà d’impresa.

Altrettanto eclatante dovrebbe apparire la contestualità al passaggio segnato dalla Legge Salvini o Legge sulla Sicurezza. Contesto che è stato invece rimosso all’istante dall’opinione pubblica mediatica, nella quale sulla legge in questione si era pur acceso uno scontro apparentemente asperrimo. Il rischio che quello scontro designi una pura apparenza politica si palesa proprio in questa sua disconnessione dalla sostanza politico-giuridica espressa dall’operazione sulla cattura di Battisti, ossia dal permanente statuto di eccezione posto alla base della rincorsa allo stato di sicurezza. E in effetti nel merito della Legge Salvini la dissidenza istituzionale e di opinione si è appuntata sulla erosione del campo della cittadinanza operata dalle norme sulla iscrizione anagrafica delle persone richiedenti asilo, evitando sistematicamente di focalizzarsi sulla definitiva imposizione di un regime di diritto difforme sui corpi migranti, per il tramite dell’inappellabilità dei rigetti delle domande di asilo tanto quanto soprattutto con il prolungamento dei trattenimenti in detenzione e l’applicazione di procedure parabelliche nel regime delle espulsioni e dei respingimenti.

D’altronde è stato il silenzio, o meglio il confinamento nel territorio di una sociologia compassionevole, ad accompagnare le rivolte e le lotte migranti di fronte all’accumularsi dei dispositivi di una esplicita apartheid giuridica, proprio in termini di sospensione del diritto, nella manutenzione del regime delle frontiere ossia nel controllo e disciplinamento dei flussi: dalla coercizione sui corpi clandestinizzati nel processo stesso di migrazione alla coercizione sui corpi immigrati messi al lavoro sotto il ricatto della clandestinità.

Così ora l’impeto critico contro la torsione a un regime di esclusione raramente oltrepassa una pretesa di difendere il regime produttivo di separazione dal privilegio che si era concretato nei circuiti di controllo dell’accoglienza benevolente.

E così, di nuovo, si elude l’articolazione di questo regime di esclusione con la deriva penale propriamente applicata a ogni forma di perturbazione dell’ordine pubblico, laddove appunto lo stato di diritto tocca il limite di quello di polizia: dal perfezionamento e dall’estensione del dispositivo del Daspo, lungamente messo in prova in una zona di eccezione del controllo sulla socialità qual è quella degli stadi, all’intera gamma di necessità di quella “sorveglianza del territorio” che garantisce al sistema dei campi applicato sugli esclusi il suo doppio nel sistema delle zone esclusive di predazione; fino alla previsione di pene carcerarie esponenzialmente accresciute per forme consuetudinarie delle pratiche di confitto sociale come il blocco stradale o la “invasione”- una occupazione studentesca di una scuola come un presidio di protesta di un’aula decisionale – di spazi pubblici.

Oggi in Italia sul piano del discorso pubblico è solo Salvini in persona, il ministro di polizia al quale si intesta nei fatti il segno politico dell’intero “governo del cambiamento”, ad incaricarsi di rendere chiare le cose concatenando giorno dopo giorno l’enunciazione di tutti gli elementi di uno stato di sicurezza che avanza nella sua forma più radicale e brutale. Come quando anche davanti all’ennesima immane strage in mare rivendica la pienezza della zona di eccezione estesa all’intero Mediterraneo nella guerra alle persone migranti e nella dislocazione neocoloniale delle frontiere e del sistema dei campi. E come quando davanti all’ennesima morte di stato in un commissariato di polizia rovescia sulla vittima la questione della violenza e banalizza in agghiacciante normalità dell’azione di polizia la coercizione fisica, fuori da ogni prescrizione di legge – appunto in forza di legge senza legge.

Oggi in Italia esclusivamente le rivolte dentro e contro i dispositivi carcerari, le pratiche quotidiane delle lotte migranti e il movimento femminista riaccesosi contro i tentativi di vendetta della società patriarcale sembrano levarsi a leggere insieme e a desiderare apertamente di dis-operare in un discorso di libertà gli elementi concatenati dello stato di sicurezza, che di nuovo ricompongono intorno all’eccezione il corpo politico-giuridico come un panottico repressivo.

Si tratta invece degli stessi elementi che qualsiasi presa di voce e di iniziativa, che si ponga “dal punto di vista degli oppressi”, deve con altrettanta energia saper afferrare e indicare quali punti di attacco all’insieme delle lotte sociali metropolitane, delle esperienze di autogestione, del patrimonio di pratiche di riappropriazione, dell’antifascismo conseguente: che esigono ormai persino esistenzialmente di essere supportati da un discorso contro la repressione non oltre rinviabile né più riducibile a una postura difensiva parcellizzata, bensì vincolato alla necessità di articolare un controdispositivo efficace ossia aperto, mobile, proliferante. A partire dal piano che può misurarsi con i dispositivi politico-giuridici determinanti per il conflitto sull’eccezione: quello di una rimessa in movimento capace di investire complessivamente lo spazio politico e il discorso pubblico di un desiderio urgente di dis-operare gli strumenti della minaccia presente di uno stato penale di sicurezza. Una rimessa in movimento, dunque, che si manifesti anche, direttamente, come movimento antipenale.

Anubi D’Avossa Lussurgiu

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