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Hanno fucilato un “negro”. Beh, son cose che succedono…

Negare il razzismo

Il 22 giugno del 1964, in Mississippi, furono assassinati tre attivisti che lottavano per i diritti dei neri. Si chiamavano James Earl Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner. Il primo era afroamericano, gli altri due erano bianchi. Successe l’iradiddio. Prime pagine sui giornali, per settimane, intervenne il ministro delle giustizia e anche il Presidente. L’orrore del Mississippi affrettò l’approvazione di una legge storica per gli Stati Uniti: il civil right act. Era una legge contro le discriminazioni razziali.

L’America, nel ‘ 64, specie negli Stati del Sud, era fortissimamente razzista.

Il 25 agosto del 1989 a Villa Literno, provincia di Caserta, fu ucciso un sindacalista nero, che difendeva i braccianti sfruttati dai latifondisti e dai caporali. Si chiamava Jerry Masslo. Anche in quella occasione ci furono le prime pagine per molti giorni. E i funerali di Stato, decisi dal governo Andreotti.

Domenica nelle campagne tra Vibo Valentia e Rosarno hanno fucilato un sindacalista nero, del Mali, che si batteva per i diritti dei suoi fratelli africani, chiusi in un campo profughi indecente e portati a lavorare, tutte le mattine alle cinque, a raccogliere pomodori e frutta per un paio di euro all’ora. In condizioni di schiavitù.

Ieri la notizia, per quel che ho visto io, era in prima pagina solo su due giornali nazionali: Il Fatto Quotidiano e Repubblica. Su tutti e due i giornali in fondo alla pagina, senza gran rilievo. Però, almeno, c’era. Sugli altri giornali, zero. In Italia fucilare un negro – ci metto anche la “g” apposta, per farmi capire da tutti e per stare nel linguaggio corrente – non è una cosa particolarmente efferata o clamorosa. Può succedere.

Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, eletto proprio a Rosarno, non ha battuto ciglio. E’ impegnato in campagna elettorale. Continua a dire che in Italia gli immigrati clandestini “stanno una pacchia”. Non ha pensato di dover fare una visita a Rosarno.

Il ministro del lavoro, Luigi di Maio, neanche lui ha pensato che un ministro del lavoro deve sentirsi chiamato in causa se uccidono un lavoratore. E specialmente se uccidono un sindacalista. E poi, si sa, i Cinque stelle ci tengono molto alla legalità, dicono sempre così. ma forse stavolta hanno creduto che Soumaya Sacko stesse rubando delle vecchie lamiere rugginose, e allora la colpa è sua, il reato è suo. L’omicidio, poi, è uno spiacevole effetto collaterale. In realtà Sacko non stava rubando: ma questo Di Maio non poteva saperlo…

Enrico Mentana, direttore del telegiornale della 7, è stato tra i pochi giornalisti a rimaner colpito dalla barbarie di Rosarno. Ha scritto un post nel quale si lamentava del silenzio del governo. Lo hanno sommerso di insulti. Forse dobbiamo abituarci.

SALVINI: CHE PACCHIA!

Del resto, né i giornali, né, mi pare, i politici italiani si erano molto indignati neanche il giorno prima, quando il ministro dell’Interno ha detto che per i rifugiati in Italia, e per i clandestini, sta per finire la pacchia. La pacchia? Davvero qualcuno, in buona fede, crede che chi ha lasciato la sua famiglia, la casa, gli amici, il lavoro, ha attraversato i deserti, ha superato le angherie delle polizie, ha attraversato il mare con ottime probabilità di lasciarci la pelle, e ora giace in un campo profughi o lavora di nascosto nei campi della Calabria o della Puglia, schiavizzato dai padroni, davvero qualcuno pensa che per queste persone la vita sia una pacchia? O invece dobbiamo adeguarci all’idea che i leader politici hanno il diritto e il dovere di battere ogni record di cinismo per raccattare un po’ di voti?

Del resto, torno per l’ennesima volta sulla questione dei giornali, se in questo paese non esiste una stampa capace di svolgere la sua funzione critica, anche i politici si sentono protetti. E in questi giorni di insediamento dei nuovi padroni, mi pare che la mansuetudine dei giornalisti italiani stia raggiungendo livelli imprevisti. Ve lo immaginate cosa sarebbe successo sui giornali degli Stati Uniti se un ministro dell’interno avesse osato dire che per i clandestini la vita è una pacchia? Il povero Trump, per molto meno, l’hanno fatto a fette.

LO STATO SIAMO NOI.

Non possiamo sapere se il ministro del lavoro, quando ha gridato “lo stato siamo noi”, sapesse di parafrasare il celebre detto del Re Sole ( Luigi XIV, Francia, fine del seicento inizio del settecento). Né se sapesse che quel detto è considerato una specie di epigrafe dello Stato assoluto, totalitario. In contrapposizione con la democrazia e la repubblica. Probabilmente Di Maio non lo sapeva, e non è colpa di nessuno se la sua cultura politica non è esageratamente alta. Uno magari, anche con una cultura politica modesta, può essere un ottimo ministro del lavoro. Però anche qui c’è da restare sbigottiti per l’indulgenza della stampa. Al governo precedente facevano le bucce per qualunque piccola gaffe. Possibile che il vicepresidente del Consiglio possa gridare orgoglioso di essersi impadronito dello Stato? Una volta, una decina abbondante di anni fa, Buffon, allora giovane portiere della Juve, si mise una maglietta con scritto “boia chi molla”. Cioè lo slogan della rivolta di Reggio Calabria del 1970. Scoppiò il finimondo. Lui si difese: «Non sapevo…». Povero ragazzo, aveva poco più di 20 anni e non faceva mica parte del governo! Eppure… Scandalo, scandalo, scandalo. Per Di Maio niente scandalo. Un sorrisetto e via.

BARBANO, VATTENE A CASA.

Nell’indifferenza generale – che ormai è diventata una caratteristica fissa del nostro giornalismo – è stato licenziato il direttore del “Mattino” Alessandro Barbano. Il Mattino è un quotidiano che ha un posto molto importante nella storia del giornalismo italiano. E’ il primo grande quotidiano del Sud, lo fondò la mitica Matilde Serao nel 1892.

Perché hanno mandato via Barbano, che da qualche anno stava facendo un gran giornale, quasi unico per la sua vivacità culturale nel panorama dei quotidiani italiani? Barbano aveva stimolato la redazione e radunato un gruppo di editorialisti di grande livello. Colti e soprattutto indipendenti e anticonformisti. Barbano era, a occhio, l’unico direttore di un importante giornale nazionale ad essere pienamente e coerentemente garantista. Aveva svolto molte battaglie garantiste e meridionaliste. E naturalmente non poteva essere felice di un governo penta- leghista, che mette insieme l’antimeridionalismo della Lega e il giustizialismo dei 5 Stelle.

Lo hanno licenziato per questo. L’editore – che è un imprenditore che non si occupa molto di informazione ma di edilizia e di varie altre attività industriali e finanziarie – ha bisogno di buoni rapporti con il governo, e non si può permettere Barbano. E’ un suo diritto. Ma per il giornalismo è una sconfitta.

Il sindacato si è mosso? Pare di no. Eppure tante volte, in passato, si mosse, specie durante l’era Berlusconi. Mi ricordo che ci chiamò tutti a piazza del Popolo per protestare contro la Rai che non aveva ancora fatto il contratto a Marco Travaglio, il quale era nella squadra di Michele Santoro. Giusto, aveva ragione il sindacato a protestare, perché era legittimo il sospetto che la Rai non facesse il contratto a Travaglio per non fare un dispetto a Berlusconi, al quale, sicuramente, Travaglio stava sulle palle. E Barbano? Se stai sulle palle a Di Maio non è un problema?

Il problema sta nel fatto che la perdita di Barbano è un colpo serissimo allo schieramento, piccolo piccolo, dell’informazione liberale. Facciamo finta di niente? Come quando Starace, nel 1925, pretese la testa dei fratelli Albertini ( editore e direttore del Corriere della Sera) e la ottenne dalla famiglia Crespi?

Piero Sansonetti

da il dubbio

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