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Il diritto penale del nemico. A 18 anni dal G8 di Genova

Il contributo di Livio Pepino al convegno “Lo stato penale di polizia: modello di gestione dell’ordine sociale e programma politico in atto”, che si è tenuto a Genova il 19 luglio 2019

Genova 2001 è, nelle politiche di ordine pubblico e nella repressione penale, uno spartiacque.

Basta segnalare alcuni aspetti:

– le zone rosse. Non sono state inventate a Genova, ma da Genova in poi sono diventate in Italia, seppur diversamente congegnate, una sorta di “regola”. Gli esempi sono moltissimi ma su tutti spicca quello delle 39 (se non ho perso il conto) ordinanze prefettizie – emesse in via di necessità e urgenza (sic!) – che, dal 2011 ad oggi, senza soluzione di continuità, hanno trasformato l’area circostante il cantiere TAV della Maddalena di Chiomonte in una gigantesca zona inaccessibile;

– le modalità di gestione della piazza, in cui la “gestione concordata” è stata sostituita dalla contrapposizione frontale con uso massiccio della forza (anche con nuovi strumenti di offesa e con lacrimogeni a gogò). So che non tutti sono d’accordo sul punto (lo sottolinea in particolare da Donatella Della Porta, mentre non vede grande discontinuità Novaro). Ma certo le speranze di cambiamento conseguenti alla smilitarizzazione e alla sindacalizzazione della polizia (risalenti  a vent’anni prima) si è sono definitivamente infrante a Genova;

– l’intervento massiccio dei media a sostegno delle politiche di ordine pubblico. Anche qui non è una novità assoluta ma quel che è stato detto e scritto nei giorni che hanno preceduto le manifestazioni di Genova è – in quantità e in qualità – un vero e proprio caso di scuola (che dovrebbe essere studiato nelle scuole di giornalismo). Certo c’è stata ancora la (inevitabile) parola delle immagini sulla mattanza della Diaz ma è stata contemporaneamente sdoganata una narrazione senza precedenti (basti pensare al commento dell’ineffabile Emilio Fede nel lungo telegiornale pomeridiano del TG4 del 20 luglio secondo cui: «Quelli che stanno protestando sono drogati, pezzenti, bande di delinquenti che dovrebbero essere arrestati e tenuti in galera a vita»). E, in ogni caso, da allora l’informazione embedded, quasi una informazione “di guerra” è diventata la regola;

– il progressivo cambio di segno della legislazione penale. A margine di Genova partono le iniziative legislative che – dopo la stagione delle depenalizzazioni dei decenni precedenti – aprono la stagione che arriva fino alle follie repressive dei vari decreti sicurezza (e non solo) dei giorni nostri;

– il delinearsi di una sorta di continuum tra l’operato della polizia e della magistratura inquirente (ancora limitato e controverso a Genova, per l’atteggiamento di alcuni gip) che sta diventando la costante nei processi in tema di ordine pubblico.

Mi soffermerò in particolare sulla costruzione del diritto penale del nemico intervenuta da Genova in poi (in particolare in Val Susa) nella giurisdizione: sia perché questo è il settore che più conosco (o ho conosciuto) direttamente sia perché – come ha scritto anni fa Achille Battaglia ‒: «Per comprendere veramente che cosa accada in una società durante un periodo di crisi poco giova l’esame delle sue leggi, e molto di più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e le sue velleità. Le sentenze ci dicono anche quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o abbia resistito».

Ecco, dunque, alcuni elementi che, a partire dal 2001, segnano la repressione penale nel nostro Pese:

  1. il numero massiccio di denunciati e indagati e le modalità di gestione dei processi (con corsie preferenziali e disparità di trattamento) che rendono evidente – al di là delle affermazioni degli inquirenti – come l’intervento giudiziario sia diretto non tanto contro i singoli quanto contro i movimenti che essi rappresentano:

– a Genova  sono stati denunciati, tra il 20 e la notte sul 22 luglio, 253 manifestanti (di cui 93 nel corso della perquisizione alle scuole Diaz e Pertini la notte sul 22). Ad essi vanno aggiunti 49 arrestati nel giorni successivi (soprattutto cittadini stranieri che si stavano allontanando da Genova). Da notare che dei 253 arrestati 28 sono stati posti in libertà direttamente dalla Procura che ha chiesto, per gli altri 225, la convalida dell’arresto. I gip non hanno convalidato 76 arresti; alle 149 convalide hanno fatto seguito 100 scarcerazioni  per mancata emissione di misure cautelari, 29 misure cautelari non detentive e 20 applicazioni della custodia in carcere;

– in Val Susa in 8 anni (dal 2011 al 2018) gli imputati sono stati poco meno di  2.000 (con una punta di 327, quasi uno al giorno, nel 2011). Se si guarda al territorio e alla popolazione interessata c’è una incidenza percentuale che non ha pari nemmeno nei territori di mafia. E la cosa diventa ancora più impressionante che si guarda alle misure cautelari complessivamente irrogate che sono centinaia (anche se non ne è stato mai fatto un conteggio completo);

– nelle manifestazioni organizzate dal sindacalismo autonomo tra Lombardia ed Emilia le denunce dal 2014-2015 ad oggi sono state diverse centinaia in 100-150 processi (dato tratto dall’intervento dell’avv. Mauro Straini).

Quanto alle corsie preferenziali: a Torino i processi a esponenti del movimento No TAV hanno visto per anni un pool ad hoc e tempi rapidissimi (anche per reati bagatellari come il taglio delle reti) a fronte non solo di altri reati ma anche dei reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine (sostanzialmente non perseguiti: “Archiviato”).

  1. la dilatazione impropria del concorso di persone nel reato, con una sorta di proprietà transitiva in forza della quale la responsabilità viene estesa a tutti i partecipi a manifestazioni nel corso delle quali vengono commessi reati, pur in assenza di specifiche condotte individuali antigiuridiche e/o della prova di un previo accordo con gli autori dei delitti commessi, è, nella nostra storia nazionale, un classico. Due casi per tutti:

«È ragionevole ritenere che nel caso in cui la G. avesse avuto intenzione di limitarsi a manifestare pacificamene, non appena la manifestazione ha assunto carattere violento si sarebbe allontanata»

(ordinanza Tribunale del riesame di Torino, 22 settembre 2011).

«È superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano»

(ordinanza Giudice per le indagini preliminari Torino, 20 gennaio 2012).

L’impostazione sottostante a questi provvedimenti, ineccepibile in caso di accertato accordo tra tutti i manifestanti per aggredire le forze di polizia, è infondata ove la sola intenzione comune ai dimostranti (risultante dall’espressa rivendicazione dei protagonisti e/o da fatti concludenti) è quella di disturbare le operazioni delle forze dell’ordine, di compiere azioni dimostrative contro le reti del cantiere e anche di raggiungerle e tagliarle. In mancanza della prova di un accordo, il ritenuto concorso in tutte le violenze operate nel contesto di riferimento e nelle lesioni ivi riportate da operatori di polizia è frutto di un teorema che attenua, a dir poco, il principio del carattere individuale della responsabilità penale introducendo nel sistema una sorta di anomala «responsabilità da contesto» e dilata il potere discrezionale di polizia e PM nella scelta di chi imputare e di chi lasciare indenne);

  1. 3. la ritenuta idoneità a integrare alcuni reati tipici del conflitto sociale di condotte costituenti esplicazione di diritti fondamentali. È il caso delle contestazioni dei reati di resistenza o violenza a pubblico ufficiale e di violenza privata in cui ai fini della sussistenza del reato viene evocata la «minaccia implicita determinata dal numero di persone schierate». Evidente la forzatura e la sostanziale cancellazione di diritti costituzionali fondamentali, posto che le manifestazioni e i picchetti prevedono per definizione la presenza di più persone. Eppure ciò accade abitualmente nella repressione del movimento No Tav e in quella dell’antagonismo sociale ma anche numerosi processi per picchettaggio (anche qui traggo l’informazione da avv. Straini e da sentenze da lui citate). Da notare come questa costruzione della violenza stride anche con la dottrina più classica (cfr. voce VIOLENZA in Diritto e Neppi in n. 1 Questione giustizia);
  1. il ricorso a fattispecie di reato (a dir poco) sovradimensionate. Il caso della contestazione a Genova della devastazione (anziché del danneggiamento aggravato, con l’enorme diversità della pena prevista) è già significativo. Ma il massimo dell’esemplarità sta nella contestazione a quattro attivisti della Val Susa dei delitti di «attentato per finalità terroristiche» (art. 280 codice penale) e di «atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi» (art. 280 bis) in relazione a un “assalto” al cantiere della Maddalena realizzato mediante il superamento delle reti e l’incendio un compressore da parte di alcuni mentre gli altri impedivano l’intervento degli operai e degli agenti di polizia con il lancio di artifici esplosivi e incendiari, senza lesioni di sorta per alcuno. Evidenti i reati di danneggiamento aggravato e di violenza a pubblico ufficiale, ma cosa c’entra il terrorismo? Eppure esso viene evocato facendo ricorso a due argomenti grotteschi: a) l’idoneità del fatto ad arrecare un grave danno al Paese (con il venir meno della sua immagine, in ambito europeo, di partner affidabile »); b) l’attitudine dell’attacco al cantiere, in considerazione delle sue modalità e coerentemente con l’obiettivo perseguito, a intimidire la popolazione valsusina e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle attività necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione. L’infondatezza dell’impostazione ha determinato l’esclusione del reato in tutti i gradi del giudizio e da parte della Corte di legittimità[1] ma la contestazione non è rimasta senza effetto sortendo numerosi effetti: a) un anno di carcere duro per gli imputati, in condizioni di sostanziale isolamento; b) un anno di massacro mediatico per gli imputati e per l’intero movimento No Tav; c) la possibilità di procedere a intercettazioni telefoniche sostanzialmente illimitate nei confronti di interi settori del movimento; d) l’effetto di induzione per i giudici, pur nel momento in cui escludono il reato, a mantenere livelli di pena più elevati del consueto per i reati residui (con un processo psicologico automatico seppur inconscio);
  1. l’uso massiccio, anche nei confronti di incensurati, di misure cautelari trasformate da extrema ratio in regola con torsioni gravissime, strappi evidenti anche alla legalità formale e passaggi motivazionali a dir poco paradossali, come quello secondo cui: «la custodia cautelare in carcere è il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le suddette consistenti ed impellenti esigenze cautelari» (ordinanza TL Torino 8 febbraio 2012):
  2. a) le misure sono state fondate pressoché sempre sulla pericolosità sociale (rischio di commissione di analoghi reati) così trasformando le misure da strumenti interni al processo in misure di polizia. Anche qui con esplicite ammissioni negli stessi provvedimenti applicativi. Per esempio, nell’ordinanza 20 gennaio 2012 il gip di Torino lo dice quasi con candore, attribuendo alla misura applicata una valenza di diretta e immediata tutela dell’ordine pubblico e individuando in modo esplicito il movimento No Tav e la sua azione di protesta come pericoli incombenti: «I lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati; per altro, il movimento No Tav ha pubblicamente preannunciato ulteriori iniziative per contrastare i lavori»;
  3. b) l’individuazione dei destinatari delle misure è avvenuta per lo più in base al principio del tipo d’autore: la pericolosità è stata spesso tratta da segnalazioni di polizia risalenti anche a molti anni addietro (senza verifica dell’esito dei conseguenti processi). Si è arrivati finanche alla sottolineatura della pericolosità di un indagato incensurato (ancorché gravato da tre denunce, due delle quali risalenti ad oltre sette anni addietro) desunta dalla circostanza che «nel 1970 è contiguo ai movimenti della sinistra extraparlamentare “Lotta continua” e “Potere operaio” e partecipa a una manifestazione non preavvisata all’autorità di pubblica sicurezza, promossa dai predetti movimenti» (gip Torino, 20 gennaio 2912). Si noti che quell’imputato sarà condannato, nel giudizio di primo grado, a 2 mesi di reclusione;
  4. c) la motivazione è diventata sempre più pura formula di stile: per esempio in ordine alla esclusione del giudizio prognostico di concedibilità della sospensione condizionale della pena (che osterebbe all’applicazione della custodia in carcere). Esemplare il caso dei 25 imputati sottoposti alla misura della custodia in carcere per resistenza e violenza a pubblico ufficiale in relazione allo sgombero del cantiere della Maddalena del 27 giugno 2011 e alla successiva manifestazione del 3 luglio: come era ampiamente prevedibile nonostante il clamore degli inquirenti e dei media, all’esito del giudizio di cassazione (definito con sentenza 27 aprile 2018) ben 4 sono stati assolti per ragioni di merito e 8 hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena mentre per 10 è stato disposto un nuovo giudizio per una più compiuta valutazione circa la sussistenza, con riferimento ad alcune delle imputazioni, della causa di non punibilità di cui all’art. 393 bis codice penale (che sussiste allorché «il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni»);
  5. d) l’aumento a dismisura delle misure cautelari non detentive, diventate, anziché un’alternativa al carcere una sorta di improprio percorso alternativo al processo a piede libero, spesso con una afflittività sproporzionata e inutile (per esempio la presentazione due volte al giorno a un ufficio di polizia distante 30 o 40 chilometri dal luogo di abitazione).
  1. l’affiancamento all’intervento penale di altri interventi repressivi ad hoc (che in alcuni casi hanno preceduto o accompagnato appositi interventi legislativi, come l’estensione dei luoghi in cui è vietato l’accesso per ragioni di sicurezza e quella dei Daspo) come:
  2. a) l’emissione di sentenze civili vessatorie nei confronti di manifestanti. È il caso della condanna al risarcimento del danno (quantificato in 191.966,29 euro e spese processuali) inflitta il 7 gennaio 2014 dal Tribunale di Torino – sezione distaccata di Susa a tre esponenti del movimento (tra cui un sindaco e un vicesindaco) per essersi opposti, insieme a molti altri, alla effettuazione, da parte di tecnici assistiti dalla forza pubblica, di sondaggi propedeutici alla costruzione della linea ferroviaria Nessuna analisi, in motivazione, sulle ricadute in concreto del doveroso bilanciamento tra interessi egualmente forniti di protezione costituzionale (il diritto alla salute e all’ambiente da un lato e quello di iniziativa economica dall’alto). Come dire che il mancato accesso di un camion in uno stabilimento a causa di un picchetto di lavoratori in sciopero comporta la responsabilità degli scioperanti presenti per tutti i danni conseguenti alla mancata produzione, anche di giorni o mesi, ricollegabile in qualche misura alla indisponibilità del materiale trasportato sul camion!
  3. b) l’emissione reiterata (in aggiunta alle misure cautelari) di misure di prevenzione o di polizia, in particolare l’avviso orale e il foglio di via, usate, soprattutto negli ultimi tempi, contro esponenti del movimento a cui viene intimato, con motivazioni tautologiche, di dimorare in un determinato comune e di astenersi dal frequentare determinati luoghi prossimi al cantiere, affiancando così la prassi, in occasione di manifestazioni, di fermare auto e pullman impedendone o ritardandone l’arrivo nel luogo dell’evento.

Livio Pepino

[1] L’abnormità dell’accusa di terrorismo è stata evidenziata in modo lapidario dalla Corte di assise di Torino nella sentenza 17 dicembre 2014 che, nell’assolvere gli imputati da tale reato, usa parole di elementare buon senso: «pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati da queste inaccettabili manifestazioni, non si può non riconoscere che in Val di Susa – e a fortiori nel resto del Paese ‒ non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e [dunque] se il contesto in cui maturò l’azione [degli imputati] non era oggettivamente un contesto di particolare allarme, neppure l’azione posta in essere rivestiva una “natura” tale da essere idonea a raggiungere la contestata finalità». Contro tale decisione hanno presentato appello i pubblici ministeri ma l’insussistenza del reato di terrorismo è stata confermata dalla Corte di assise d’appello di Torino, con sentenza 21 dicembre 2015, e dalla Corte di cassazione con sentenza 28 marzo-28 settembre 2017 (dopo analoga sentenza 15 maggio-27 giugno 2014, emessa in sede cautelare).

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