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Innocente e torturato per confessare. Giuseppe Gulotta chiede 66 milioni per quei 22 anni in cella

Dopo 22 anni di carcere da innocente, picchiato e torturato per confessare un omicidio mai commesso, Giuseppe Gulotta chiede un maxirisarcimento all’Arma e allo Stato italiano.

Per la prima volta, nella storia italiana, viene citata l’Arma dei carabinieri per responsabilità penale nella richiesta di un risarcimento di oltre 66 milioni di euro per il danno esistenziale da errore giudiziario subito da Giuseppe Gulotta, vittima di uno degli errori giudiziari più gravi della storia della Repubblica.

L’atto è stato depositato al Tribunale di Firenze dagli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini, che lo hanno assistito sin dal processo di revisione. Vengono citati, tra gli altri, la presidenza del Consiglio, il ministero dell’Interno, il ministero della Difesa e il ministero dell’Economia. Ad aprile del 2016, ricordiamo, la vittima da errore giudiziario, è riuscito ad ottenere sei milioni e mezzo di euro di risarcimento per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente.

Per decenni era stato considerato un assassino, dopo che lo hanno costretto a firmare una confessione con le botte, puntandogli una pistola in faccia, torturandolo per una notte intera. Si era autoaccusato: era l’unico modo per farli smettere. Ricordiamo che Giuseppe Gulotta oggi ha 60 anni. Quando ne aveva appena 18, nel 1976, è stato accusato di aver ucciso due giovani carabinieri che dormivano nella caserma Alkmar di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Arrestato, è stato costretto sotto tortura a confessare un reato mai commesso.

Chi fece il suo nome? Dopo quella strage, una Fiat, correndo ad alta velocità, si schianta tra due muri. Interviene una gazzella dei carabinieri nelle vicinanze. L’uomo è armato, si chiama Giuseppe Vesco, ha 22 anni. Gli viene sequestrata una pistola calibro 7,65, stesso calibro di quella che ha fatto fuoco sui carabinieri di Alkamar. Vesco viene arrestato e trasportato in caserma ed ammanettato ad un termosifone. Il ragazzo, sotto ordine del comandante, viene massacrato di botte da altri carabinieri. Il brigadiere Renato Olino sente le urla di Vesco, protesta con il suo comandante, ma non viene ascoltato. Nel pomeriggio Vesco viene denudato, viene fatto sdraiare su delle grandi casse e legato da braccia e gambe. Viene messo un imbuto nella bocca del ragazzo e, tappato il naso, viene costretto ad ingoiare ingenti quantità di acqua e sale. Dalla bocca di Vesco devono uscire fuori necessariamente dei nomi. Non avendo successo con litri di acqua e sale, viene eseguita la successiva atrocità: vengono collegati ai testicoli di Vesco degli elettrodi, collegati ad un generatore di corrente. Dopo un interminabile supplizio di acqua e sale e scariche elettriche, il ragazzo, esausto, pronuncia quattro nominativi: Giovanni Mandalà, i minorenni Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, compreso il diciottenne Giuseppe Gulotta. Al processo di primo grado, Gulotta, è stato assolto per insufficienza di prove, ma dopo vari gradi di giudizio è stato definitivamente condannato all’ergastolo nel 1990. Con lui furono accusati innocentemente degli omicidi altri quattro ragazzi, nomi citati da Vesco sotto tortura. Due fuggirono in Brasile per scampare al verdetto, uno venne ritrovato impiccato in cella, un altro ancora morì di tumore in carcere, privato delle cure in ospedale perché ritenuto un pericoloso ergastolano.

Dopo 36 anni, di cui 25 trascorsi dietro le sbarre, Gulotta ha ottenuto la revisione del processo grazie alla confessione dell’ex brigadiere Olino. È stato assolto definitivamente nel 2012. Poi, nel 2016 riuscì ad ottenere un primo risarcimento di 6,5 milioni di euro, la cifra più alta che lo Stato italiano abbia mai sborsato per riparare a un errore giudiziario. Ora chiede il risarcimento per il danno esistenziale da errore giudiziario, sì perché tale richiesta rappresenta un caso emblematico dello “sconvolgimento esistenziale” che ha procurato l’intera vicenda. Ci sono due aspetti che sono contenuti nella richiesta: il primo riguarda la responsabilità dello Stato per non aver codificato negli anni il reato di tortura; mentre il secondo è quello che attiene agli atti di tortura avvenuti in una sede istituzionale da personale appartenente all’Arma che ha generato un gravissimo errore giudiziario.

Damiano Aliprandi

da i dubbio

Quella confessione estorta con botte e scariche ai testicoli

 

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