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Giustizia, non vendetta

È la goduria del tintinnare delle manette. Un minus “atavico”, lucido, incorreggibile di chi solo con la vendetta riesce ad avere la sensazione di sfiorare la soddisfazione.

Nei ruoli mischiati della politica di questi ultimi anni, qui dove tutto è diventato confuso perché piatto, senza valori e senza contenuti la destra con la bava alla bocca (quella che si definiva garantista e almeno su questo punto sembrava irremovibile) ha tentato di riportare il concetto di giustizia indietro di secoli.

E in qualche modo ha fatto breccia. Sia chiaro, è un lavoro che parte da lontano e che ha parecchie colpe anche dalla parte del centrosinistra: dopo Tangentopoli è rimasta nel Paese una scia di veleno che hanno raccolto in molti, per farne materiale infiammabile da propaganda elettorale e il muro del garantismo (che ormai mica per niente è diventata un’offesa, quasi indicibile) sembra definitivamente abbattuto.

In principio fu Travaglio che provò a convincere ampie fette di popolazione che la corruzione, il malaffare e le mafie fossero solo materie per Procure e che la politica dovesse sdraiarsi emettendo solo irretita indignazione: il direttore de Il Fatto quotidiano insiste nel provare a convincerci che la soluzione sia arrestare tutti i corrotti, tutti i corruttori, tutti i mafiosi e chiudere tutto in un bel sacchetto dell’indifferenziata da buttare nel cassonetto.

Quando qualcuno ha provato a controbattere proponendo letture più sociali e storiche dei fenomeni criminali è stato bollato come un difensore dei cattivi. Punto. Fine. Sciò. Antonino Di Pietro (che ultimamente in molte interviste si dice pentito di avere piegato la politica alla semplice attività della magistratura) ha incarnato perfettamente il ruolo dell’angelo vendicatore in difesa degli italiani: come non poteva essere credibile l’uomo che aveva tenuto alto il nome del pool di Mani Pulite? E senza accorgersi, mentre la folla plaudente godeva delle sevizie ai presunti criminali, abbiamo cominciato a perdere diritti un po’ tutti e l’alfabetizzazione del carcere come luogo rieducativo e di reinserimento nella società è diventato roba da anteguerra, fisime da buonisti.

“In galera!” è l’urlo della gente che abbaia per sputare una vendetta travestita da giustizia e “in galera!” è stato l’urlo liberatorio per chi si era convinto di avere trovato una soluzione rapida, efficace e indolore per riparare tutti i mali del Paese. Su quell’urlo il Movimento 5 stelle (che da Travaglio in fondo nasce, raccogliendone le tesi in materia di giustizia) ha spinto ancora di più sull’acceleratore: mentre urlavano “onestà!”.

In fondo stavano semplicemente promettendo di punire dolorosamente i colpevoli. Fino a che, ovviamente, i colpevoli sono diventati loro. A quel punto è cambiato tutto e, come al solito, sono diventati garantisti. Eh sì, perché tutti i colpevoli sono garantisti ma la civiltà di un Paese si misura sul trattenersi dal randello da parte degli innocenti.

Proprio così: se è vero che Berlusconi ha usato un finto garantismo per proteggersi da tutti i suoi processi è altresì vero che nessuno a sinistra ha mai avuto la forza e il coraggio di alzare la voce per aprire un dibattito sereno sulla bassezza della vendetta come agire politico. Schierarsi contro l’idea del carcere come castigo, come ritorsione, in palese violazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione, dovrebbe essere un principio politico per tutti quelli che hanno a cuore i diritti ma il consenso elettorale è troppo allettante per alzare la voce.

Provate a contare quante volte vi capita di sentire un politico di primo piano (e mica solo Salvini) che si augura “il carcere e buttare via le chiavi” frugando in qualche notizia di cronaca. Provate a chiedere che venga rispettata l’idea originaria della detenzione così come pensata dai nostri padri costituenti: vi diranno che siete amici dei criminali, che difendete il malaffare, che odiate gli italiani e altre cose così. Il pensiero diffuso (tutto rancore e punizione) è un muro difficile anche solo da scalfire.

Poi, negli ultimi anni, hanno preso piede anche gli odiatori di destra (capeggiati, ca va sans dire, da Salvini e Meloni) che hanno trovato nel carcere (sempre inteso come punizione finanche corporale) il metodo legittimo per vomitare razzismo ed esasperazione: in carcere qualcuno che ruba una mela (soprattutto se è straniero), in carcere chi tocca i bambini, senza prove senza aspettare il processo, in carcere i ladri di polli (perché vengono a casa nostra) e così via.

Carcere come soluzione definitiva e onnicomprensiva. Carcere per tutti. Un giustizialismo che non è nient’altro che un metodo per tenere alto l’odio che serve per riempire i propri partiti di voti: un continuo instillare paura (anche se non reale e semplicemente percepita) che chiede un pugno sempre più duro, un pugno sempre più forte. l’allarme sociale utilizzato come spinterogeno propagandistico vuole inevitabilmente che la vendetta venga legalizzata e addirittura allenata: ogni vittima passata sotto ai denti della destra è diventata una miccia per sdoganare violenza.

E non è un caso che a Macerata Traini abbia pensato di farsi giustizia da solo ritenendo perfino la galera un mezzo troppo tiepido per punire i (presunti criminali). Ma la giustizia vista come vendetta è un mostro che non si sfama mai e così oggi siamo arrivati al tribunale del popolo che ritiene colpevole qualcuno perché si vede dalla faccia o perché la sua etnia e il suo credo religioso sono oggettivamente sospetti; ci si augura che i nemici politici vengano arrestati (mica sconfitti, no, arrestati) per avere giustizia e addirittura si invoca un tribunale in grado di punire gli atteggiamenti ritenuti non patriottici e anti italiani. Il cerchio si chiude: si è partiti da Tangentopoli e si è arrivati a sospettare e diffidare di tutto e di tutti. Come quello Zanni del Mistero Buffi) di Dario Fo che vittima della propria fame finisce per mangiarsi. Ma sai che soddisfazione punire, perfino con il rischio di punirsi come vittime collaterali.

Giulio Cavalli

da Left

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