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Giustizia a Torino: scene di ordinaria repressione

Da anni Torino è un laboratorio nelle tecniche di repressione giudiziaria dei movimenti sociali. Alle molte tessere del mosaico se ne aggiungono due: l’applicazione massiccia del divieto di dimora nella propria città e l’indiscusso protagonismo della polizia nel processo, fino ad esiti paradossali.

Il 13 febbraio si teneva a Torino, al Campus Einaudi, il convegno «Fascismo-Colonialismo-Foibe. L’uso politico della memoria per la manipolazione delle verità storiche», promosso, tra gli altri, dall’ANPI. Un volantinaggio di critica al convegno effettuato nel cortile del Campus dai giovani del FUAN (il movimento universitario legato a Fratelli d’Italia), scortati e accompagnati da un considerevole numero di esponenti delle forze dell’ordine, provocava la protesta di molte decine di studenti che, prima, tentavano di contestare il volantinaggio, poi, si opponevano all’arresto di due tra loro e, infine, in due distinte occasioni, entravano nell’aula concessa dall’università al FUAN, dove danneggiavano gli arredi e scrivevano sui muri slogan antifascisti. A seguito di tali fatti il giudice per le indagini preliminari di Torino ha disposto, in prossimità dell’inizio delle ferie giudiziarie, 19 misure cautelari (3 arresti domiciliari, 7 divieti di dimora dal comune di Torino, 9 obblighi di presentazione quotidiana alla polizia giudiziaria), due delle quali eseguite solo all’inizio di ottobre, nei confronti di altrettanti manifestanti (cfr. https://volerelaluna.it/materiali/2020/02/20/torino-reato-di-antifascismo/ e https://volerelaluna.it/territori/2020/10/16/torino-la-repressione-continua/).

Vale la pena di ragionare su alcuni aspetti dell’ordinanza applicativa (confermata a inizio settembre, con alcuni modesti ritocchi, dal tribunale del riesame) perché consentono di aggiungere qualche ulteriore tassello al modello di repressione giudiziaria dei movimenti sperimentato da anni a Torino (https://volerelaluna.it/talpe/2019/08/13/repressione-giudiziaria-e-movimenti/).

Nell’ordinanza e, ancora prima nella richiesta del PM e nelle annotazioni di polizia giudiziaria, i fatti sono ricostruiti in modo fortemente sovradimensionato e con modalità unidirezionali, che hanno consentito di trasformare delle proteste quasi solo verbali in altrettanti episodi di resistenza collettiva e i tentativi di non fare portare via dalla polizia due studenti, realizzati con il posizionamento di qualche cassonetto sul sedime stradale, in feroci agguati alle forze dell’ordine. Ma ci sono due ulteriori aspetti che merita evidenziare.

1.

Una delle criticità più evidenti dell’ordinanza riguarda la scelta di applicare con grande disinvoltura la misura del divieto di dimora nel Comune di residenza degli indagati.
L’allontanamento dalla propria città degli oppositori politici è una strategia repressiva che attraversa la storia giudiziaria italiana, con apposite misure, dal periodo liberale al fascismo. Oggi la repubblica democratica e la legislazione processuale penalistica hanno adottato un terminologia diversa e gli istituti incentrati sull’allontanamento dal comune di residenza, nella loro applicazione concreta, non hanno la ferocia repressiva del fascismo; ne condividono, però l’assoluto disinteresse verso l’esistenza di chi li subisce. Il principale strumento usato in questi anni è stato il foglio di via obbligatorio, una misura di prevenzione emessa dal questore, elargita con larghezza in tutte le situazioni di conflitto (in Val di Susa se ne contano numerose decine) con modalità che rivelano una predilezione a dilatare gli ambiti della discrezionalità amministrativa, senza curarsi troppo dei presìdi costituzionali in tema di libertà persona e di libertà di circolazione sul territorio nazionale. Sul piano più strettamente penale, si colloca il divieto di soggiorno, una misura di prevenzione, depurata nel corso degli anni degli aspetti più incostituzionali, applicata inizialmente agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose (legge 31 maggio 1965, n. 575), poi allargata, con la legge Reale del 1975, anche a forme di pericolosità politica e, infine, estesa a tutti i possibili destinatari della misura della sorveglianza speciale. Con la riforma del codice di procedura penale del 1988, è stato, poi, inserito nel novero delle misure coercitive, accanto a quelle custodiali, il divieto di dimora. Originariamente, la possibilità per il giudice di dotarsi di una gamma estesa di misure di natura cautelare, diverse tra loro e adattabili alle diverse situazioni concrete, rispondeva a un’esigenza di maggior articolazione del sistema, con la possibilità di applicare misure diverse dal carcere per far fronte ai casi di minor gravità. Nei fatti si è determinata, invece, una sorta di espansione ipertrofica che ha dilatato a dismisura il loro campo di applicazione e, così, le misure non restrittive vengono spesso emesse anche laddove, in passato, nessuna misura sarebbe stata utilizzata.
Nel procedimento in esame sono state applicate ben sette misure del divieto di dimora a Torino ad altrettanti indagati, la maggioranza dei quali nati e cresciuti in città. L’oculatezza della valutazione del giudice è plasticamente rappresentata dal caso di R., studentessa universitaria di 22 anni, nata a Torino, dove ha sempre abitato e dove viveva, al momento dell’esecuzione della misura, con il padre e due fratelli più piccoli.
R. è incensurata e priva di carichi pendenti. Di punto in bianco si trova a esser allontanata dalla sua città (senza che la famiglia abbia risorse economiche sufficienti per pagarle un affitto e mantenerla fuori Torino) e si vede privata della possibilità di studiare, di frequentare i propri familiari e le proprie relazioni affettive ed amicali. La sua vicenda sembra una delle tante misure applicate verso gli antagonisti politici e, invece, in breve tempo assume un aspetto ben più drammatico. Dopo pochi giorni, infatti, suo padre muore d’infarto e R. si trova improvvisamente da sola con due fratelli più piccoli. Il difensore presenta immediatamente una richiesta di revoca della misura alla luce della nuova angosciante condizione dell’indagata che, come è evidente, ha la necessità di ricongiungersi urgentemente con i suoi cari, sia per potersi reciprocamente sostenere dal punto di vista affettivo, sia per occuparsi di tutte le tristi incombenze che seguono al decesso del padre. Nonostante il parere favorevole alla revoca dato dalla Procura inquirente, l’istanza viene respinta. Dietro consunte formule di stile, il vero nucleo forte del pensiero del giudice, che definisce la misura applicata «presidio minimo per fronteggiare le esigenze cautelari», rimanda alla pericolosità dell’indagata per le gravi condotte tenute. La logica di fondo sembra essere questa: hai protestato, hai creato disordine sociale e allora paghi sino in fondo la tua scelta (e tutto ciò che ne deriva sul piano dell’organizzazione della vita personale e familiare), nonostante tu sia incensurata. È una giustizia che non arretra rispetto alla scelta fatta, che mostra la sua faccia di indifferenza e noncuranza del dolore altrui.
Ora, anche a volere miseramente restare sul piano del diritto, non si può non rilevare che vi è una norma nella Costituzione che impone che la pena (ma anche, secondo quella che è l’interpretazione condivisa, la misura cautelare) non sia contraria al senso di umanità. E che, nel nostro codice di rito, l’applicazione delle misure cautelari è regolata dai principi di adeguatezza e proporzionalità, che devono guidare l’esercizio della discrezionalità del giudice e gli impongono di parametrare la misura alla natura e al grado delle esigenze cautelari da tutelare, in riferimento alla situazione soggettiva dell’indagato (e la morte del padre per una ragazza di 20 anni è un evento talmente straordinario e drammatico che richiede un ripensamento del concreto bilanciamento dei valori che vengono in rilievo in sede cautelare, imponendo, nella scelta del tipo di misura da applicare, il minor sacrificio possibile degli spazi di libertà e dei diritti fondamentali della persona). Non solo, ma l’art. 8 della Convenzione EDU «salvaguarda l’unità familiare, intesa quale vincolo tra genitori e figli o tra parenti legati da consanguineità e convivenza effettiva» e «impone allo Stato di contenere le limitazioni all’esercizio del diritto alla famiglia e ai rapporti familiari» (così, Cassazione penale, sez. I, 29 settembre 2015, n. 48684). Come si vede la decisione del giudice si colloca in un contesto normativo che avrebbe imposto scelte diverse. Racconta però, meglio di tante analisi fatte nel corso degli ultimi anni sui processi di criminalizzazione dei movimenti, i rigidi meccanismi su cui si fondano le valutazioni cautelari per reati legati al conflitto sociale.

2.

Il secondo aspetto che merita di essere segnalato riguarda, ancora una volta, l’indiscusso protagonismo della polizia (che, come sempre, si accompagna a un notevole attivismo sul piano mediatico). È la polizia, e più in particolare la Digos, a definire cosa è reato e cosa non lo è, a qualificare giuridicamente le condotte di rilievo penale, a selezionare la platea degli indagati.
Sotto il primo profilo, particolarmente significativo è il travaso, anche terminologico, che connota la ricostruzione dei fatti. Ad esempio, la prima fase della vicenda è connotata da modeste proteste verbali proferite da un ristretto gruppo di studenti che si limita a lanciare degli slogan uditi in centinaia di manifestazioni («Via via fascisti e polizia»). Tali proteste vengono inopinatamente descritte come tentativi di aggressione e arbitrariamente sussunte nell’ambito di un reato concorsuale di resistenza a pubblico ufficiale. È sufficiente guardare le immagini acquisite agli atti del procedimento per comprendere come si tratti di ben altro. Eppure le descrizioni, che transitano senza soluzione di continuità dalle annotazioni di polizia alla richiesta di misura cautelare del PM e, infine, alle ordinanze emesse dal gip e dal tribunale del riesame, parlano esplicitamente di «tentativi di sfondare il cordone dei poliziotti».
Ma è, soprattutto, il sapere della polizia, accumulato in anni di osservazioni, monitoraggi, schedature, che costituisce il presupposto per l’applicazione delle misure e la valutazione delle esigenze cautelari, il linguaggio e l’argomentazione di cui si dotano gli altri protagonisti istituzionali del procedimento.
La Procura (o, meglio, il pool di magistrati che si occupa del conflitto sociale e che ha la curiosa denominazione di «Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Reati in occasione di manifestazioni pubbliche», con una suggestiva equiparazione tra le due locuzioni) appare come una sorta di esecutrice materiale delle indicazioni ricevute dalla Digos, la sua longa manus che veicola all’interno del processo le istanze repressive e preventive che dalla stessa provengono, con un curioso ribaltamento dell’impianto codicistico che la vedrebbe, invece, protagonista delle indagini e che assegna un ruolo funzionalmente subordinato alla polizia. Emblematica sotto tali profili è l’istanza formulata dal PM, su indicazione della Digos, poi non accolta dal giudice, di estendere i proposti divieti di dimora oltre il Comune di Torino. Il PM ha, infatti, richiesto che il divieto di dimora da imporre ad alcuni tra gli indagati ricomprenda anche alcuni Comuni della Val di Susa, posto che, secondo le annotazioni di polizia, gli stessi risultavano attivi nel movimento No Tav. È una logica, questa, che trasforma la misura cautelare da strumento focalizzato sul processo ‒ funzionale ad evitare che il trascorrere del tempo possa provocare un pericolo per l’accertamento giudiziario o possa determinare l’aggravamento delle conseguenze del reato o l’agevolazione di altri reati ‒ a grimaldello di prevenzione generale, destinato alla neutralizzazione delle attività politiche dell’indagato.
Parimenti, per il giudice prevale una logica di affidamento quasi integrale all’impianto tracciato dalla polizia giudiziaria E ‒ si badi bene ‒ si tratta di affidamento che riguarda non solo la ricostruzione storica della vicenda (fondata esclusivamente su video-riprese effettuate dalla polizia scientifica montate a uso e consumo dell’ipotesi d’accusa) ma la stessa valutazione cautelare. In particolare, nel momento in cui ha dovuto valutare la sussistenza di specifiche e attuali esigenze cautelari e i rischi di commissione di reati della stessa specie, il giudice si è interamente affidato non ai certificati penale e a quelli dei carichi pendenti (quasi tutti privi di iscrizioni), ma alle cosiddette schede della Digos, in cui sono annotate anche le denunce riportate dai singoli indagati, senza che venga data notizia dei successive verifiche da parte dell’autorità giudiziaria.
Tutto ciò comporta, come è evidente, il rischio di clamorosi fraintendimenti ed errori. Ad esempio, l’ordinanza in esame dà atto che uno degli indagati, A., «è già stato sottoposto a misura cautelare per fatti della medesima indole di quelli per cui si procede e, ciononostante, ha dato prova di non averne percepito l’effetto deterrente. Trattasi invero di soggetti – la C. come l’A. ‒ indifferenti alle regole della civile convivenza, convinti che le loro battaglie sociali o politiche possano essere condotte con l’uso della violenza o, comunque, che le stesse costituiscano giustificazione per qualunque condotta essi ritengano di tenere». Peccato che per quella vicenda A. fosse stato assolto dal tribunale per non aver commesso il fatto e, dunque, al più era la misura in allora imposta (della durata di una settimana di carcere e di qualche settimana di arresti domiciliari) ad essere risultata incongrua e ingiustificata e non l’indagato refrattario a fare i conti con precedenti esperienze giudiziarie.

Due esempi soltanto. Tessere di un mosaico che danno il segno di come funziona la giustizia a Torino, almeno in sede cautelare, quando di mezzo c’è il conflitto sociale.

Claudio Novaro

da Volerelaluna

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