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È morto da solo, di cancro, al 41 bis: non ha potuto dire addio alla famiglia

Feliciano Mallardo, detenuto in regime di 41 bis, è morto a L’Aquila la notte del 26 maggio, nella cella detentiva dell’ospedale San Salvatore. Era gravemente malato, tanto che i suoi legali avevano da tempo chiesto la scarcerazione per incompatibilità con il carcere delle sue condizioni di salute. A sostegno della richiesta, la relazione sanitaria redatta dall’ospedale dell’Aquila, dove era ristretto proprio in ragione delle sue conclamate patologie: diabete, insufficienza renale, problemi cardiaci, un cancro polmonare scoperto quando aveva già raggiunto i 7 cm di massa con successive metastasi al fegato.

Prevedibile un “exitus improvviso”, si legge nell’istanza dei difensori che chiedevano anche al Tribunale di Napoli, avanti al quale si era concluso in primo grado il processo per cui Mallardo era detenuto, di autorizzare il proprio assistito ad incontrare i propri cari, senza vetro divisore. Nulla osta, aveva risposto il Tribunale di Napoli, ad un colloquio straordinario del Mallardo con i suoi stretti congiunti – la moglie e i figli – e aveva disposto la trasmissione urgentissima al Direttore del carcere competente all’autorizzazione. Non c’è stato il tempo.

Il carcere ha interpellato il Dap ma il parere, pur sollecitato, non è arrivato.

Feliciano Mallardo è morto da solo mentre i parenti, fuori dalla sezione blindata dell’ospedale, speravano nella possibilità di vederlo, un’ultima volta, di fargli una carezza, di lasciarlo spegnere con un sorriso e un abbraccio. Quello dell’avv. Barbara Amicarella, il legale che lo seguiva nel reclamo avverso il regime carcerario differenziato, l’ultimo sguardo che ha incontrato, il suo, il solo conforto che ha ricevuto. L’avevano visto venti giorni prima i familiari, per un’ora, dietro al vetro divisore.

Poco più di due mesi fa, era stato condannato in primo grado a 24 anni di reclusione nell’ambito del processo “caffè macchiato” per associazione a delinquere di stampo mafioso ed estorsione aggravata. Era in carcere dal 10 maggio 2011, giorno in cui fu arrestato dagli uomini della Guardia di Finanza in un appartamento dove si era rifugiato al terzo piano di una palazzina disabitata in via Sant’Agostino a Giugliano.

È morto un boss della camorra, scrivono i giornali. Ma è morto un uomo, in attesa di giudizio. È morto un uomo! E non gli è stato permesso di salutare nessuno, di parlare con una persona vicina, amica, cara. Di lasciare ai suoi familiari un segno, una parola, un pensiero.

Accadono cose come questa. Mentre si parla di carcere e di diritti umani, di rispetto della vita, della dignità, mentre si guarda con sentimenti nascenti – voglia Dio o chi per lui! – di orrore alla tortura nelle carceri e altrove, accadono cose come questa.

Appena un mese fa, a Cuneo, si era impiccato nella sua cella di massima sicurezza, Palmerino Gargiulo, un detenuto campano di 53 anni, sottoposto al regime detentivo del 41 bis e condannato all’ ergastolo, dopo un periodo di isolamento interrotto dall’autorità giudiziaria in virtù della riscontrata esistenza di patologie psichiatriche e di tendenze autolesionistiche. Ne aveva dato notizia il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. Donato Capece, segretario generale del sindacato, aveva commentato: «Purtroppo, il pur tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari non ha potuto impedire che l’ uomo, che era in cella da solo, mettesse in atto il tragico gesto». Tempestivo. Eppure un uomo è morto suicida, un uomo che in ragione delle sue patologie non doveva, non poteva essere isolato in un regime di carcerazione che ha come essenza vistosa l’annichilimento dell’essere umano, la privazione degli stimoli, l’annientamento degli istinti, perfino dei pensieri.

Ma la Costituzione si ripiega su se stessa col ricorso a concetti di discrezionalità amministrativa: la perequazione di interessi pubblici. A fronte di un interesse giudicato dominante, l’incolumità pubblica, possono essere sacrificati i diritti supremi dell’uomo, alla salute, all’espressione del pensiero, alla famiglia, perfino alla vita. La sicurezza è la bandiera che viene sventolata ai nostri occhi. È un’astrazione comune, collettiva. Uno spettro che tutti unisce e raccoglie e abbacina. Le nostre vite al sicuro, i nostri figli al sicuro. È un baluardo emotivo, sofisticato e viscido che tocca corde sensibili e rende gretti, meschini, ciechi.

Il 41 bis è consapevole, tracotante sintomo ed espressione di tale rassegnata grettezza.

La sicurezza, origine e legittimazione di una carcerazione ferocemente afflittiva, assume contorni del tutto sfumati e sfocati e inalvea ogni genere di oppressione, privazione, repressione. Il trattamento penitenziario, ciò che umanizza il carcere offrendone la polverosa apparenza giustificatrice di strumento di rieducazione e di reinserimento, può essere sospeso in tutto o in parte, nei confronti di detenuti che, in situazioni di vistosa emergenza, destino particolare e motivato allarme per l’incolumità pubblica. Ma la repressione, il contenimento dell’emergenza devono arrecare alla persona ristretta soltanto quelle limitazioni utili ad impedire la persistenza dell’agire criminale. Solo quelle. Lo dice con una timida astrazione di principio la corte costituzionale ribadendo ogni volta la legittimità rispetto alla Costituzione, della norma di ordinamento penitenziario che tali limitazioni contempla, l’art. 41 bis.

Il detenuto in 41 bis può ricevere dall’esterno meno vestiti e meno cibo. Può trascorrere all’aperto un’ora al giorno, in uno spazio infimo e grigio, spesso con il cielo oscurato, nel momento deciso dall’amministrazione penitenziaria, che piova o ci sia il sole. Può incontrare solo i detenuti della sua sezione detentiva, tre oltre a lui, ogni giorno, per anni, gli stessi. Non può avere un fornelletto in cella per cucinare alcunché, esprimere nella cucina un briciolo di creatività, occupare il tempo, aspirare alla soddisfazione di un piacere. Deve sottoporre a censura la corrispondenza che invia e che riceve subendo, a volte, il trattenimento di una missiva il cui significato appare ambiguo al censore di turno, magari per la calligrafia incerta di una madre anziana e malata. Deve attendere tempi infiniti se ha bisogno di un medico esterno finché è autorizzato dal Dap., mentre la malattia non aspetta, la morte non aspetta. Deve vedere i propri familiari per una sola ora al mese dietro un vetro divisore o, in alternativa, può chiamarli al telefono, presso altro carcere, per dieci minuti.

Se il detenuto in 41 bis è padre o madre, potrà toccare i suoi bambini minori di dodici anni. Sarà un agente penitenziario a porgerglieli, attraverso la finestra che si può aprire e che viene immediatamente dopo richiusa. Fino a dodici anni. A tredici saranno adulti e pericolosi e non potranno più ricevere una carezza dal loro familiare recluso.

Quale l’utilità, a fini di prevenzione, del ridimensionare l’aria, il vitto, l’abbigliamento, la possibilità di cucinare, di essere curati, il tempo da trascorrere con i propri congiunti, i minuti contati da un agente che vigila e che si aggiunge all’occhio fisso della telecamera per tenere in braccio un bambino? Oggi che tutto è ascoltato, video registrato, spiato.

Quale l’ottica di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblici, leggibile nelle limitazioni ulteriori apportate dalla legge del 2009 alla carcerazione in 41 bis attraverso la riduzione delle ore di socialità e di passeggio da quattro a due?
Il detenuto resta all’interno della propria cella per 22 ore al giorno. Ha due ore soltanto da distribuire tra “aria” e “socialità”, “attività diverse” dalla cella che si riducono assai spesso all’accesso ad una biblioteca fornita di pochi e malconci volumi consultabili; nessun utilizzo di p.c. neppure a scopi di formazione e di istruzione per gli iscritti alle università che spesso vedono mortificati anni di studio e di sacrificio, anche economico, dallo sbarramento imposto all’accesso ad attività informatiche o di laboratorio richieste dagli Atenei per perseguire l’obiettivo didattico. Nessuna struttura per attività fisica.

Quale il senso del divieto di ricevere stampa di qualsiasi genere – libri, giornali, abbonamenti – dall’esterno e della imposizione dell’ obbligo di acquistare tali beni unicamente attraverso il carcere utilizzando il denaro che è consentito avere sottraendolo ad altre piccole necessità del quotidiano?

La risposta è, purtroppo, una soltanto: deprivazione sensoriale, sottrazione dell’emozione, del desiderio, della speranza, del sé. Tortura, ecco tutto.

Tratto da – Il garantista

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