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«La prima fabbrica dell’insicurezza si chiama prigione»

Intervista alla scrittrice Giada Ceri esperta di questioni carcerarie in libreria con “La giusta quantità del dolore”

«Quanto sarebbe la giusta quantità di dolore necessaria e sufficiente a compensare il delitto? Quanto equa la retribuzione?».

Questa e altre le domande che, fin dal titolo – La giusta quantità di dolore ( Edizioni Exorma) – pone e si pone Giada Ceri, da sempre attiva nei progetti del Terzo settore in ambito penitenziario e autrice di romanzi e racconti – quali L’uno. O l’altro ( Giano Editore, 2003), Il fascino delle cause perse ( Italic Pequod, 2009), Gli imperatori. Sei volti del potere ( Melville Edizioni, 2016) –, in un reportage narrativo che indaga spazi e problematiche cardinali dell’universo carcerario, cui nel 2014 aveva già dedicato per la Fondazione Circolo Fratelli Rosselli la cura del Quaderno È una bella prigione, il mondo.

Ma quanto è lunga “la notte” in carcere?. Quanto e con quali esiti la violazione del diritto alla riservatezza incide sulla condizione detentiva?

La violazione del diritto alla riservatezza – più o meno percepita, più o meno occultata – è un problema che non riguarda soltanto la condizione detentiva. Il carcere tuttavia amplifica certi processi: e dunque, muri che si alzano, porte che si chiudono e un’ossessione securitaria che spavaldamente promette soluzioni facili ed efficaci. La tutela della dignità di ogni persona ancora oggi deve fare i conti con il potere punitivo attribuito allo Stato e “sicurezza” ( insieme a “certezza della pena”) è una delle parole più fraintese – quando sono i dati oggettivi a mostrare che più carcere significa meno sicurezza per tutti. La distanza fra reale e percepito si allarga. E, di nuovo, la responsabilità di questo è collettiva: di chi comanda (“governare” non mi pare oggi il verbo adeguato) e di chi si lascia comandare, sorvegliare, illudere e blandire.

A suo avviso, l’istituzione delle REMS ha realmente rappresentato un superamento degli OPG?

La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari – istituzioni totali di contenzione – era una necessità e un dovere e questo è bene ribadirlo, soprattutto adesso. Chiarito questo, è indubbio che ci sono state e ci sono delle criticità nel passaggio alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza: le liste di attesa per l’assegnazione alle Rems, per esempio, alcuni ritardi nel rendere operative le nuove strutture… L’attuazione delle disposizioni di legge non è avvenuta in maniera esaustiva e restano delle lacune, dovute in parte anche al mancato recepimento, da parte dell’attuale Governo, delle proposte elaborate dagli Stati generali dell’esecuzione penale del 2015- 2016. Il pieno ed effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari richiede dunque ancora del lavoro perché le nuove strutture non finiscano per ospitare anche persone con problemi che altrove non si riesce a gestire. Lavoro, dunque, e un’attenzione costante: il momento attuale – non solo sul piano politico ma su quello culturale in senso più ampio – tende fortemente alla regressione e all’involuzione.

Registra un avanzamento, per quanto attiene alla situazione italiana, riguardo l’effettiva applicazione di misure alternative al carcere?

È evidente che ancora per molti, in Italia, quella di “alternative al carcere” rappresenta un’idea peregrina. Eppure, come sottolineo nel libro, la nostra Costituzione parla di “pene”, usa il plurale, non individua il carcere come perno del sistema e unica risposta possibile ad ogni reato. Infatti la riforma dell’Ordinamento penitenziario nata dal lavoro degli Stati generali disegnava un modello diverso di esecuzione penale; ma i suoi esiti effettivi sono stati piuttosto parziali rispetto all’ampiezza della riflessione e della proposta. Ciò detto: meglio poco che nulla, questo c’è e a partire da questo bisogna andare avanti. Ma è indubbio che, nella sostanza, il carcere oggi continua a costituire la modalità privilegiata di esecuzione della pena in Italia. Tutto sembra tornare a chiudersi: le carceri ( come i porti) e la capacità di ragionare in maniera critica, lucida, autonoma senza rinunciare alla propria umanità. Dobbiamo scarcerare le nostre società.

Ci può parlare delle criticità oggi riscontrate in termini di assistenza sanitaria in carcere?

Fra le criticità più gravi c’è quella che riguarda la salute mentale negli istituti di pena. La riforma dell’Ordinamento penitenziario – quella proposta dal precedente Governo, non quella sopravvissuta sotto il Governo attuale – tentava di affrontare e risolvere tale questione, sia pur non in maniera esaustiva. Ma, lo sappiamo, del lavoro svolto negli anni precedenti poco si è salvato e ad aggravare la situazione esistente oggi nelle carceri italiane c’è il ritorno a livelli allarmanti di sovraffollamento ( una condizione che certo non favorisce il mantenimento o il recupero della salute da parte di chi è detenuto, né il lavoro del personale medico, paramedico e penitenziario). Il disagio psichico si addensa, gli atti di autolesionismo e i suicidi aumentano e c’è chi torna a proporre soluzioni di pura edilizia: costruire più carceri. Quando – e non è pura teoria: sono i dati a confermarlo – il punto è che la galera è patogena per sua stessa natura e “salute in carcere” una contraddizione in termini.

Per reiterare un quesito presente nel testo, le necessità di carattere affettivo e sessuale dietrole sbarre rappresentano “un diritto o un privilegio”? Ha osservato passi avanti al riguardo?

No, almeno per quanto concerne gli adulti. La chiusura su questo punto conferma il carattere afflittivo della pena così come ancora oggi è concepita nel nostro sistema. La vita in carcere dovrebbe essere quanto più possibile simile alla vita fuori dal carcere – un carcere secondo Costituzione, intendo. E la nostra Costituzione parla di senso di umanità e di diritti che è interesse di ognuno rispettare. La lesione dei diritti di un singolo o di un gruppo indebolisce i diritti di tutti.

Nel libro, a proposito del linguaggio adottato in prigione, lei evidenzia che “tutto diventa – ino, in carcere”. Il ministero britannico della Giustizia si appresta a varare una significativa riforma delle carceri, introducendo vetri al posto delle sbarre e modificando il lessico. Ritiene che sarebbe auspicabile un modello simile anche in Italia?

Circa i vetri antisfondamento in carcere sono state già formulate alcune perplessità. Per esempio: nelle nostre strutture penitenziarie sarebbe possibile installare un sistema di ventilazione affidabile ed efficace? La sostituzione delle sbarre rischia di risolvere un problema creandone altri. A parte questo, e senza trascurare l’importanza che certi apparenti dettagli acquistano nella vita di chi è detenuto, resta il fatto – sostanziale – che la cella è una “camera” nella quale si dovrebbe soltanto pernottare. Una riforma significativa dovrebbe a mio avviso preoccuparsi di ridurre al minimo la necessità del carcere. Quanto al lessico: una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria invitava, nel 2017, ad abbandonare l’uso scritto e orale del linguaggio infantilizzante che caratterizza il mondo delle persone detenute ( ma usi analoghi esistono anche in altri contesti). Ora, io sono convinta che la lingua abbia una propria forza rispetto alla realtà ( La giusta quantità di dolore trova in questa convinzione il proprio senso), però credo anche che spesso i nomi siano conseguenza delle cose. E dunque: benvenuto tutto ciò che favorisce politiche e atteggiamenti umanamente e costituzionalmente rispettosi, ma la miglior garanzia di questo rispetto sta nella consapevolezza dei diritti che la persona conserva anche quando è detenuta, e nelle scelte coerenti con questa consapevolezza.

Lei approfondisce, anche dal lato umano, la figura dell’operatore sociale. Dopo lo stop alle agevolazioni Ires per gli enti non commerciali presente nell’ultima Legge di Bilancio, il governo avanza al riguardo ripensamenti che si concretizzeranno “nel primo provvedimento utile”. Ritiene che attualmente la politica stia riservando la giusta attenzione al Terzo settore?

L’aspetto umano è fondamentale nel libro per la semplice ragione che il carcere è un’invenzione dell’uomo, per l’uomo o contro l’uomo a seconda del punto di vista. E le persone che ci lavorano ( tutte: dai direttori agli agenti ai volontari etc.) condividono di fatto le stesse condizioni. Riformare l’esecuzione della pena e la giustizia secondo principi anzitutto costituzionali ( non continuiamo a ripetere che la nostra Carta è la più bella?) sarebbe un passo avanti per tutti. Quanto alla sua domanda: da tempo la politica ama rivolgersi “al cuore e alla pancia” dei cittadini, più che alla loro testa. Per ripensare bisogna prima aver pensato: una pratica, mi pare, oggi sempre meno diffusa.

Orlando Trinchi

da il dubbio

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